Premessa
La permanenza di alcuni gravissimi conflitti bellici sparsi in tutto il mondo ci ha quasi abituato a una certa fatalistica assuefazione. Certamente molti di noi stanno seguendo con rassegnato sgomento il procrastinarsi del conflitto russo-ucraino, per non parlare dell’ansia che ci prende nei confronti dei conflitti in Medio Oriente: sappiamo con sicurezza che essi non riguardano solo quelli tra i Palestinesi di Hamas e gli Israeliani di Netanyahu, ma che la questione è molto più complessa e drammatica.
In particolare i giovani, più che poter riflettere su dati oggettivi, documentati attraverso una informazione che non sia pura cronaca, si lasciano devastare, come del resto capita anche a noi adulti, dalle immagini della “sporca guerra” contro i civili, vale a dire dalla distruzione inesorabile dei loro corpi ed ambienti di vita.
Se la documentazione sulle guerre sembra aver perso le immagini tradizionali dei militari in azione che balzano fuori dai nascondigli per riversarsi su specifici campi di battaglia, è legittimo chiederci quali reazioni possono suscitare, oggi, i mucchi di cadaveri senza divisa, tra cui spiccano spessissimo quelli orrendamente dilaniati di tanti bambini portati a braccia da adulti stravolti e piangenti. Certamente, non una ricerca di senso, ma puro orrore e dall’orrore una paura senza riparo o, peggio ancora, una progressiva rimozione delle possibili riflessioni. Il male spropositato si manifesta con una intensità difficile da contenere e si finisce con il non voler vedere e pensare più oltre.
Ci stiamo rendendo conto che le guerre contemporanee sono spesso prive anche di quei segnali di avvertimento, il così detto coprifuoco che permetteva ai civili del secolo scorso una minima via di scampo. Sono guerre dell’aria sempre più sofisticate, i cieli sono percorsi non tanto dagli aerei quanto da razzi e droni telecomandati, i bersagli preferiti, nell’esasperarsi della violenza tecnologica, sono spesso edifici civili, tra cui scuole e ospedali. E allora i morti si svuotano di ogni identità, c’è solo una devastazione generalizzata, per non parlare delle bestie vaganti che razzolano tra le macerie, dei monconi di alberi fumanti, dei mostruosi crateri aperti su strade trasformate in solchi profondi di morte…
Qual è lo spessore politico di tanto orrore? Sembra esserci un copione ineluttabile: all’inizio di ogni guerra c’è un evidente tentativo di cercare informazioni e prove di fatto sui suoi possibili “perché?”. Sugli schermi mediatici si affollano mappe e cartine, si intervistano esperti in intelligence, ma anche in tecniche d’armi e di combattimento, le riviste di un certo spessore culturale geopolitico esplicitano i loro archivi, si trasmettono foto di città, di case ancora intatte, di monumenti significativi assolutamente da tutelare. Si presta attenzione a certe trame politiche, a certe tessiture economiche che la pace indubbiamente nasconde, a certi personaggi solitamente nell’ombra dei gangli statali di quei paesi coinvolti nel conflitto, a certe strutture tecnico economiche che ne costituiscono l’ossatura oppressiva/difensiva, ma anche alle servitù politiche dei patti intrapresi e quasi dimenticati nei tempi di pace, tirati fuori nella loro brutale cogenza dai cassetti delle varie security diplomatico militari. Ma poi la violenza si afferma sempre di più, e allora una schiera di giornalisti e di free lance viene mandata a rischio della propria vita a “fotografare” l’ovvio, lo scontato della guerra: le mostruosità dei bombardamenti contro i civili, contro quei luoghi di per sé neutrali e tuttavia sospettati di occulte connivenze, il dolore straziante delle prime vittime del tutto innocenti (i bambini!), la rassegnata assuefazione agli eventi di chi è riuscito a trovare una via di scampo a un conflitto inesorabile…
Man mano le notizie sono sempre più generalizzate in scenari di morte e devastazione, l’informazione politica via via si liquefà spostandosi in altre sedi, le chiameremmo le stanze delle istituzioni internazionali a garanzia e in difesa di una idea di pace sempre più nebulosa. Fino ad arrivare alla confezione interpretativa “ufficiale” dei fatti, sostenuta tuttavia da una temporalità sempre più dubitosa e astratta: quando finirà la guerra? Chissà…Le sanzioni reciproche stanno avendo effetto? Sì, certo, però… A chi giova l’industria bellica in piena produzione? Chi è il più forte? Quanto durerà l’accoglienza agli sfollati? A quanto ammonteranno i debiti a sostegno della guerra, della nostra guerra giusta? Chi pagherà? Ecc.
