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opinioni a confronto

22/12/2020

Un po' di cronistoria tra tanti voti e poco giudizio

di Daniela Casaccia

Giugno 2020: abolizione del voto in decimi nella scuola elementare. 
Non andò proprio in un modo così netto, ma sicuramente questo fu il senso dei comunicati che nel complessissimo momento che stavamo vivendo mi colpì. Era infatti stata emanata la legge n. 41 del 6 giugno, che in deroga al decreto legislativo 62/17, varava il giudizio descrittivo nella scuola primaria.

Tardiva, inutile, parziale modifica.
Quale lo scopo, mi sono chiesta? Cosa ha spinto il ministero a creare fra gli insegnanti un ulteriore momento di sbandamento nel loro percorso già così provato da un susseguirsi di modificazioni “dall’alto”, senza tempo e contesto, senza richiesta di riflessione, senza un senso e un perché?

È nota a tutti la vicenda della valutazione in decimi. È nota a tutti la questione di prese di posizione di collegi, associazioni, singoli, contro la legge 169 del 2008. É noto a tutti, però, anche l’enorme sospiro di sollievo che da più parti si era levato, quando con quella legge si potè dire: “finalmente valutiamo come le superiori!”.

Ecco, invece, è forse noto a pochi quanta fatica fecero quegli insegnanti che, attenti ai Programmi dell’’85 della scuola elementare e del ‘79 della scuola media e alle Indicazioni nazionali del 2007 (poi riviste nel 2012), avessero con attenzione professionale lavorato per la costruzione di curricoli progettati con criteri di gradualità e ricorsività, con l’intento di “promuovere ” davvero la crescita di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, affidando alla scuola il compito fondamentale per l’intera società: la formazione di competenze culturali, il loro agito, in un mondo di cittadini e cittadine.
Quanta fatica fecero a ridurre in un numero il complesso processo di crescita che stavano mettendo in atto.

Ma tant’è, le capacità di adattamento, o meglio le richieste di adattamento ebbero la meglio e il senso comune, oltre che una visione del mondo ideologicamente neoliberista, dove “vinca il migliore” e “soccomba -peccato!- il poverino”, allineò tutti con allegria al triste schema del dare i numeri, che voleva dire alla lettera: "Consigli veloci, bando alle chiacchiere, un 4 è un 4, ma dài, però posso sforzarmi, lo porterò a 6 nel secondo quadrimestre, così premio l’impegno”.
Ma di quale impegno si tratta? Ci si è soffermati a sufficienza a riflettere  sull’ "impegno” e su chi ne sia l’autore? Del ragazzo, della scuola, dell’insegnante, del gruppo degli insegnanti, delle condizioni dell’insegnamento/apprendimento, della osservazione del diritto di quel ragazzo, di quella ragazza a crescere, ad avere opportunità, strumenti di vita reali?

Mi vengono in mente, in questi giorni di dibattito di nuovo aperto sulla valutazione, tutti gli sforzi dei miei primi anni di lavoro.
C’era in me la convinzione che la scuola costituisse il luogo unico e fondamentale di emancipazione di ciascuno, l’insieme delle possibilità perché le persone potessero crescere realmente nella costruzione di un futuro. Ciascuno aveva una sua peculiare caratteristica, ciascuno aveva il diritto allo studio, stava a noi, scuola dell’obbligo, garantire quel diritto, era nostro l’obbligo di creare le condizioni.
Ci ho creduto, ci ho lavorato, non ho mai promosso da una classe all’altra così meccanicamente, ma ho tentato, abbiamo tentato di mettere il maggior numero di ragazzi possibile  nelle condizioni culturali di affrontare la vita. 
Come? Progettando strategie, individualizzando i percorsi, sperimentando metodi, riflettendo sui risultati, nostri però, di noi insegnanti. E osservando i cambiamenti, rilevando successi, sottolineando momenti importanti, utilizzando l’errore per comprendere come modificare il processo.
E, naturalmente, confrontandoci, studiando, leggendo, magari litigando. Crescevano i nostri ragazzi e le nostre ragazze, ma crescevamo noi con loro.

