Dopo la diffusione della notizia del procedimento disciplinare di sospensione per tre mesi "inflitto" a Christian Raimo, insegnante, scrittore e attivista politico, per le espressioni da lui rivolte al ministro Valditara durante un dibattito politico promosso da AVS, sono fioccate numerose, come è prassi frequente, lettere di solidarietà, da parte di associazioni di categoria professionali, di sindacati e partiti, di singoli colleghi, di opinionisti, di cittadini.
Alcuni, più convinti e battaglieri, hanno visto nell'attacco a Raimo un sopruso politico, un atto di intimidazione, che rimandava alla censura politica di stampo fascista; altri, più moderatamente, forse perché non guardano al codice deontologico come inutile orpello, hanno osservato che, per quanto non fosse appropriato da parte di uno che di mestiere fa il docente usare un linguaggio così ‘colorito’ per esprimere le sue critiche, in ogni caso, fuori dal suo scranno, egli potesse pensare e dire quel che voleva : in altri termini, che sia l'art.21 della Costituzione, sia il codice deontologico vigente erano stati, molto superficialmente, l'uno ignorato e l'altro male interpretato dai solerti funzionari dell'Ufficio scolastico del Lazio, apparsi più realisti del re. Io mi iscrivo a questo secondo gruppo, e, lo confesso, non ho simpatia per gli eccessi di espressività che talora in alcuni personaggi pubblici (anche di una certa levatura intellettuale) danneggiano la forza delle loro buone argomentazioni critiche.
Ma comunque, uscendo dalla cronaca e riflettendo alla giusta distanza, mi viene da pensare che le cose andrebbero guardate in modo più approfondito.
Fermo restando il diritto di espressione del pensiero, difeso dalla nostra Costituzione e come tale inviolabile, può bastare l'espressione di una generica (e spesso retorica) solidarietà morale per affrontare quanto sta accadendo alla scuola italiana? E per la precisione, cosa si intende quando di parla di solidarietà, se non vi fa seguito alcuna azione di concreta adesione?
È evidenza - anche giuridica - che la solidarietà ha un intimo legame con la partecipazione, intesa come condivisione di pratiche oltre che di idee, di cittadinanza attiva. Questi due termini, solidarietà e partecipazione, rimandano immediatamente ad una dimensione che proietta il singolo cittadino all’appartenenza ad una collettività ed al mutuo sostegno tra i suoi membri, nonché alla consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri nel partecipare alla vita democratica nei luoghi ad essa deputati... Ebbene, nella scuola italiana, sono 50 anni che questo luogo di partecipazione e condivisione è il Collegio dei docenti. È lì che si può e si dovrebbe esprimere con forza, e fattivamente, il dissenso verso scelte politiche calate dall'alto che "abusano" del potere al fine di condizionare le finalità della scuola pubblica e del suo mandato costituzionale (e dunque la solidarietà agli argomenti di chi vi si oppone).
In altri termini, credo che oltre che di Raimo in quanto persona “offesa”, “censurata” e/o punita, l'intera comunità scolastica dovrebbe interessarsi delle cose che lo hanno spinto alla critica, ad evitare che il largo utilizzo di espressioni di solidarietà, finanche il loro abuso, finisca col rendere la stessa evanescente e confusa. Occorre domandarsi se, quando si parla di solidarietà, non si debba provare ad esplicare questo dovere in almeno due delle sue specifiche dimensioni, strettamente interconnesse: quella politica, riguardante la partecipazione alla vita pubblica, e quella sociale. Ed è la cittadinanza attiva, intesa quale partecipazione e coinvolgimento dei cittadini informati alla vita comunitaria l' espressione del principio e valore fondante della solidarietà, ed essa si caratterizza proprio quale insieme di azioni collettive e forme organizzative finalizzate alla tutela dei diritti.
Non solo va difeso il diritto di Raimo a dire quel che gli pare quando non è seduto in cattedra, ma anche e soprattutto il diritto della comunità scolastica, nella scuola autonoma, di non subire dall’alto l’erosione delle proprie prerogative su materie delicate, come - per citarne solo un paio - la valutazione o l'orientamento e la comunicazione con le famiglie.