Certamente non sono domande impolitiche, ma lo diventano le possibili risposte, spesso intrise di soggettività emotiva e di psicologismo semplificato da parte di certa autorevolissima “opinione pubblica”, per cui responsabilità, ragioni e conclusioni negative stanno tutte in un solo versante. E guai a smentire la vulgata, specie se essa si definisce “patriottica”, perché si rischia di essere accusati di vari “ismi” negativi fino al sospetto, oggi il più grave, di fiancheggiamento del terrorismo.
Una narrazione storica
Di recente abbiamo trovato l’analisi di tutti questi grovigli, contraddizioni, aberrazioni insieme con l’impegno di individuarne i legami interni e le possibili cause, in un saggio di Francesco Mancini, assai denso e complicato[1]. I fatti e l’epoca cui si riferisce il saggio sono diversi e lontani dalla nostra contemporaneità, ma hanno delle affinità, direi quasi universali, con la complessità del presente e richiedono un metodo investigativo in un certo senso simile. Il libro tratta un’altra storia di guerra avvenuta circa ottanta anni fa, e, se ci si fermasse al titolo, potrebbe essere considerato un’ampia monografia su un evento specifico della II guerra mondiale. Una serie di bombardamenti -dall’agosto al settembre del 1943- ad opera degli Alleati, di cui il più micidiale fu attuato dai britannici a guida del generale Montgomery, colpì la popolazione di Pescara e le coste circostanti allo scopo di bloccare i rifornimenti tedeschi distruggendo la linea ferroviaria che li trasportava e di iniziare con sbarchi dall’Adriatico una penetrazione della penisola verso Roma. I bombardamenti provocarono migliaia di vittime e un esodo in massa della popolazione superstite, depredata di ogni avere e di ogni speranza di ritorno. Ma soprattutto lo scempio apparirà strategicamente inutile (si può parlare di un flop clamoroso), dal momento che l’opposizione tedesca lungo la Linea Gustav riuscì a impedire il progetto.
Su che cosa ci permettiamo di stabilire nessi con i grovigli bellici del nostro presente? Sul fatto che noi riteniamo che, per elaborare un robusto spirito di pace, le guerre vadano dettagliatamente conosciute, che se ne debba individuare l’orribile sintassi di certe strategie permanenti e l’accadere di certe esitazioni, di veri e propri errori, di reticenze, di equivoci inerenti anche alla cultura, alla mentalità, ai pregiudizi dei paesi e dei popoli coinvolti. E queste consapevolezze possono essere raggiunte anche con un grosso sforzo civile, direi etico, da parte dei canali di informazione. È vero che è più difficile nella contemporaneità sapere individuare e organizzare una lucida sintesi dalla miriade delle cronache, ma a noi sembra che i nostri potentissimi mezzi di comunicazione spesso creino più rumore, più manipolazione che consapevolezze.
Proprio per questo il saggio di Mancini ci è sembrato prezioso: per chiarire l’orribile strage (Pescara fu insignita della medaglia d’oro al valor civile dal Presidente Ciampi) Mancini ha presentato il tema specifico dentro una così complessa e articolata cornice di fatti, di testimonianze e di interpretazioni tutte minuziosamente documentate da dare al lettore molteplici strumenti interpretativi anche per ricostruire quel puzzle complicatissimo che è stato l’intero anno di guerra 1943.
