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opinioni a confronto

29/07/2014

Riflessioni a caldo sul "Piano per la scuola"

di Ermanno Morello, Caterina Gammaldi, Giovanna Bertazzoli, Marco Guastavigna, Elena Cassani

La questione del lavoro a scuola

Al di là della detestabile propensione all'arroganza, alla faciloneria e all'inganno del proclama (in questo avvezzo al furbo populismo mediatico berlusconiano) la questione è seria, tanto che avrebbe dovuto essere posta, in ben altri termini, da tempo. E proprio dalla sinistra, in chiave di principi democratici che nella scuola non sono più garantiti da tempo, soprattutto per i bambini e i ragazzi a cui viene sistematicamente sottratto il diritto ad avere insegnanti seri, motivati, culturalmente e didatticamente preparati; ma che non sono più garantiti  anche agli insegnanti più sensibili e consapevoli del valore dell'appartenere a una Istituzione così fondamentale come la Scuola dello Stato, troppo spesso ambiguamente derubricata a "pubblica", per fare spazio a tante “paritarie” annoverabili nell'ampia ed elastica categoria di "servizio pubblico".

I primi, gli allievi, sono ormai le vittime di un a-sistema, fatto di approssimazione gestionale, ondivaghezza scientifica, incultura istituzionale, aberrazione sindacale, compromissione politica, ipocrisia etica, confusione legislativa, viltà deontologica, inerzia professionale, rinuncia progettuale: colpe che partono tutte dal vertice ma che si sono solidamente installate in tanta parte del lavoro degli insegnanti che accettano, sino a farne uno status esistenziale, di galleggiare nell'accidiosa mentalità italiota del tirare a campare, dileggiando ogni reminiscenza dell'orgoglio per sempre perduto. Colpe che immolano gli allievi, tutti gli allievi, sull'immorale altare della selezione sedicentemente meritocratica, esercitata da chi, gli insegnanti, non ha dovuto dimostrare mai competenze professionali né attitudini personali: requisiti che dovrebbero rappresentare il livello minimo di adeguatezza all'incarico, per meritare il ruolo docente. Colpe che riportano l'orologio del tempi moderni a prima della Scuola Media Unica, quando la sola idea di mobilità sociale era un concetto rivoluzionario, in realtà già allora una esigenza per lo sviluppo di una società modernamente democratica: compito dal quale la scuola è stata ormai esautorata, insieme a quello di garanzia dell'eguaglianza dei diritti che, in una ottica non scioccamente egualitarista, significa ancor (più) oggi che non "si possono fare parti uguali tra diseguali".

I secondi, gli insegnanti, sono stati ormai ridotti a vittime di se stessi, come dimostra, tra l’altro, l'incredibile deriva dei voti: accettati (in realtà agognati) come liberazione dalle pastoie burocratiche della valutazione, faticosa per essere decente, ed esaltati come ritrovato illusorio strumento di comando. Senza accorgersi di essere diventati strumenti (gli insegnanti) dello strumento (il voto numerico), che li ha estromessi da uno dei momenti topici della realizzazione professionale: quella "valutazione" che, non essendo arma di bieca selezione, poteva rappresentare, in quanto riflessione sui progressi dell'apprendimento, la summa del valore delle competenze dell'insegnante stesso (culturali, relazionali, didattiche ecc.). E come nella storia della valutazione tanta altra professionalità è stata svenduta dall'incoscienza politica dei singoli e della "categoria", che forse non è mai esistita.

