Il tempo che stiamo vivendo
Vivere il presente per guardare oltre esige strumenti di lettura del contesto e pensiero attrezzato. Non è vivere nel presente, secondo il vecchio slogan: “la vita è adesso”. Se così fosse si potrebbe rimanere invischiati in visioni e posizioni che non ci appartengono, né possiamo guardare a quello che non abbiamo più con rimpianto e nostalgia. Ogni tempo ci appartiene e questo che è per me il tempo della vecchiaia [1], è anche quello della complessità e dell’incertezza, in cui cerco di capire come possiamo uscire – tutte e tutti insieme - dal tunnel e rivedere la luce. In una parola tornare al futuro. E allora anzitutto provo a fare alcune riflessioni sul contesto.
Siamo immersi in situazioni inedite e che, nel contempo, ci sembra di aver già vissuto. Inevitabile porsi domande che cerchino risposte per dar senso al cambiamento necessario. Nel tempo che stiamo vivendo mi spaventa la dimensione privatistica; orienta l’agire personale e collettivo, un tema, fra gli altri, che non possiamo non indagare, nella prospettiva di una nuova liberazione. Condivido, infatti, sia pure con accenti diversi, il pensiero di chi scrive che abbiamo bisogno di tecniche di liberazione [2], forse perché la mia esperienza è nata nei gruppi ecclesiali di base che si ispiravano alla teologia della liberazione. Una esperienza che ha segnato la mia vita e quella di tanti altri per conoscere il mondo e abitarlo in tutta la sua complessità, consapevolmente. Un tempo ormai lontano a cui ritorno ora, perché anche allora, come ora, gli ultimi e la democrazia sono le mete a cui tendere per un futuro meno incerto, per uno sviluppo più equo, per ritrovare le ragioni della libertà e dell’uguaglianza nella solidarietà. Tanto più se guardo a quanto è accaduto e ancora accade in questo primo quarto di secolo iniziato con il nuovo millennio.
Negli ultimi ventiquattro anni l’Europa, gli Stati Uniti, il mondo, ci hanno fornito migliaia di immagini e informazione, che penso non avremmo voluto vedere, migliaia di contraddizioni che possiamo contrastare solo se restituiamo valore alle idealità che continuano a rappresentare l’irrealizzato. Provo a farlo con Zagrebelsy [3] richiamando, a circa 80 anni dalla liberazione dal nazifascismo, i diritti di libertà sanciti costituzionalmente, il cuore pulsante di un’alternativa possibile in campo politico, economico e sociale. “Il principio di libertà è il pilastro del vivere comune”, scrive Zagrebelsky ai giovani, un sentire che fa vivere le libertà che si esercitano insieme, aggiungendo che “il lavoro, l’istruzione, la salute ci rendono uguali e liberi”. Orientamenti poco praticati da chi in politica dovrebbe occuparsi senza indugio dei diritti e, invece, fa prevalere la dimensione dell’interesse personale, il primato dell’economia, dell’azienda nella società della conoscenza.
Quel che accade oggi in Europa, negli Stati Uniti, nel mondo, non mi coglie di sorpresa. È il risultato di un processo lento, ma inesorabile in cui il potere politico ed economico hanno sovrastato la dimensione culturale che andrebbe fatta vivere nella quotidianità, fra la gente per far crescere l’essere cittadini consapevoli. Proprio loro ne hanno fatto le spese, anzitutto, i più fragili, e sono tanti ormai dappertutto, nei paesi in guerra, nelle periferie urbane, nei luoghi in cui sembra prevalere il benessere.
Se la libertà è un albero, come recita una filastrocca destinata ai bambini, i rami non possono essere che le parole che vorremmo sentire echeggiare in politica e nella società in questo momento ovvero persona umana, dignità, lavoro, cultura, partecipazione, democrazia, cittadinanza, istruzione, salute … per ritrovare il gusto della ricostruzione e della condivisione, che respirarono i nostri padri e le nostre madri dopo la tragica esperienza della guerra, ormai 80 anni fa. Invece siamo in guerra, gli uni contro gli altri, in armi, in un mondo diventato ostile nelle parole, negli atteggiamenti, nelle scelte. L’identità nazionale, quel che pensiamo di aver perduto, prevale sull’educazione alla cittadinanza. Ancora ieri il ministro Valditara ha dichiarato che i femminicidi sono responsabilità dei migranti e che il patriarcato non esiste. Bisognerebbe ricordargli il numero impressionante di donne uccise o devastate da compagni bianchi e che l’educazione sentimentale esige ben più di un'ora di lezione con esperti, una tantum.