Grazie alla qualità dei dati e delle fonti di ogni tipo si aprono man mano campi di riflessione su angolature diverse rispetto alla sia pure preziosa codifica dei fatti del 1943 da parte della storiografia “classica” italiana. Essa si è rivolta prevalentemente alla ricostruzione della caduta politica del regime, della reattività politica antifascista e dei vari movimenti di Resistenza.
L’allargamento dell’indagine su altri percorsi, in particolare su quello riguardante i contrasti tra gli Alleati e le loro oscillazioni progettuali, ci permette, pur con le dovute prudenze, di costruire degli approcci interpretativi di ulteriore spessore, capaci di accogliere nella ricostruzione storica quelle contraddizioni che possono meglio chiarire anche la varietà di certi comportamenti e le loro micidiali e non lineari conseguenze sul piano fattuale.
Per esempio, un ampio spazio è dedicato alle divergenze politico militari tra gli Alleati prolungate anche nella Conferenza di Casablanca del gennaio del 1943, dove tuttavia si deciderà di attuare quello sbarco in Sicilia poco condiviso da Eisenhower. Esso inizierà il 10 luglio e si concluderà 17 agosto dello stesso anno con uno svolgimento dei fatti che ancora oggi crea delle difformità interpretative tra vari studiosi. É molto interessante, per esempio, la presa in considerazione da parte degli Alleati dei mezzi da usare sia per il trasporto delle truppe dall’Africa che per i tanks d’attacco, indicativa anche di una disomogeneità di forze, di tattiche, ma anche di risorse finanziarie al loro interno. Come è difforme il tipo di approccio con la popolazione italiana una volta penetrati gli Alleati nell’isola e da lì in “continente” e, dopo l’armistizio, nei confronti dell’esercito italiano che se Badoglio avesse deciso di riorganizzare, avrebbe potuto appoggiarli militarmente. Due sono le Armate alleate sul terreno (la V sul Tirreno con un comando americano, l’VIII sull’Adriatico a guida britannica). Esse dovevano avanzare a tenaglia verso Roma. I compiti si distribuirono tra generali diversi. Non corre buon sangue tra di loro, in particolare tra Clark e Montgomery c’è un’ambiziosa competizione. Notevoli le esitazioni su come difendere i percorsi sulla penisola: per terra? Per mare? Facendo intervenire massicciamente la forza aerea? Di fatto si usano tutte e tre le strategie, ma saranno i bombardamenti micidiali ad avere maggiore successo innanzitutto a spese dei civili.
La via Adriatica alla liberazione di Roma faceva parte di un disegno strategico caro a Winston Churchill: utilizzare le coste Jugoslave liberate come avamposto alleato di supporto. Oltretutto Churchill era propenso ad avvalersi, dopo l’ armistizio, del coinvolgimento, a fianco degli Alleati. delle truppe italiane che permanevano assai numerose nella penisola (circa seicentomila unità). Si sa che purtroppo le cose andarono molto diversamente.
Come abbiamo detto, la risalita degli Alleati verso Roma risulterà difficile anche per via del possesso di una documentazione superficiale e frammentaria sui territori da occupare, e anche qui Mancini raccoglie lodevoli testimonianze di prova attingendo da vari archivi militari anglosassoni, in particolare dal Diario del generale Alexander. Ma anche le mappe, indispensabili per ogni tipo di intervento bellico, risultarono poco dettagliate e attendibili, soprattutto a riguardo degli Appennini di cui fu sottovalutata anche la durezza del clima invernale, tanto che la guerra diventò sempre più guerra di montagna, di presidio e di logoramento, ben diversa dalle aspettative di Eisenhower.