Da sinistra, dicevo, da tempo avrebbe dovuto essere posta la questione del lavoro nella scuola, inteso non come arrembaggio ai "posti" ma come un modello di serietà e adeguatezza dell'organizzazione del tempo professionale in relazione alla funzione alta della Scuola e alle necessità del suo funzionamento, non meno complesse del suo status di presidio culturale della cittadinanza e di istituzione preposta alla formazione e all'istruzione, cioè alla emancipazione, di tutte le persone che vivono nel nostro Paese. Una organizzazione del lavoro in grado di attivare una reale gestione collegiale (dalla progettazione all'implementazione didattica alla verifica della qualità dei contesti e dei risultati) e di promuovere la crescita professionale da valorizzare sul versante retributivo. Per sintetizzare i termini di una simile "rivoluzione" contrattuale occorre ritornare alla metà degli anni Ottanta, quando per l'unica volta si discusse di tempo pieno per gli insegnanti a scuola, evento che ricordo non per riproporre meccanicamente i termini di quella (datata?) proposta, ma per ribadirne l'ispirazione politica e la logica organizzativa (18 ore di lezione e il resto per la progettazione didattica, la sperimentazione/ricerca, il confronto scientifico, la formazione permanente... e non solo per il disbrigo delle incombenze come la famigerata correzione di compiti).

Da sinistra, da tempo, si sarebbe dovuto porre la questione della selezione degli insegnanti, in entrata e in itinere, cioè dell'accertamento serio e responsabile delle competenze e attitudini e della capacità di migliorarle attraverso l'elaborazione dell'esperienza (che invece oggi è ridotta a puro e semplice riconoscimento dovuto alla quantità di "servizio" accumulata, come succede per le famigerate graduatorie dei precari); discutendo anche, senza tabù né chiusure aprioristiche, su chi dovrebbe gravare la responsabilità della scelta dei docenti (arrivando anche al confronto sui compiti dei Dirigenti Scolastici in questa scelta, sin ora stoppato da un veto ideologico che contraddice l'idea stessa di dialettica che sarebbe alla base di quella ideologia che lo ispira), ma anche della correlata responsabilità sulla qualità dei risultati e dei processi formativi che li sottendono (in gran parte legata alla qualità personale dei docenti), oggi malamente affidata alla confusione che fa capo a un altro a-sistema, quello invalsi/indire/vales ecc., ma un tempo presa in carico dai Prèsidi/presìdi democratici e di sinistra. 

Ermanno Morello

 


La memoria corta

Mentre la stampa continua a proporre interviste e commenti sull'annunciata “riforma” della scuola vorrei porre all'attenzione di chi ci legge alcune questioni.
 L'8O per cento degli insegnanti europei (gli italiani sono a pieno titolo fra questi) non si sente sufficientemente valorizzato. Il dato si rileva dall'inchiesta Talis  OCSE che ha coinvolto 34 paesi e 100.000 insegnanti della scuola secondaria inferiore, di cui 55.000 europei.
Ci piacerebbe sapere, a sette anni dall'ultimo contratto, se il dato in questione abbia suggerito al ministro Giannini l'annunciata riforma della scuola secondo il modello olandese.

Negli ultimi anni ho incontrato centinaia di insegnanti italiani impegnati in percorsi di formazione per preparare il concorso, per capire i processi di riforma messi in atto da questo o da quel governo. Erano spesso precari, da decenni in servizio nella scuola;  insegnanti  motivati, competenti, preoccupati esclusivamente di quel che la precarizzazione del lavoro toglie loro in termini di vita personale (la sicurezza economica, la nascita di un figlio...). Talora insegnanti prossimi alla pensione senza poterlo fare, ma non stanchi di un mestiere che non esitano a definire il più bello del mondo.

Che sarà mai qualche ora in più ci chiedono in tanti, che da sempre,  lavorano otto ore al giorno?
E qui vale la pena di ricordare che buona parte del lavoro di un insegnante è sommerso, che sono numerosi gli insegnanti che mettono a disposizione competenze e professionalità per realizzare attività in luglio o in agosto (recupero, esami , campi scuola...). Certo non in modo generalizzato, ma forse sarebbe il caso di tenere conto.
Per non parlare delle iniziative, ancora un optional, di ricerca e formazione che insegnanti, autonomamente e a proprie spese, seguono durante tutto l'anno, anche in estate, per capire come intercettare e trattenere i nostri bambini, i nostri ragazzi.

Le scuole aperte fino a sera non sono una novità. Le abbiamo chieste per anni a presidio della democrazia, per garantire iniziative culturali che facciano crescere le comunità. Ma... qual è in questo caso il progetto? Forse quello della Finlandia che, come ricorda Vertecchi, garantisce in questo modo sedi di promozione culturale (sale di lettura, teatro, musica...)?

