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10/10/2023

La piazza educativa

di Giuseppe Bagni

La rete interassociativa e interistituzionale di educAzioni, nata nel 2020 in fase di stravolgimento pandemico, ha coinvolto vari soggetti, tra cui chi scrive, alla stesura di un vademecum per i patti educativi territoriali. Perché un vademecum? Perché siamo convinti che non ogni accordo territoriale è educativo ipso facto, e d'altra parte questi dispositivi hanno bisogno di risorse economiche e organizzative adeguate, altrimenti non riescono a prendere vita.

Si parla molto di povertà educativa, di dispersione, di inclusione come se fossero fenomeni che riguardano solo la scuola, mentre bisogna cambiare punto di vista, volendo affrontare realmente la questione. Le cause tanto quanto le conseguenze investono l’intero territorio di cui la scuola è un elemento tra molti altri. Sono fenomeni complessi che vanno affrontati in primo luogo nella scuola, ma la scuola non può bastare. Se ne deve far carico quella che si potrebbe metaforicamente definire la “piazza centrale” di ogni paese, quello spazio essenziale per la vita delle comunità su cui si affacciano gli edifici del Comune e della Scuola, la Chiesa e i Centri del volontariato e Circoli sociali.
È la piazza in cui i genitori si fermano a parlare in attesa dell'uscita di scuola dei figli, e dove questi si fermano a giocare tra loro il gioco libero dalle regole dell'ora di educazione fisica.
Questo luogo metaforico, che oggi è diventato un “non luogo”, per dirla con Augé, con le scuole spostate nelle periferie dominate da centri commerciali e dell'intrattenimento, deve raggiungere la consapevolezza di quanto sia indispensabile che tutti i soggetti siano coinvolti per riuscire a ristabilire l'unitarietà del processo educativo, che nelle mura della scuola ha un suo linguaggio specifico irrinunciabile, ma sa andare oltre quelle mura e trovare coerenza nell'intero contesto di vita di ragazzi e ragazze.

Troppo diffusa è l'idea che l'inclusione sia solo un problema scolastico; troppo spesso le istituzioni pensano di risolverlo mettendo l’etichetta “inclusione” in quelle scuole destinate ai futuri esclusi, perpretando quella segregazione scolastica che dura da anni.

Ecco quindi la necessità di una nuova alleanza, perché la scuola da sola non può farcela ma nessuno può farcela senza la scuola. Serve dar vita a progettazioni comuni che abbiano come riferimento l'intero percorso educativo nel senso di coinvolgere anche l'insegnamento delle discipline. Queste prevedono una precisa scansione interna, ma ogni qualvolta si può trovare un aggancio a ciò che è stato conosciuto in un'esperienza condivisa va sviluppato perché è fondamentale per dare senso allo studio. Solo così la teoria viene percepita dagli allievi come la liberazione dalla “prigionia del concreto” come scriveva Dewey. E nello stesso tempo, l'”extrascuola” smette di essere “extra” perché entra nelle discipline come oggetto di studio di un campo d'esperienza reale.
In altre parole, si può andare oltre il recupero di una piazza degradata, la costruzione di panchine e campi da calcetto là dove c'era il dominio dello spaccio: si può fare Storia a partire da origini di storie piccole, di paese o quartiere; si può fare Meccanica e Matematica a partire dalla progettazione delle panchine (i miei alunni lo hanno fatto ma senza calcolare il baricentro e collocarlo tra le 4 zampe la prima panchina si ribaltava..), o calcolando il rapporto tra i legni e la traversa della porta da calcetto e tra questa e le dimensioni dell'intero campo. Poi seguiranno gli esercizi di calcolo e tutto il resto che è necessario, ma avendo dato la consapevolezza le parti teoriche che sono necessari a produrre quegli automatismi cognitivi che sempre contraddistinguono un agire competente.

Qualcuno penserà che questo non riguarda la piazza, ma sbaglia: una scuola che fa scuola a partire dall'esperienza ha bisogno del territorio per trovare quelle competenze che strutturalmente le mancano. Oggi abbiamo una scuola dai confini incerti ma chiusi, mentre dovrebbe avere confini certi, con le idee chiare sul fatto che non tutto è scuola e non tutto può essere fatto a scuola - ma aperti.
I patti educativi devono vedere in gioco il meglio della scuola e il meglio del territorio: le lacune di una scuola non si coprono con un paio di progetti l’anno da mettere in vetrina nel PTOF, né tantomeno le agenzie formative e gli enti locali possono vedere nell’aggiudicazione di progetti l'unica ragione di vita.

Occorre condividere responsabilità facendo ciascuno al meglio la propria parte. Solo così si può agire didatticamente a monte e a valle del processo contro il disagio e la dispersione, amplificando le esperienze migliori di innovazione didattica, di curricolo verticale e sostenendo la necessità di un tempo scuola come “tempo disteso” e quindi di tempo pieno che comporta un forte impegno sulle mense.
I patti devono dare protagonismo a quelle scuole cercano significatività formativa attraverso la didattica reale, senza andare a caccia di un semplice ampliamento dell’offerta formativa che in realtà la indebolisce frantumandola in una miriade di progetti e progettini che hanno l'utilità di un’illustrazione nelle pagine del manuale scolastico.

Non è un'alternanza di esperienze tra scuola ed extrascuola che serve, ma un progetto educativo aperto dove ogni soggetto metta in campo le proprie specifiche competenze e le coordini con quelle degli altri. Senza deleghe di responsabilità o scorciatoie.
Serve un percorso scolastico interamente ripensato, continuo e coerente che dia cittadinanza nelle aule al bagaglio d’esperienze che ogni alunno e alunna porta con sé. Loro, nonostante le overdosi di connessioni che oggi li allontanano dietro l'illusione di essere perennemente insieme, restano esperti del territorio perché lo abitano e vivono.
Questo loro bagaglio è un materiale straordinario per fare scuola, ma che sia scuola vera senza sconti o annacquamenti.

Questa è l’unica strada per costruire una piena citadinanza negli allievi e nelle allieve che sentono di avere sopra i banchi una natura morta, mentre quella viva, personale, scorre nascosta nei loro sottobanco. Dobbiamo avere la forza di ribaltare i loro banchi permettendo loro di studiare a scuola quello che hanno incontrato anche altrove, per strutturarlo, formalizzarlo, comprenderlo in profondità.

Serve una scintilla che accenda il motore interno del loro apprendimento.

Nella piazza centrale del paese quella scintilla possiamo accenderla.

Parole chiave: città educativa

Scrive...

Giuseppe Bagni Insegnante di Chimica negli Istituti secondari, già Presidente nazionale del Cidi, già membro eletto del CSPI.

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