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25/03/2025

L'elmetto e lo struzzo, la pace e la guerra (II parte)

di Carlo Palumbo

4. Società civile e militari: i pregiudizi da superare

Riepilogando: le Forze armate, la Magistratura, la Scuola e l’Università, il Servizio Sanitario Nazionale sono istituzioni dello Stato le cui finalità sono individuate nel Testo costituzionale e il cui funzionamento è definito dalla legge. Il rapporto tra istituzioni militari, forze dell’ordine e società dovrebbe essere un fatto normale in un Paese democratico basato sul diritto. Ciò non toglie che esistano pregiudizi ed eventi che in passato hanno inquinato questo rapporto. Ancora negli anni Settanta, il ruolo di magistrati e forze dell’ordine era considerato negativamente dai movimenti giovanili e dal movimento operaio in lotta. La radicalizzazione sociale di quegli anni portò aria nuova anche nelle istituzioni statali più conservatrici o rimaste più condizionate dalla cultura antidemocratica che trovava le sue radici nel fascismo. L’apertura della Magistratura e delle Forze di polizia a idee più democratiche risale a quegli anni. Il ruolo svolto dai magistrati nel contrasto alla mafia negli anni Ottanta e successivamente contro la corruzione politica (Tangentopoli) cambiò la percezione dell’opinione pubblica nei loro confronti. L’adesione di alti ufficiali dei Carabinieri, dei servizi segreti (prima SIFAR, poi SID, quindi SISMI/SISDE), delle Forze armate a progetti autoritari, dal Piano Solo, alla Strategia della tensione, alle attività della Loggia Propaganda 2, ha sicuramente minato la fiducia degli ambienti democratici e di sinistra nei confronti di queste istituzioni. Per quanto riguarda le Forze di polizia, la nascita di sindacati, la smilitarizzazione del corpo, l’ingresso di nuovo personale cresciuto in una società più moderna e più democratica, ha cambiato molti dei comportamenti un tempo tipici della tradizione autoritaria della “pubblica sicurezza”. Ovviamente, non si è trattato di un processo coerente e generalizzato alla totalità del personale. Rimangono a tutti i livelli residui del vecchio modello antidemocratico. Ne fu una manifestazione tragica quanto avvenne in occasione del G8 di Genova nel luglio 2001, con gli episodi di piazza Alimonda, della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. A determinare il comportamento delle forze dell’ordine in quell’occasione fu la volontà del secondo governo Berlusconi, di cui Gianfranco Fini era il vicepresidente, di usare il pugno di ferro contro i manifestanti, pacifici nella quasi totalità, nonostante la presenza provocatoria dei cosiddetti Black bloc. Ricordo che in Giro di boa, il settimo romanzo della serie dedicata al Commissario Montalbano, uscito nel 2003, il protagonista decide di dimettersi a meno che i suoi colleghi non disapprovino quanto accaduto a Genova. Questo per dire che tra i poliziotti c’era una parte “sana”, io credo la maggioranza, che visse come un dramma quelle vicende. Comunque, nel 2008, le Squadre mobili, responsabili di quei fatti, sono state riorganizzate, riducendo i rischi di comportamenti illegali o eccessivi.

Tuttavia, nel tempo, nonostante queste contraddizioni, è stata forte l’azione di rinnovamento in senso democratico dei corpi armati dello Stato, sia per iniziativa delle forze politiche e del Parlamento, sia per quella della Magistratura, che ha sanzionato con pesanti condanne numerosi comportamenti illegali, si pensi alle deviazioni delle indagini operate da ambienti interni ai servizi segreti. Dimostrando che se alcuni settori dello Stato agivano al di fuori della legge, altri difendevano lo Stato di diritto. I militari sono cittadini come gli altri, anche se con qualche obbligo in più, considerando l’educazione e la funzione che essi hanno; essi sono più caratterizzati da un pensiero legalitario, dal rispetto di regole, gerarchia e disciplina. Appare naturale che siano più orientati verso politiche di ordine piuttosto che libertarie. Per il resto hanno orientamenti personali, politici, culturali che corrispondono a quelli presenti nella società. I soldati di oggi sono il prodotto della crescita culturale e civile che l’Italia ha vissuto con le ultime tre generazioni; gli ufficiali hanno una formazione spesso di altissimo livello, sul piano professionale e tecnologico, delle capacità di comunicazione, di esperienza internazionale, di comando sul campo, anche in missioni all’Estero. Pensare a queste persone come se fossero la parodia del militare spesso protagonista delle commedie all’italiana degli anni Cinquanta-Sessanta è del tutto fuori del tempo. Ovviamente con le dovute eccezioni.