Il momento della valutazione era il momento delicato e consapevole del processo messo in atto e dei risultati raggiunti. Si parlava, si scriveva, si descriveva ciò che si era modificato, quali erano state le condizioni e la azioni che avevano consentito il cambiamento  e si cercavano, si ri-cercavano modalità che fossero utili, che fossero riproducibili, che promuovessero una consapevole sedimentazione di cose imparate o imparate  a fare.

E venne la legge 517, era il 1977: non era solo la legge che eliminava le classi differenziali, era la norma che aboliva gli esami di riparazione e istituiva la scheda. Attenzione,  non la scheda di valutazione, ma la scheda personale dell’alunno contenente le notizie sul medesimo e sulla sua partecipazione alla vita della scuola, nonché le osservazioni sistematiche del processo di apprendimento e sul livello di maturazione raggiunto (artt. 4 e 6). Ci attivammo, ma come sempre nel passaggio dalla norma alla organizzazione pratica e  burocratica  e alla conseguente stampa predisposta, venne fuori un “lenzuolo” in cui tutto doveva essere scritto, ma non esistevano parametri di riferimento, né tanto meno si prevedeva una formazione, che permettesse la costruzione di modalità scientificamente sostenute per valutare.

Il concetto di scheda personale, secondo me e secondo alcuni di noi insegnanti, sottintendeva uno  strumento utile per tener sotto controllo il processo, vale a dire ciò che succedeva nel percorso di insegnamento-apprendimento, descrivendo le variabili che interagivano nel percorso. Si presentava come una modificazione del “libretto dell’alunno” che, se non ricordo male, conteneva il profilo del bambino in entrata ed era utile per il suo orientamento futuro.
Tentativo dunque di messa in atto di modalità osservativa del processo e degli step di crescita e di avvicinamento al sapere e al saper fare, con richiesta di riflessione su ciò che la scuola sarebbe riuscita a fare.

Ma quali erano i riferimenti della L 517 per  ciò che la scuola avrebbe dovuto fare? Eravamo nel 1977 e i Programmi “nuovi” furono emanati nel 1979 per la scuola media, e nel 1985 per la scuola elementare.
Nel frattempo, ci si esercitava nella costruzione di giudizi descrittivi, le schede cambiarono molto negli anni, presentando comunque spazi bianchi atti alla descrizione, e varie furono le modalità e i tentativi per riempirli. Accadde che la formulazione dei giudizi, lasciata alla libera interpretazione, variava a seconda del livello di discussione e di studio specifico all’interno delle scuole.
Cosa, infatti, si osservava  e quindi si descriveva negli spazi bianchi? Tutto era opinabile. Giustamente il maestro Manzi si fece un timbro su cui era scritto “Fa quel che può, quel che non può non fa”. E giustamente Luciana Pecchioli, allora Presidente del Cidi,  ci esortava a stare molto attenti a ciò che scrivevamo.
Anche perché una attenzione eccessiva a situazioni personali e/o a una pedagogia spicciola poteva indurre a valutazioni che non promuovevano realmente il grado di acquisizione di conoscenze e competenze e a “una selezione occulta”. Insomma la presidente della nostra associazione ci spronava a riflettere non tanto su come valutare, ma quanto su come fare affinché gli insegnanti insieme con gli alunni imparassero.

E cominciò nel 1985 la sperimentazione di una nuova scheda per la scuola media,  in modo articolato, si partì da 260 scuole fino ad arrivare ad un migliaio. La nuova scheda andò a regime nell’anno scolastico 1993/94.
Tra favorevoli e contrari, tra percorsi di formazione formale e informale, tra ricerche di approfondimento e richieste di semplificazioni la sperimentazione fu lunga, complessa e, per chi ci lavorò, coinvolgente.

Certo è che come quasi sempre accade, quando la scuola smette di porsi domande significative e si comincia ad affidare a modelli senza ricercare il senso e il perché, senza riguardare quali processi siano ad essi sottesi, senza esplicitare le procedure e i pensieri, senza ricercare comunicazione, condivisione e negoziazione di significati, quello che resta è il senso comune, è la sintesi folle di una lettera, che può tranquillamente diventare numero.
E questo vanifica il tentativo di ragionare sui criteri di valutazione delle singole discipline, sulla loro scelta congruente con i programmi, di ragionare quindi di programmazione disciplinare e collegiale, di riflettere su come quanto la valutazione non potesse esistere se non in riferimento al complesso e articolato processo di organizzazione didattica e pedagogica.

