Pochi giorni fa è stata celebrata la giornata della memoria, come ormai accade da 20 anni a questa parte, dopo quanto stabilito nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1° novembre 2005. In quell’occasione fu deciso che il 27 gennaio di ogni anno sarebbero state commemorate le vittime dell’Olocausto. Fu scelta quella data perché proprio quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, da sempre uno dei simboli più dolorosamente potenti dell’orrore che ha rappresentato lo sterminio di milioni di ebrei. Ed è così che ogni anno nelle scuole il 27 gennaio è un fiorire di iniziative per raccontare e ricordare ai più giovani quello che è stato, nell’idea (giusta) che la memoria sia la strada da perseguire perché certe pagine della storia così devastanti per l’umanità tutta non si ripetano ancora. Ricordare insieme, di generazione in generazione, per restare umani sempre. Eppure la celebrazione a scuola (e non solo) della giornata della memoria si porta dietro un carico di contraddizioni anno dopo anno più pesante, che la rendono sempre meno credibile, più vicina a uno sterile e ipocrita “far vedere” che a quello strumento potente che potrebbe essere. Certo, come ricorda Simon Levis Sullam sulle pagine del blog Le parole e le cose, "il 27 gennaio non è il giorno del ricordo dei genocidi”, ma è il giorno del ricordo di uno specifico genocidio. È però legittimo chiedersi (come del resto fa lo stesso Sullam) se non sarebbe più giusto, a partire da quanto accaduto nel cuore dell’Europa 80 e passa anni fa, fare sì che la memoria vada anche verso altri stermini e raccontare ai nostri studenti, per esempio, degli Armeni, dei Curdi, del Rwanda, degli indiani d’America. Dire loro che no, la Shoa non è l’unico genocidio della storia dell’umanità e che altri massacri con l’intento di realizzare una pulizia etnica (due parole che insieme mi hanno sempre dato la sensazione di voler riportare una dimensione disumana a qualcosa di accettabile) sono stati compiuti, rimanendo a volte impuniti. Non sarebbe forse questo un esercizio più onesto e autentico della memoria? Per non creare equivoci e far sorgere in qualcuno il dubbio che i genocidi non siano poi tutti uguali e che alcuni abbiano più diritto di altri a essere custoditi nei nostri pensieri collettivi e raccontati ai giovani (che in larga parte, infatti, credo ignorino quanto accaduto ai popoli precedentemente menzionati). Se l’obiettivo è ricordare perché non accada mai più, allora perché non ricordare tutte le volte che è accaduto, ripercorrendo i passi che hanno potuto portare a un tale annichilimento dell’essere umano? Il “Se questo è un uomo” di Primo Levi, sebbene parta da uno specifico evento, non ha forse un potere evocativo di carattere universale? “Se questo è un uomo” non vale forse per qualsiasi uomo, a prescindere dalla razza, dalla nazionalità, dalla religione, dall’orientamento sessuale? Ma a partire dal 27 gennaio 2024, ancora di più, pesa sulla giornata della memoria un macigno che, personalmente, rende ai miei occhi ormai indigeribile una celebrazione che mi pare definitivamente entrata nel novero di quella “scuola per finta” portata avanti con solerzia da dirigenti obbedienti e docenti passivi, incapaci di farsi due domande (o forse semplicemente non ne hanno voglia) per provare a dare valore a un rituale scolastico ormai vuoto perché sconfessato dall’attualità. Com’è possibile infatti ricordare qualcosa perchè non accada mai più, mentre sotto i nostri occhi, sotto gli occhi di una scuola colpevolmente muta, si è consumata una strage che sa di genocidio e che ci è entrata in casa in diretta internet, rispetto alla quale, quindi, non potremo dire che non sapevamo, che non c’eravamo, che non avevamo visto nulla. Abbiamo addirittura ascoltato le urla dei palestinesi bruciati vivi nelle tende diventate le loro case, potere di un mondo digitale che ci ha resi morbosi voyeur del dolore altrui, ma sempre più indifferenti e incapaci di reazioni. Così, di fronte a fatti e immagini che avrebbero dovuto farci saltare dalle sedie e urlare insieme “basta, che questo scempio che ci riguarda tutti finisca adesso, immediatamente”, siamo rimasti zitti e buoni, a partire dalle aule silenziose delle nostre scuole dove, con poche illuminate eccezioni, parlare di Palestina è off limits! Provateci a proporre a un dirigente medio (il tipo di dirigente, così diffuso nelle scuole italiane, che ha assunto il ruolo del bravo burocrate, attento a non inimicarsi i piani alti), di organizzare iniziative per raccontare della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, provateci a chiedere al Collegio dei Docenti o al Consiglio d’Istituto che il 27 gennaio degli anni che verranno si parli della Shoah, ma si racconti insieme anche di quello che Israele, da oltre 75 anni, sta facendo ai Palestinesi, con l’escalation di barbarie a cui assistiamo ormai da 16 mesi. Provateci! La risposta sarà quasi certamente un no, al massimo un no mascherato, perché la memoria che si pratica nella nostra scuola (e nel paese in cui viviamo) è, a quanto pare, una memoria selettiva.