Altra cosa è per un militare uscire dal proprio ruolo, quello che la Costituzione e la legge gli assegnano, e allargare la propria azione, mentre è in servizio, al campo politico, da una parte, oppure svolgere attività coperte che vanno contro la legge e la fedeltà alla Repubblica. Ma questa è questione complessa, che pone il problema di una possibile doppia fedeltà, si tratta della riflessione su un presunto “doppio Stato” [1], che condizionerebbe il nostro Paese e che troverebbe nell’integrazione nella NATO e nella fedeltà agli Stati Uniti una delle fonti di alterazione della normale dialettica democratica dell’Italia dopo l’ultima guerra. Quanto detto nel paragrafo precedente fornirebbe in qualche modo spiegazione, se non giustificazione, a questa dipendenza della nostra vita politica nazionale dall’Estero.
Credo sia un gravissimo errore politico lasciare alla politica e alla cultura delle destre vecchie e nuove il monopolio delle relazioni con queste istituzioni. Ricordo che le vecchie forze di sinistra, il PCI e il PSI, hanno sempre mantenuto una particolare attenzione al mondo dei militari e a quello delle forze dell’ordine.
Credo inoltre che ci sia, a volte, nei settori meno avvertiti del pacifismo e del radicalismo di sinistra, una conoscenza parziale dell’attuale cultura militare, accusata tout court di bellicismo e di nazionalismo autoritario. In questa sede mi limiterò ad alcune esperienze personali, senza voler con questo generalizzare.

Ho avuto modo negli ultimi anni di frequentare ambienti militari direttamente, per motivi di studio e per i miei interessi storici o legati ai temi della memoria. Tornerò fra poco sugli aspetti più politici e di strategia militare attuale. Mi fermo ora agli aspetti culturali della vita militare, quelli legati alla ricerca e alla formazione. Ho partecipato lo scorso anno a due convegni organizzati dall’Ufficio per la tutela della cultura e della memoria della Difesa (Noto in passato come OnorCaduti).

Il primo presso l’Istituto di Scienze militari aeronautiche di Firenze, l’8 febbraio 2024, dal titolo “Cefalonia. Riflessioni sulla memoria e sulla storia”. 

Tra gli interventi, oltre ad alti ufficiali che insegnano in scuole militari, quello del Presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, con una relazione incentrata sul ruolo della resistenza toscana nella liberazione di Firenze; il Procuratore Generale Militare Marco De Paolis ha invece trattato i processi da lui conclusi, tra quelli individuati nel cosiddetto “Armadio della Vergogna”, ovvero i 695 fascicoli di notizie di reato per crimini di guerra tedeschi e fascisti commessi dopo l’8 settembre 1943, e ritrovati casualmente nel 1994, dopo essere stati “provvisoriamente archiviati” nel 1960. Il pubblico era costituito da familiari di caduti e reduci della Divisione Acqui a Cefalonia e a Corfù nel settembre 1943, da alti ufficiali di ogni arma, da circa duecento allievi della Scuola militare Aeronautica Giulio Douhet, e da altrettanti partecipanti al corso “normale” per ufficiali piloti (al grado di maggiore). 

Il secondo convegno, svoltosi a Roma, presso il Centro Alti Studi della Difesa, il 21 marzo 2024, era dedicato a “80 anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine: storia, giustizia, memoria”.
Il pubblico era costituito da militari, studiosi e membri dell’associazionismo militare e/o antifascista. Si consideri che la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine fu la risposta ad una delle principali azioni della Resistenza italiana, l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, che causò la morte di 33 soldati tedeschi e di due civili italiani, un episodio che è sempre stato al centro del confronto tra storici e politici di diverso orientamento. Quindi un argomento che in ambiente militare avrebbe potuto essere utilizzato per sostenere posizioni attendiste o revisioniste. Nulla di tutto questo. Gli interventi degli storici, degli esperti e dei familiari delle vittime, Isabella Insolvibile della Fondazione Museo della Shoah, Marco del Paolis - Procuratore Generale Militare, Claudio Procaccia - DIBAC, Raffaele Camposano - Ufficio storico Polizia di Stato, Carlo Maria Fiorentino - Archivio Centrale dello Stato, Amedeo Tosti Guerrazzi - UNIPD, Bruno Brienza - UTCMD, Adriana Montezemolo - figlia del col. Giuseppe Cordero di Montezemolo, Francesco Albertelli  - presidente ANFIM, Ilaria Delsere - Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio Roma, hanno affrontato il ruolo dei GAP e dei comunisti romani, le responsabilità dei partiti antifascisti, le ragioni e le forme della  rappresaglia tedesca con la collaborazione degli uffici italiani collaborazionisti, su un piano di chiarezza scientifica encomiabile, senza equivoci sulle responsabilità del fascismo e del nazismo.