Per questo sento fortemente il bisogno di parlare della sostanza e non solo della forma, della possibilità di resistere a certe visioni politiche e non solo del diritto di criticarle: esaurita la solidarietà per il diritto e la libertà di espressione (come anche su questa rivista è stato fatto), ci si dovrebbe pronunciare e agire sui fatti. Credo fortemente che tutti noi, militanti orgogliosi della scuola pubblica, servitori dello Stato convinti di svolgere un compito fondamentale per la Repubblica, ci si debba impegnare finalmente a parlar chiaro e ad alta voce di ciò che sta accadendo, a preferire la voce alta al mormorio scontento, e a non farci distogliere dall’obiettivo di condurre una critica costruttiva che rinforzi le capacità di resilienza collettiva alla crisi di visione che stiamo vivendo. Ad essere sinceri, più che di crisi di visione, sarebbe corretto definire il nuovo corso delle politiche dell’istruzione e del “merito” una sostituzione di visione, un capovolgimento del paradigma della scuola democratica finalizzata all’emancipazione dei cittadini che ci ha guidato (seppure a fatica) nell’età repubblicana.
Dobbiamo riprendere il filo del confronto e dell’azione su interventi e riforme che avevano concentrato la propria attenzione sul superamento delle disuguaglianze che il sistema stesso, la scuola stessa, rischiava di perpetrare agendo in modo canalizzante e escludente; riforme che hanno dato alla scuola, attraverso i Decreti Delegati prima e l’autonomia poi, il compito (di certo non semplice) di farsi baricentro dei territori per promuoverne lo sviluppo, attraverso la sussidiarietà e attraverso scelte intenzionali e responsabili indirizzate alle nuove generazioni.
Già nel 1972 gli studi di Coleman e Jencks avevano dimostrato che la scuola spesso non fa che ratificare le disuguaglianze di partenza; nei decenni successivi - con forze impari- la scuola ha cercato di diventare motore e non fotografia della realtà, di non farsi travolgere dall’uragano della complessità, dalle nuove sfide che le venivano ogni giorno poste, ma è riuscita solo a scalfire, non ad abbattere il nesso tra povertà materiale e povertà educativa. Per questo motivo, orientare è un compito centrale per chi fa scuola. L’orientamento dovrebbe essere il modo in cui si rinforzano le competenze di cittadinanza in chi parte svantaggiato, e gli si prospetta di poter superare in via definitiva quello svantaggio, che è culturale, sociale ed economico.
Quando leggiamo la lettera di Valditara indirizzata alle famiglie per “indurle” a scegliere la filiera professionale e degli ITS in vista della più sicura richiesta del mercato del lavoro, quando tra le righe vi leggiamo che il percorso liceale è sconsigliato a chi vuole lavorare, ci sorge immediata una domanda: quale idea di società c’è dietro questa lettera? Ma solo noi addetti ai lavori ci accorgiamo che la crisi dei tecnici e dei professionali dipende non dai percorsi (dignitosissimi ed estremamente complessi) ma dal vulnus che non si è mai voluto affrontare sin dai tempi della Moratti, ovvero il pregiudizio che vi aleggia intorno, assai diffuso tra i benpensanti, in base al quale quei percorsi sono da “sfigati”, sono fatti per chi non ce l’ha fatta, sono rivolti a chi deve lavorare? Pregiudizio che si accompagna con la tendenza ad orientare e canalizzare in quelle scuole, in quegli indirizzi, tutte le persone in condizione di difficoltà (i cosiddetti BES) o che si ritengono “inadatti” alla prosecuzione degli studi (forse non se lo “meritano”?). Col risultato che molti non li proseguono, infatti: che se ne vanno via prima, al più presto, ora per lavorare, ora per disperdersi nel numero crescente del NEET.
Quando con una lettera ai genitori si scavalcano i collegi per dare consigli ai “consumatori”, e in più si fornisce alle scuole un modello centralizzato di “consiglio” orientativo da compilare, uguale per tutti, che semplifica, canalizza e divide; quando si sommergono le scuole di denaro per aggiungere 30 ore di orientamento ai percorsi (il solito metodo additivo…), invece di avviare una riflessione su cosa sia e come si realizzi una didattica orientativa che faccia nascere dall’interno dei saperi passione, desiderio e consapevolezza del sé; quando ci si dimentica, nel fiume di denaro erogato, del biennio, che è il cuore del momento di crescita scolastica in cui ci si orienta o disorienta, e fino a prova contraria è scuola dell’obbligo: si sta rendendo un buon servizio alla scuola pubblica e al suo mandato costituzionale? Onestamente non credo: ma il collegio è e resta sovrano nel decidere che fare e come fare.
