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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

17/10/2024

La scuola del PNRR che dimentica se stessa

Sono almeno tre decenni che due diverse visioni della scuola pubblica si confrontano e si combattono in Italia: l'una, che vede nella realizzazione dell'uguaglianza sostanziale ex art.3 della Costituzione il fine dell'istruzione pubblica e lo persegue tra successi e sconfitte, dagli anni '60 e dai c.d. "Decreti Delegati", di cui ricorre  quest'anno il cinquantenario.
È la visione che guarda al dialogo tra diversi, alla partecipazione e all'inclusione di cittadinanza quale  fine ultimo dello spazio e del tempo scolastico.

L'altra, di derivazione neoliberista, punta invece sull'individuo e sulla competizione - anche se la definisce "competitività" - e si impone nel discorso pubblico attraverso l’enfasi sul cosiddetto “merito” che nei fatti, purtroppo, significa ratifica delle disuguaglianze di partenza.
Secondo questa seconda visione l'individuo, anche in tenera età, è responsabile dei propri successi e delle proprie mancanze, e come tale deve attrezzarsi, lasciando che sia poi il mercato a decidere di quali competenze e di quale “capitale umano” si abbia bisogno.  Ad essa sembrano iscriversi molti dei provvedimenti  "law ed order” degli ultimi tempi, attraverso i quali,  dietro il rassicurante messaggio di voler restaurare il rispetto smarrito per gli insegnanti, emerge l'incapacità della politica di affrontare le vere cause del disagio giovanile contemporaneo; insistere  sulla repressione e sulla ricerca di  un presunto rigore è ricetta che può piacere, sebbene, come sanno gli addetti ai lavori, non serva a granchè. Non crederemo infatti che la bocciatura col 5 in condotta, o la rieducazione dei Franti contemporanei con componimenti di educazione civica possa riportare nella scuola e nella società i sani valori smarriti. 

In questa contrapposizione, battaglia dove nessuno vince, la scuola rischia però di perdersi, come sta annegando dietro il profluvio di risorse del PNRR, neo-centralisticamente indirizzate agli istituti perché le spendano di corsa in progetti che, anche se animati di buone intenzioni, rischiano di esser distanti dai bisogni delle comunità scolastiche. Non si può negare che alle scuole i soldi facciano comodo, e che sia pur giusto pagare decentemente i docenti per i loro numerosi impegni extracurricolari:  ma tanti, troppi soldi, distribuiti a pioggia, con l'obbligo di spendere in fretta su predeterminate azioni e acquisti e con farraginosi vincoli, stanno letteralmente "anestetizzando" quel poco che restava di pensiero critico autonomo e dell'agognata autonomia didattica, di ricerca, di sviluppo. Esautoramento della discussione collettiva, inseguimento della performance.
Non voglio generalizzare, ovviamente: vi sono scuole che stanno facendo cose buone e progettate con serietà. Ma quando leggiamo “linee operative” ministeriali che nascono come indicazioni e diventano obblighi insensati, anzi veri e propri capestri per le segreterie, gli staff e le dirigenze,  ci coglie un cupo presentimento: dalla scuola che si apre al mercato siamo passati  alla scuola che diventa IL mercato. 

E così, in questa folle corsa, la scuola dimentica di essere comunità e l'individualismo può prendere il sopravvento. Ci si aspettava un ampio dibattito sul nuovo disegno sulla valutazione, o  semmai sulle nuove modalità di reclutamento o di aggiornamento in servizio dei docenti, assai discutibili, o sul significato profondo della cd. transizione digitale, o ancora sulla riforma dei professionali. E perché no, anche sulle stragi in atto nel mondo, che accadono sotto i nostri occhi mentre ci ubriachiamo acquistando nuovi giocattoli digitali. Poche e tiepide reazioni. Come se nulla stesse accadendo.

E vien da chiedersi se, secondo la lezione del Gattopardo, si cambia tutto, ogni volta, perché nulla in realtà cambi. Oppure perché il  progetto è un altro, e sa tanto di superamento definitivo della visione di  scuola pubblica per la quale abbiamo lottato.
E se questo silenzio si verifica  in una comunità da sempre vigile e consapevole  dal punto di vista culturale,  qual è  quella dei docenti, cosa può accadere nell'opinione pubblica generalista?

Il 17 ottobre, al liceo Genovesi di Napoli, in un incontro pubblico, aperto, organizzato da associazioni di insegnanti come il CIDI, l’ADI-SD, INSEF, Domenico Chiesa e Cristiano Corsini (tra i pochi ad aver preso pubblicamente parola, in direzione ostinata e contraria) hanno deciso di discutere di quel che sta accadendo a partire da una domanda: cosa è rimasto della scuola pubblica democratica a 50 anni dai decreti delegati, a 25 anni dell'autonomia? Ecco, ci piacerebbe innanzitutto capirlo insieme, e, con lo spirito di chi non teme il conflitto anche duro,  lottare per salvaguardarlo.

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Insegnante di liceo, collabora a contratto con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune. Attualmente è dirigente scolastica a Torino. 


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

Leggi la recensione su insegnare di Rosanna Angelelli

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