Negli stessi giorni (a breve vi sarebbero state le celebrazioni del 25 aprile), esponenti del governo Meloni si esprimevano in maniera ambigua e omissiva sulle responsabilità del fascismo nel Ventennio e durante l’occupazione tedesca. A conclusione del convegno, l’intervento del Vicedirettore dell’UTCMD era tutto centrato sul tema dell’attuale contesto internazionale, della gravità del momento e della necessità di preservare in ogni modo la pace. Un discorso chiarissimo e coinvolgente che non lasciava spazio a dubbi su quale fosse il sentire del mondo militare per una situazione di tensione internazionale che in caso di peggioramento vedrebbe loro coinvolti per primi. Nei due convegni citati, a parte la presenza di militari tra i relatori, il taglio e la qualità delle relazioni poteva benissimo rientrare in un’iniziativa assunta da un’importante università nazionale. Nessuna propaganda nazionalista o bellicista.

Aggiungo un’altra riflessione. A partire dal conflitto in Ucraina, tra i commentatori più avvertiti e prudenti nell’analizzare le cause della guerra e nell’anticipare i rischi di un coinvolgimento diretto dei paesi europei in un confronto del tutto impari con la capacità bellica della Russia, sono stati alti ufficiali in pensione. Spesso con ampia esperienza in aree di conflitto come comandanti di operazioni internazionali o presso la NATO e gli Stati Maggiori italiani. Si è infatti parlato di una sorta di pacifismo diffuso tra i militari, mentre i politici e i giornalisti manifestavano in ogni modo il proprio bellicismo. Ho avuto modo di verificare direttamente questi orientamenti. Tra gli altri propongo alcune osservazioni del generale di brigata Francesco CosimatoSi tratta di un articolo pubblicato su Krisis del 5 febbraio 2025, dal titolo: “Perché io, generale, sono contro la guerra in Ucraina. I motivi per cui tanti militari sono diventati pacifisti”.  “Mentre il dibattito pubblico è sempre più dominato da retoriche belliciste, molti militari in congedo – che la guerra la conoscono davvero – si schierano contro l’escalation in Ucraina. Dopo anni di illusioni su guerre «chirurgiche» e strategie mediatiche, la realtà ci restituisce un conflitto logorante, lontano dalle vittorie annunciate”. Dopo avere analizzato con cognizione di causa il contesto internazionale e la situazione sul campo, a proposito di un impegno diretto dell’Europa nel conflitto, il generale conclude: “Arriviamo al vero punto dolente. In un conflitto a elevato attrito, ipotizzando un tasso di perdite del 20% (tutto sommato benevolo), dovremmo considerare, su una forza di 2.516.900 soldati europei, la perdita di 503.380 vite umane in una campagna militare di breve durata. Mezzo milione di persone: una cifra che equivale a tutti gli abitanti di Genova o di Tolosa o di Zagabria o di Edimburgo (…). Quanti politici europei ritengono accettabile un’ipotesi del genere? Quanti governi sopravviverebbero a un mese di guerra? Per altro verso, pare che i guerrafondai di Bruxelles non intendano considerare le innegabili difficoltà russe in Ucraina. Se è vero che i russi hanno conseguito un alto grado di supremazia aerea, bisogna anche ricordare che la manovra iniziale è ampiamente fallita. Chi proclama che, dopo l’Ucraina, la Russia attaccherà l’Europa, su quali informazioni si basa? Dopo quasi tre anni di guerra è realistico pensare che i russi proseguiranno la loro campagna militare? Io non credo, per la semplice ragione che un’operazione offensiva in Europa richiederebbe una supremazia aerea da parte russa assai dubbia e un rapporto di forze di tre a uno che non è materialmente possibile”.
E rispetto al ruolo avuto nel passato dai nostri militari, ricordo al lettore le parole usate dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che il 1° marzo 2001, a Cefalonia, in riferimento al comportamento dei militari della Divisione Acqui, che dopo l’8 settembre combatterono contro i tedeschi: “Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento (…) La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo” (…) Decideste così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia”.