Ragionare su cosa insegnare e come insegnarlo e perché ha caratterizzato la ricerca e la formazione delle scuole che avevano scelto la progettazione curricolare  piuttosto che il programma. Il dibattito che si sviluppò fu una delle leve che permise una ripresa della ricerca didattica che si era un po’ appannata nella maggior parte delle scuole "medie".
Anche la mia scuola media fu chiamata a partecipare alla sperimentazione assistita  fin dall’inizio. In quel periodo si mise in atto ciò che sarebbe dovuto succedere con i programmi del ‘79, gettati nella scuola senza  nessun tentativo di accompagnamento, a differenza di ciò che invece sarebbe accaduto nella scuola elementare con i programmi dell’85. Infatti fu messo  in atto un grandissimo investimento economico, culturale e politico rivolto a tutti e dico tutti i docenti e le docenti della scuola elementare e su tutte le discipline.
Anche il Cidi entrò in questo dibattito e una iniziativa  significativa fu il seminario di formazione che si tenne a Città S. Angelo (in provincia di Pescara) negli anni 1986/87, da cui nacque  la pubblicazione La valutazione nella scuola media, a cura di Enzo Palmisciano e Sofia Toselli, Franco Angeli, 1991.

Nel 1994 sul n. zero di insegnare, uscì un mio contributo, riproposto in copia anastatica  nel dossier di insegnare del 2008 Quando la valutazione è ricerca , a cura di Mario Ambel e Fabiana Fabiani. Appunto fare ricerca mentre si valuta era il focus di quel dossier, che usciva nel momento in cui veniva definitivamente stabilito il passaggio nella scuola elementare e media dal giudizio al voto decimale.

Scriveva Mario Ambel nell’editoriale di quel dossier: “La speranza  che accompagna  la pubblicazione è rivolta alle scuole […]: che  si possa aprire una stagione di crescita culturale e professionale attorno ai temi della valutazione e del rapporto tra progettazione educativa e criteri valutativi orientati all’inclusione e allo sviluppo e non alla selezione e alla competitività.”
In realtà nel 2008, grazie agli interventi normativi di Gelmini e Tremonti si passò definitivamente e senza appello alla valutazione in decimi nelle scuole elementari e medie, segno di una involuzione culturale che da allora ha coinvolto tutta la scuola.
E si è parlato molto, forse troppo, di valutazione, ma dentro un clima via via più orientato al successo delle eccellenze, al confronto tra chi vince, alla competizione per evidenziare alcune performances rispetto ad altre, e ciò si è fatto a livello di apprendimento che a livello del sistema scuola, in un turbinio di meritocrazia, che ha travolto anche molti tra i volenterosi ricercatori dei perché e dei per come di una scuola emancipante per tutti.

L’Invalsi, a sua volta, ha contribuito non poco ad alimentare il clima del confronto per emergere e per gareggiare nei vari campi.
Si è fatta strada e sedimentata una visione culturale per cui le attività, sia a livello di classe che a  livello di scuola, hanno come scopo l’incremento del beneficio del singolo piuttosto che quello della comunità in tutti i suoi membri.
I confronti e la costruzione di reti di scuole si riducono a gare per ottenere risorse e viene meno, piano piano, quella visione dell’autonomia come opportunità di ricerca e sviluppo legata alla realtà.

Due potevano essere gli sbocchi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche: l’autoreferenzialità, o la corresponsabilità costruita al fine di perseguire il mandato costituzionale.
Che piega ha preso la gestione autonoma delle istituzioni scolastiche? La corsa a emergere, che ha caratterizzato il senso comune, ha indotto le scuole a offrire servizi a seconda degli interessi individuali. Si sono moltiplicate le offerte, anche le parole sono diventate termini significativi di altro: POF è il piano dell’offerta formativa, ma cosa offre concretamente una scuola per attuare il suo mandato? 
Difficile trovare nelle brochure informative delle varie scuole la descrizione del come si organizza una scuola per far crescere quelli che sono i capisaldi  del curricolo, quali il rafforzamento dell’educazione linguistica secondo, per esempio, le teorie  di Tullio de Mauro e altri (vedi le “Dieci Tesi per una educazione linguistica democratica”), il potenziamento dell’area matematico-scientifica attraverso metodologie di ricerca sperimentale, la connessione operativa del pensiero e dell’azione.