Liberi di, liberi da …recita una proposta curricolare che un gruppo di insegnanti del primo e secondo ciclo del CIDI di Cosenza, che coordino, sta sviluppando, orientata a riflettere insieme – adulti, bambini e adolescenti – sui principi delle libertà collettive, sui diritti, sui luoghi in cui dovrebbero esercitarsi le competenze storiche e sociali. Essi non meritano una sterile elencazione. Siamo in una fase che potremmo definire con Bobbio una nuova “età dei diritti” che vorremmo poter esplorare con l’aiuto dei saperi. Diritti non privilegi! Pensiamo con Ceruti [4] che sia più che mai “decisiva”, ora come allora una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia”.
Chi ha paura della scuola democratica?
Prendo le parti dei più piccoli e degli adolescenti, di quella parte che, “senza adulti“ [5], rischia di non avere diritto di parola o di perdere i diritti definiti a livello internazionale. Ai nostri bambini, ai nostri ragazzi alcuni adulti, vicini al potere politico, vorrebbero insegnare a costruire l’identità personale guardando alla dimensione nazionale.
Di identità vogliamo scrivere qui richiamando quanto scrive Tommaso Montanari [6], a cui Galli della Loggia [7] dedica l’ennesimo insulto ai danni degli intellettuali che egli ritiene colpevoli di aver reso le aule vuote (lo aveva già fatto con Tullio De Mauro pochi giorni dopo la sua morte, lo fa con gli estensori delle Indicazioni nazionali del 2012 definiti “un gruppo di scellerati” nel suo ultimo libro). Bene! Montanari in un suo scritto del 2018 ci dà elementi per riflettere su questa prospettiva e per chiedere a chi legge questo scritto di guardare con più attenzione all’attacco alla scuola democratica, che il governo ha posto al centro della decisione politica. Scrive Montanari “Se identità significa etimologicamente uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta bisogna dire con chiarezza: no, questa identità nazionale non esiste… gli italiani sono multiculturali per storia e per cultura”. Cosa non torna in questa definizione? È così, lo sappiamo tutti. A Montanari, Galli della Loggia risponde: “Identità italiana significa che la nostra Penisola presenta un insieme di caratteri complessivamente presi, che sono solamente suoi e non di altri luoghi della terra. Non significa affatto che in Italia tutto è uguale a se stesso, che tutto è identico. Significa che quanto esiste in Italia è nel suo insieme qualcosa di unico”. … significa “ mettere a fuoco una singolare complessità frutto non della biologia ma della storia…” Dunque, secondo Galli della Loggia, Perla e Valditara e qualcun altro … la geografia e la storia sono le “vere matrici dell’identità italiana”. Per questo riscriviamone subito i programmi, non i curricoli, per dar forza all’idea di Nazione, di Patria, di famiglia. Perché i bambini, fin da piccoli, siano addestrati a ritrovare quel che abbiamo perso (la grandeur), che nel caso specifico si esprime in una certa idea di “romanità”. Sostanzialmente si dice che i Romani come i vicini Galli, che ho richiamato in un recente scritto su Insegnare, ricordando la battuta infelice di Sarkozy ricordata dallo storico Piero Colla, potrebbero essere gli antenati dei nuovi italiani. La battura riscritta potrebbe suonare così: “ I nuovi italiani, ovvero i migranti, devono poter pensare: i Romani sono i miei antenati”. Basterebbe dare un’occhiata a una carta geo – storica per capire chi sono i Romani di cui dovrebbero andar fieri: lingue e culture che hanno scelto di vivere insieme.
La scuola democratica di tutti e di ciascuno spaventa chi la nostra Costituzione non l’ha mai ritenuta la legge fondamentale dello Stato, una scelta condivisa di cattolici, liberali e comunisti, da cui discende la nostra Repubblica. La dimensione collettiva e plurale di un Paese!
E noi?
Non abbiamo più l’età per dire: aspetteremo tempi migliori. Il tempo è adesso per cercare il futuro per i nostri figli e i nostri nipoti, per il nostro Paese. Non ci sono scorciatoie dettate dalla modernizzazione e dalla semplificazione. Si può dissentire argomentando, ma non accettando chi va avanti a testa bassa. Dal tunnel possiamo uscire se lavoriamo tutte e tutti per il possesso degli alfabeti, degli strumenti culturali necessari per comprendere la complessità e vivere nell’incertezza. Non c’è futuro se non abbiamo paura dei possibili errori, ma almeno uno non dobbiamo commetterlo…cedere alla paura del futuro.
[1] M. Augé, Il tempo senza età. la vecchiaia non esiste, Cortina editore 2014
[2] (a cura di) C.Raimo, Alfabeto della scuola democratica, Laterza 2024
[3] G. Zagrebelsky, Chi vogliamo e non vogliamo essere, Le Monnier scuola 2021
[4] M. Ceruti, Cultura, Scuola, Persona Verso le Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo, Roma 2007 conferenza di presentazione del documento base della Commissione incaricata della revisione dei curricoli
[5] G. Zagrelelsky, Senza adulti, Einaudi 2016
[6] T. Montanari, L’identità inventata degli italiani, in Il fatto quotidiano, 10 settembre 2018
[7] E. Galli della Loggia - L.Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Scholé 2023