A distanza di tanti anni, forse alle giovani generazioni queste parole possono sembrare retoriche, come lo fu in tanti momenti il dibattito dei nostri Costituenti, abituati ad un linguaggio e a riferimenti culturali che oggi appaiono lontani dal nostro sentire. Tuttavia sono parole che riconciliano e trovano in sintonia generazioni diverse di italiani, appartenenti ad epoche diverse, ma vicine per una serie di valori che non necessariamente devono essere interpretati come aggressivi, militaristi, “patriottici” in senso nazionalista.
Io credo, di nuovo, che sia un errore, innanzitutto culturale, ma anche politico, per il mondo democratico, di sinistra, che si occupa di istruzione, disprezzare, ridicolizzare, attaccare  questi sentimenti e queste espressioni, soprattutto quando sono il frutto di un sentire democratico, di uno spirito di servizio nei confronti dello Stato, di una visione legalitaria, di quello che in una vasta letteratura viene definito come “patriottismo costituzionale”[2], distinguendolo in maniera radicale da quello nazionalista e militarista, che invece rappresenta il pensiero della destra, vecchia e nuova.
Credo che il mondo democratico e di sinistra metta insieme, a volte, questioni diverse, facendo così confusione e finendo per confondere capre e cavoli, come si dice. Alcuni esempi di questo modo di ragionare che a me non convince proprio sono presenti più sopra, nel secondo paragrafo. Non tutto quello che viene percepito come una ripresa del nazionalismo e dell’autoritarismo nella società e nella scuola ha lo stesso significato. Si critica l’interesse delle Forze armate per i giovani, ma questa relazione non dovrebbe allarmare più di tanto, ma essere considerata naturale in una società democratica; gli interventi pubblici di alti ufficiali sulla situazione internazionale possono costituire un utile contributo alla comprensione della realtà effettuale, se tali argomenti fossero ripresi liberamente nel pubblico dibattito, come si è visto più sopra.

Diverso giudizio si deve dare alle politiche sull’istruzione dei governi recenti, che vanno tutti nella direzione della restaurazione; particolarmente gravi sono le scelte orientate in senso bellicista e di riarmo intensivo promossi dagli USA, dalla NATO, dall’Unione europea e infine dal Governo Meloni, ma quelli precedenti non erano diversi. Penso sia importante distinguere temi e piani del confronto.
Le scuole rientrano da tempo nel campo di interesse di soggetti che operano a vario titolo all’interno della nostra società. Ricordo, a titolo di esempio, gli interventi dell’associazionismo legato alla Confindustria e alle sue diverse articolazioni nelle scuole, quando vennero avviati i primi progetti di alternanza scuola lavoro. Gran parte dell’orientamento scolastico, almeno a Torino, venne svolto da associazioni di imprenditori, che ovviamente indirizzarono la formazione secondo i propri interessi. Quello che fanno le nostre Forse armate non è poi così diverso.

Per le scuole si tratta in ogni caso di avere il controllo di questa formazione; esse non possono esserne fruitori passivi. Devono avere la capacità di gestire la progettazione e di costruire percorsi rimanendo all’interno dei curricoli di cui sono i responsabili. Non sempre le scuole, i dirigenti scolastici, i collegi docenti hanno questa capacità. A volte, come sopra è stato già sottolineato, le scuole sono anche psicologicamente subalterne. Invece, dovrebbe spettare alla scuola il dominio di queste collaborazioni, non il contrario. Per l’istituzione scolastica, la soluzione non può essere chiudersi a riccio o peggio nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi per non vedere e non sentire quello che succede nel mondo e nella società.