Infine, un aspetto del saggio che ci è apparso molto interessante riguarda una reinterpretazione controfattuale dei principali eventi dell’estate-autunno 1943. La storia dei “se” e dei “se non” e delle sue diverse conseguenze può essere un esercizio fittizio insidioso, non sarà mai possibile elaborare in modo esaustivo le ipotetiche variabili e i conseguenti output di intreccio, ma nell’approfondimento dei fatti reali si può cercarne comunque una verifica al negativo. Che cosa non fu la guerra Alleata? E perché non lo fu? E per poterla rendere diversa, di che cosa ci sarebbe stato bisogno? E perché non ci accorgemmo di talune aperture?
È chiaro che queste domande sfidano lo storico su impervi percorsi di ricerca. Esse nel saggio in questione occupano gli ultimi due capitoli rispettivamente intitolati: Doveva andare diversamente? Poteva andare diversamente? Nel primo, Mancini presenta soprattutto testimonianze e opinioni, le più vicine ai fatti accaduti, sia di storiografi che di giornalisti, pubblicisti, scrittori noti all’epoca della guerra e/o affermatisi nel decennio successivo alla sua conclusione, sugli stati d’animo con cui si andava valutando la guerra dopo la rimozione di Mussolini e l’armistizio: fatalismo, rassegnazione, senso di sconfitta, vergogna del “tradimento” del Re nonostante una diffusa antipatia antitedesca. Ma è anche significativo il giudizio dato dagli Alleati sulla mentalità della popolazione (italiani “brava gente”, ma anche opportunisti, inaffidabili, inconcludenti) e delle reazioni alla guerra diffuse nel Paese a seconda dei ruoli rivestiti (da protomanager, da militare in battaglia, o prigioniero o imboscato, da opinionista, da militante politico, da comune cittadino). Un posto particolare, per esempio, prende la citazione di numerosi brani da un saggio, pubblicato nel 2011 sempre a cura di Mancini, inerente un Diario familiare sulla sorte di tre fratelli soldati coinvolti nella guerra con diverse motivazioni ed esiti[2]. Altrettanto interessanti sono i riferimenti alle opinioni dei militari, compresi quelli operativi nei servizi segreti, con cui si può delineare un quadro di complessità (e di più giustificata valutazione) sulla fedeltà dell’esercito al Regno, che deriverebbe da intenzioni molto più articolate di quanto finora sia stato accertato di una pervicace fedeltà al fascismo. Per finire e nella buona sostanza, Mancini è propenso a dare una valutazione positiva alla strategia di Churchill di una invasione dall’Adriatico, che avrebbe permesso ai britannici di avanzare verso Roma più rapidamente contrastando con maggiore efficacia il consolidamento delle difese tedesche, facendo conto anche sulle forze militari italiane, purché Badoglio avesse voluto organizzarle, dopo un armistizio assai abborracciato e l’abbandono dell’Italia da parte del Re.
Quali risultanze?
Questo atteggiamento cognitivo, a nostro parere, può davvero aiutare uno studente a formarsi un convinto pacifismo riflessivo costruito sulla sorvegliata conoscenza di fatti concreti nella loro varia disomogeneità. Ne deriverebbe un illuminato e costante atteggiamento di ricerca e di giudizio, lontano sia dal cinismo di chi ritiene incontestabile il moltiplicarsi della violenza (“La guerra è così, non possiamo farci niente. Aspettiamo.”), sia dall’idealizzazione di chi crede in un’armonia trascendentale prestabilita. Davvero allora la storia potrebbe offrire exempla di gravissima stupidità etica, dipendenti per lo più da gravi lacune culturali, a loro volta causate da facili stereotipi e da scarse conoscenze della complessità del reale. Una stupidità, una superficialità capaci di ingigantire le catastrofi di cui si fregia una guerra.
[1] Francesco Mancini, La via Adriatica nella Liberazione di Roma nel 1943- I Piani Alleati destinati a cambiare la storia d’ Italia-Prefazione di Elena Aga Rossi, Pacini Editore, Ospedaletto-Pisa 2024.
[2] Francesco Mancini, Già vinti nel cuore. Un carteggio familiare (1926-1944), Solfanelli Tabula Fati, Chieti 2011.