E quindi il lavoro certosino, collegiale, di descrizione dei processi, di riflessione sul lavoro svolto, di osservazione delle modificazioni, evapora lentamente, anche sotto la “spinta” e “richiesta” delle scuole superiori, mai effettivamente riformate, in cui la trasmissione delle informazioni e delle nozioni continua a portare quasi automaticamente alla definizione quantitativa della valutazione. Che in realtà non era mai scomparsa nell’immaginario del senso comune.

La scuola mette i voti per tanti motivi (dice Mario Ambel in un  testo vocale, girato in quel periodo). E quando nel 2008, come abbiamo detto, vennero sdoganati i voti numerici anche per elementari e medie, ben pochi insegnanti si sono lamentati, anzi. Naturalmente la corsa verso una cultura valutativa che seleziona, che premia e che punisce, che classifica, che ordina per più e meno è più facile, segnalare la quantità sembra essere una operazione più chiara. E la “valutazione”, per di più numerica e in forma di test a risposta chiusa,  ha invaso il mondo della scuola e non solo.
In fondo in questi anni, pochi degli insegnanti della primaria pensavano davvero di caldeggiare i giudizi e lo dico con amara consapevolezza, perché se fosse stato così, lo avrebbero fatto, avrebbero seguitato a descrivere, avrebbero interpretato le proposte di Invalsi come input di ricerca e non come controllo e, di conseguenza, come necessità di addestramento, avrebbero coinvolto i loro colleghi e le colleghe delle medie e delle superiori a osservare i processi, a lavorare insieme per una soluzione organica e coerente. Invece ha vinto la competizione.

E non è sufficiente, secondo me, che oggi il voto scompaia alle elementari, perché si tratta di valutare bambini, come se la costruzione della persona che parte fin dalla scuola dell’infanzia non potesse essere determinata allo stesso modo dai cosiddetti “livelli”. Sì, perché nelle "Linee guida" della legge  arrivano i livelli, con una distinzione discutibile  tra obiettivi di apprendimento e traguardi, con nessuna chiarezza tra attività per l’apprendimento, uniche realmente rispondenti a una valutazione cosiddetta formativa, e attività per definire un complessivo valore  dopo un articolato, complicato sofferto percorso ricco di azioni, riflessioni, revisioni, condivisioni.

Insomma, ci sarebbe bisogno oggi di una rivoluzione culturalmente significativa, almeno per rendere coerente il percorso tra primaria e medie. E temo che non basti la funzione del DS come leader promotore: la cultura non si costruisce dall’alto.
Tanto più che l’attuale situazione della scuola, in cui la forma gerarchica, burocratica, impedisce  di fatto la riflessione critica e paralizza la possibilità di aprire un campo di ricerca.
Certamente c’è bisogno di un innalzamento e di una riqualificazione della formazione degli insegnanti in questa funzione così importante. Ma ci si chiede se sia  possibile che la formazione, sia pure prevista, parta da condizioni, purtroppo ormai sconosciute alla scuola,  di ricerca sul campo, con tempi e luoghi garantiti. E che non si risolva per l’ennesima volta in un adattamento formale che non modifica di fatto le condizioni per un reale sviluppo del percorso di insegnamento/apprendimento?

Credo sia necessario rimettere al centro i fondamenti  utili a realizzare  un cambiamento reale di prospettiva. Solo in una scuola che venga percepita dal contesto sociale come luogo essenziale di formazione attraverso le competenze culturali di cittadinanza, e non di competizione e di vistoso palcoscenico individuale ed  economicamente produttivo, si può innescare un serio dibattito sulla valutazione, che continuo  a ritenere non essere mai segno di un valore assoluto, ma solo nell’ambito del complesso ma attraente processo di insegnamento/apprendimento.

Scrive...

Daniela Casaccia Prima docente e poi a lungo "preside di scuola media" e Presidente del Cidi Pescara