5. La politica europea ed italiana di fronte ai temi della pace e della guerra. 

Nell’ ottobre 2024, la Società Filosofica Italiana - Sezione Torino Vercelli, mi chiese di aprire con una lezione un corso di formazione rivolto agli insegnanti, dal titolo “Frammenti di filosofia per un mondo in guerra”. La mia relazione aveva come titolo: “La guerra come surrogato o come opzione quasi sempre possibile in alternativa alla diplomazia o alla guerra”. Mi sembrava che questo fosse lo spirito oggi prevalente nelle relazioni internazionali. Cominciai con un’affermazione che non lasciava dubbi: “Se pensate che la guerra sia lontana e che non si interessi a voi, state sbagliando!”. Per essere più convincente, partii dal ruolo delle nostre Forze armate, che definii “professionali, integrate nella NATO in funzione antirussa, proiettate verso l’Indo-pacifico per fronteggiare la Cina”. Nel 2024, ben 11.166 militari italiani hanno partecipato a 40 missioni all’Estero
La presenza militare internazionale dell’Italia è la prima tra i paesi dell’Unione europea e la seconda nella NATO dopo quella americana. È evidente che questo impegno militare nazionale abbia le sue radici nelle scelte politiche dei parlamenti (almeno formalmente) e dei governi che si sono succeduti negli ultimi due-tre decenni. Il protagonismo dei militari è conseguente a puntuali decisioni dei principali partiti che si sono assunti le responsabilità di governo negli ultimi anni, dal PD, al Movimento 5 Stelle a Fratelli d’Italia, con tutti gli altri più piccoli in mezzo. Il problema allora non è il ruolo dei militari, ma quello dei politici e di decisioni che ci stanno avvicinando sempre più allo scontro con nuovi nemici, senza che i cittadini ne abbiano consapevolezza, perché si fa di tutto per impedire che i temi della pace e della guerra siano al centro del discorso pubblico. Da molto tempo il Parlamento ha smesso di svolgere il ruolo di decisore centrale delle scelte strategiche del nostro Paese, come la Costituzione prevederebbe, perché accoglie passivamente ogni volontà che arriva dall’esterno, in particolare dall’Unione europea e dalla NATO, anche quando è in contrasto con gli interessi del nostro Paese e dei nostri cittadini.

Per alcuni anni, dopo la fine della guerra fredda, su iniziativa dell’ONU, dell’Unione europea e della NATO, l’Italia ha partecipato a numerose missioni internazionali in situazioni di guerra. In nessuna occasione per il Parlamento italiano, ma lo stesso è avvenuto negli altri parlamenti nazionali, è stato necessario dichiarare, per giustificare l’intervento militare, lo stato di guerra. Una dichiarazione del genere avrebbe conseguenze pesantissime sulla vita di ogni Paese e sulle diverse popolazioni, oltre che richiedere il sostegno convinto dell’opinione pubblica. Si pensi che la pena di morte è stata abolita nel nostro Codice penale militare di guerra solo nel 1994. Oggi le guerre si fanno senza che siano dichiarate. Le abbiamo chiamate in tanti modi, da missioni per il mantenimento della pace (peace keeping) a quelle per la sua imposizione (peace enforcement). È una delle tante ipocrisie dei moderni stati liberal-democratici dell’Occidente civilizzato. Le guerre si fanno ma non si dicono. Sul sito del Ministero della Difesa, c’è l’elenco di tutti i militari italiani caduti nelle missioni internazionali dal 1950 (Missione ONU in Eritrea) al 2014. Si tratta di un totale di 177 vittime.

Interventi militari di questo tipo sono accompagnati in genere da una campagna mediatica limitata al momento della decisione, col compito di orientare, soprattutto sul piano emotivo, la gente. Ma non serve molto impegno, perché si tratta di interventi lontani dal territorio nazionale, che coinvolgono militari professionisti in numero limitato e i cittadini sono, su questi argomenti, distratti. Anche quelli critici. Per questo le operazioni militari sono avvenute senza il riflettore dei media nostrani, se non in occasione di episodi in cui i nostri soldati hanno avuto perdite, nell’indifferenza e nell’ipocrisia comune.