Mi viene da pensare che (come spesso verifichiamo anche nei dibattiti televisivi sulla scuola), della scuola pubblica - e di chi ci lavora- non ci si fida. Ho l’impressione che gli atti ministeriali siano espressione di questa sfiducia, anzi forse fondino la propria forza sulle difficoltà che la scuola da sempre ha ad affrontare certi argomenti e certe debolezze. Abbiamo usato male in passato gli strumenti della didattica orientativa; abbiamo reiterato, con buona pace di Don Milani, giudizi orientativi in terza media o nella prima classe delle superiori che scoraggiavano ragazzi e ragazze a investire su di sé, a provarci, a ‘venire fuori’ (etimologia di educare…). Riusciremo oggi a reagire valorizzando le nostre prerogative e le proprie capacità progettuali e critiche?
Dobbiamo sperarlo. Dobbiamo sperare che al malumore, alla critica e al lamento per come vanno male le cose e per come va il mondo, si intrecci un impegno concreto e fattivo perché le cose cambino. Nel contempo dobbiamo sperare che l’ubriacatura di denaro a progetto non dequalifichi ancora una volta i percorsi curricolari a favore dell’extracurricolare. Che il PTOF non diventi tutto un baraccone di “lucine colorate”, come lo sono stati finora i “capolavori” imposti agli studenti del triennio. I soldi servono sempre, per carità: sapremo usarli senza farci trascinare in un ennesimo insulso mercato?
Ultima nota in chiusura: forse dovremmo sperare anche su un altro fronte: per aggiungere un altro esempio, relativo alla scuola primaria (non ci si fa mancare nulla, di questi tempi…), dovremmo auspicare che i collegi dei docenti esprimano posizioni coerenti e responsabili sulla scelta dei criteri di valutazione a loro demandati, prima di procedere ai cambiamenti imposti dalla recente normativa. La L.150/2024 ha reintrodotto i giudizi sintetici, ma accanto ai livelli descrittivi dell’acquisizione di competenze: per chi un po’ mastica di scienza della valutazione, quell’articoletto di legge (inserito nel più grande progetto “law and order” del voto in condotta) ha sommato “le mele e le pere”, come diceva la mia maestra delle elementari per sottolineare un’addizione sbagliata. Gli addetti ai lavori però dovrebbero aver chiaro cosa sia la valutazione formativa, quel processo continuo, insito nell’insegnamento/ apprendimento, che sospende il giudizio per consentire di migliorare, perché si possa imparare dai propri tentativi ed errori senza sentirsi sanzionati o puniti. I docenti, se consapevoli, non sono tenuti a sostituire nel proprio quotidiano scolastico questa modalità di valutazione, che è formativa, e lo è anche per loro, con lo strumento del giudizio sommativo tanto voluto da questo Governo: ma sarebbe molto bello che questa scelta di resilienza avvenisse non a livello individuale, ma collettivo. Accadrà?
Si apriranno discussioni e dibattiti su cosa è meglio per i nostri allievi e le nostre allieve? Ci si interrogherà su cosa sia la valutazione e l’orientamento in un mondo che cambia ed ha bisogno di persone con strumenti critici e non strumentalità funzionali?
In un passato recente si è sperato anche che la scuola sapesse reagire con fermezza e dignità culturale alle Linee Guida per l’educazione civica, e già si profila un ulteriore terreno di ipocrisia istituzionale: le inimmaginabili strade di applicazione dell’attenzione alle competenze non cognitive! Non dall’interno dei saperi e delle pratiche scolastiche, ma attraverso altri progetti extra!
Forse è venuto il tempo che la scuola, oltre ad esprimere solidarietà a chi è punito per aver criticato il Governo, cominci a rivendicare una maggiore attenzione alla propria dignità, ai propri tempi, al proprio progetto. E per quelle comunità scolastiche e quei collegi docenti che la fiducia nella dignità del proprio ruolo non l’hanno mai persa è venuto il tempo di pronunciarsi sui fatti, oltre che sul diritto di criticarli.