La scuola non ha bisogno di annunci a mezzo stampa, né di interviste a "testimoni". Leggeremo con attenzione il documento quando sarà reso pubblico. Per ora vorremmo solo sapere chi faceva parte del gruppo " cantiere" che l'ha elaborato. Per quel che sappiamo, per aver partecipato in prima persona, il PD aveva un documento di sintesi e di proposte approvato dall'assemblea nazionale e più di un dossier esito del Forum a cui aveva partecipato il mondo della scuola.
Quando la memoria è così corta non si può immaginare il futuro

Caterina Gammaldi


Che scuola vogliamo?

Non possiamo eludere la questione dell’orario onnicomprensivo, facendo però emergere il lavoro sommerso, a partire da scrutini e colloqui, attività svolte da tutti gli insegnanti al di là di una definizione contrattuale. In questo orario andrebbe introdotto l’obbligo di formazione, la ricerca azione, l’aggiornamento come lo si vuol chiamare. Il vero problema è riconoscere il tempo della preparazione delle lezioni e dei materiali (in aumento ai tempi dei BES quando la pedagogia e la didattica rischiano di ridursi a compilazione di moduli) e di correzione.

Molti insegnanti lavorano molte ore oltre a quelle previste dal contratto, l'idea che l'orario si riduca alle 18 settimanali di insegnamento + le 80 annuali è ridicola, irreale, oltre che offensiva. Nel dibattito sull'orario di lavoro non dimentichiamo che siamo professionisti del curricolo, educatori e lavoratori.
Sarò nostalgica degli anni '70, ma non voglio rinunciare alla dimensione lavorativa che chiede una precisa definizione del profilo di docente, cala il mestiere di insegnare nell'economia reale, in un riconoscimento reciproco di cittadinanza.

Anche per la crescita costante del contenzioso, nelle scuole si sta diffondendo un'insofferenza e una diffidenza verso i genitori che dovrebbero essere visti come cittadini a cui dobbiamo rendicontare il nostro operato senza arroccarci nella cittadella della professionalità. Una professionalità autoreferenziale, molte volte presunta, visto che non viene mai valutata.
Certo non penso a una rendicontazione ad personam, a chi mette in piedi il contenzioso, a chi porta un certificato, a chi  giustifica 70 giorni di assenza, a chi chiede una scuola come servizio a domanda individuale. Penso a una rendicontazione collegiale, funzionale a un territorio.

Io rinuncerei agli scatti d’anzianità (ormai scomparsi in tanti contratti della PA) e reintrodurrei la progressione stipendiale legata alla formazione costruita nei dipartimenti e documentata nelle prassi, perché il vero problema è come fare una scuola migliore  e come diffondere su tutto il territorio nazionale e in tutti gli ordini di scuola le esperienze migliori.

E prima di tutto dobbiamo capire che scuola vogliamo: inclusiva per direttiva (vedi BES) o inclusiva per cultura e iniziativa democratica ? Che Renzi lanci un dibattito su selezione, bocciature e competenze (anche a partire dall’Invalsi), non che risparmi su qualche docente o su qualche supplente.
Credo infatti che la scuola si cambi non partendo dall'annoso dibattito sui docenti, ma modificando i percorsi. Allora perché non proporre un biennio terminale, conclusivo di un ciclo di studi, orientante, non selettivo, usare la proposta - che si legge nel "Piano sulla scuola" di  Reggi – dell'apertura delle scuole e dei 22 giorni di recupero per tenere dentro tutti. Sono soluzioni formali, ma sono le uniche, credo, che possono attivare processi di cambiamento, se sostenuti da un dibattito culturale e da un piano di formazione obbligatoria.

E questo - la riduzione degli abbandoni scolastici al di sotto del 10% - ce lo chiede l'Europa.

Giovanna Bertazzoli


Chi provvederà?

Il primo a umiliarmi fu un libero professionista dichiaratamente junghiano, a cui mi ero rivolto nella seconda metà degli anni Ottanta, per cercare di avere un po' di cura di me stesso. Certo, il suo lavoro è una sorta di vacanza diffusa. Ma mal pagata! mi disse una volta nell'elegante salotto che utilizzava come studio. Poi ci sono stati gli editorialisti dei grandi giornali borghesi, quelli della retorica dell'insegnante fannullone. Adesso ci si mettono ministri e sottosegretari che per età – non per condizione sociale e cursus honorum nell'epoca della crisi economica  – potrebbero essermi figli. Non è certo che sappia lavorare, nessuno mi ha mai valutato, non sono insomma meritevole di un passaporto della Comunità europea. Ovviamente tutto questo e i presunti provvedimenti necessari li apprendo dai media, perché la politica adesso si fa così: ci si presenta davanti a una telecamera, si rilascia un'intervista o – se si è veramente moderni – si twitta e si “rivelano” le proprie intenzioni a un pubblico inerte di ex-cittadini, ridotti a spettatori.

In un sussulto di orgoglio chiedo allora a Giannini, a Reggi e ai loro esegeti parlamentari vari: Ammettendo e non concedendo di dover essere formato, chi provvederà a elargirmi i nuovi saperi professionali? Coloro che non si sono ancora sbarazzati del sospetto di conflitto di interessi che grava sulle cosiddette 'Pillole del Sapere'? Coloro che hanno cambiato e ricambiato opinione e prospettiva di indirizzo sulla questione dei BES? O coloro che da una parte sollecitano l'uso per la gestione degli Esami di Stato di 'Commissione Web', l'applicativo del ministero che funziona in rete, e dall'altra ricordano alle scuole la necessità di impedire l'accesso a Internet durante le prove scritte, con il risultato di bloccare strumenti e procedure?.

Marco Guastavigna


 

Come usare il tempo

Davvero si può pensare che il problema della qualità della scuola  oggi sia legato all’orario scolastico dei docenti?  Chiunque frequenti una scuola superiore e non un Ministero, potrà constatare cattedre che oscillano dalle 18 alle 24 ore, e non sempre chi dà la disponibilità a veder lievitare il proprio orario si impegna maggiormente o ottiene risultati migliori perché più qualificato.  Anzi, a volte  è costretto a selezionare  i  compiti  più urgenti,  quasi sempre legati alla burocrazia, per tralasciarne altri più significativi. Ciò può succedere nei migliori dei casi per necessità, nei peggiori per opportunismo.

Detto ciò, sono favorevole a un aumento del tempo trascorso a scuola dagli insegnanti: tra docenti (negli istituti superiori) non si parla, non ci si confronta, non si programma.  É quindi fondamentale far funzionare i dipartimenti come luogo fisico e mentale nel quale correggere, preparare le lezioni, programmare,  discutere e individuare i bisogni che possono sfociare anche nella richiesta di corsi di aggiornamento, ormai assenti nei nostri istituti. Solo così le buone prassi possono diffondersi sul territorio e proliferare, le esperienze delle  singole scuole negli anni '70 lo hanno dimostrato: gli insegnanti, se motivati e coinvolti dal basso, sono consapevoli della loro professionalità e “producono”.

Spero tanto che almeno una volta non si pensi alla “nostra” scuola  solo con una logica di risparmio (supplenze, corsi di recupero, 36 ore alla settimana), ma con l’intento di riqualificarla, favorire l’aggiornamento, la ricerca-azione e non solo il potenziamento teorico dell’inglese e dell’informatica.
La produttività , anche nelle fabbriche, non si ottiene con l’aumento delle ore di lavoro , ma con la riorganizzazione del lavoro e onestamente penso che la classe dirigente d’oggi non sia in grado di gestire il proprio lavoro e il proprio tempo, forse anche lei dovrebbe essere formata. Solo allora sarà logico chiedere ai docenti di non essere autoreferenziali, perché la politica – superando la propria autoreferenzialità - avrà dimostrato di voler stimolare un dibattito su professionalità e competenze, di voler motivare gli operatori della scuola e non di volerli punire.

Elena Cassani