Con l’invasione dell’Ucraina si è intensificata l’integrazione delle Forze armate italiane nella NATO, con nostri reparti inseriti in strutture di comando in genere inglesi o americane, ma negli ultimi tempi anche australiane e giapponesi. Aviazione, Marina ed Esercito sono regolarmente coinvolte in “esercitazioni” sia in Europa sia nell’Indo-Pacifico, dove, nella scorsa estate, è stata presente una squadra navale guidata dalla nostra nave ammiraglia ITS Cavour, con il coinvolgimento di alcuni reparti dell’Aviazione militare. Nelle prime settimane di gennaio 2025, il Capo di Stato Maggiore Esercito, il Generale C.A, Carmine Masiello, era in Giappone per l’esercitazione multilaterale New Year Jump 25.

Secondo il sito del Ministero della Difesa, nel corso della visita “sono stati affrontati vari ambiti di cooperazione, tra cui esercitazioni e attività addestrative nei settori delle aviotruppe, mountain warfare, operazioni anfibie, difesa cyber e CBRN (Chimico, Biologico, Radiologico e Nucleare)”. Ma tutte queste operazioni sono approvate, per quanto riguarda i costi da sostenere, dal Parlamento, la decisione è prima di tutto sempre politica, non militare.

Secondo tutte le analisi quantitative e qualitative internazionali, l’ultimo triennio (2022-2024) rappresenta quello più pericoloso per la pace del mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale, quello in cui le aree di conflitto locali potrebbero avviare un conflitto generale, in particolare sul fronte ucraino, nel Vicino Oriente (Gaza), a Taiwan. Lo stesso Papa Francesco, nel discorso di inizio 2024 al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, aveva affermato: «Il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito terza guerra mondiale a pezzi in un vero e proprio conflitto globale».

Per avere la percezione della gravità della situazione attuale, basti pensare che delle sette tipologie di trattati sulle armi nucleari sottoscritte dopo il 1968, l’unico bilaterale tra USA e Federazione Russa ancora in vigore è il New Star, firmato nel 2010 e in vigore fino al 2026. Altri trattati erano già stati denunciati dai presidenti americano o russo. L’attuale competizione internazionale si svolge su piani differenti, in particolare su quelli della potenza economica e militare. Nel 2023, il PIL USA rappresentava il 25,6% del totale mondiale, l’unico concorrente su questo terreno era la Repubblica Popolare Cinese, col 18,5%. La Federazione russa rappresentava solo il 2,1% del totale, più o meno sullo stesso livello dell’Italia o del Canada. Ma non è il peso economico degli USA a determinare la sua forza nel mondo, o almeno non principalmente: nel 2022, su una spesa militare totale nel mondo di 2.240 miliardi di dollari, gli Stati Uniti rappresentavano il 38% del totale, contro il 14% della Cina e, molto lontano, il 3,1% della Federazione Russa. Se poi si sommano le spese militari di tutti i paesi NATO, si arriva alla cifra di 1.232 miliardi di dollari, il 55% del totale. Con gli alleati degli USA nell’area dell’Indo-pacifico, si arriva a circa il 70% della spesa globale.
La spesa militare è oggi centrale nelle decisioni dei governi, compreso il nostro.

Il segretario della NATO, l’olandese Mark Rutte, e la presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, chiedono un ulteriore forte aumento di questa spesa, per arrivare addirittura al 3% del PIL. (l’Italia è attualmente all’1,5%, con l’intenzione di arrivare al 2%). Queste proposte possono essere attuate solo prelevando le risorse da altri settori della spesa pubblica, e vengono subito alla mente la sicurezza sociale e le pensioni, il sistema sanitario e la scuola, i servizi pubblici in genere. Chi fa queste proposte, in verità, punta in maniera chiara alla distruzione dello stato sociale come lo abbiamo conosciuto in Italia e in Europa a partire dagli anni Sessanta-Settanta, lo stesso che nell’ultimo trentennio ha già subito pesanti interventi attuati dai governi di ogni orientamento secondo le richieste delle politiche neoliberiste che hanno dall’inizio dominato i Trattati europei.
Per giustificare queste richieste di maggiori investimenti militari e convincere le opinioni pubbliche che si debba rispondere ad una minaccia immediata da parte della Federazione Russa, che però abbiamo visto avere un peso economico minimo rispetto a quello dell’Unione europea o degli USA, non ci si vergogna di falsificare i dati sulla spesa militare. La stampa europea, totalmente subalterna alle industrie della difesa, non si è fatta problemi a rilanciare i dati (falsi) prodotti dall’International Institute of Strategic Studies, secondo cui vi sarebbe una netta supremazia della spesa della Federazione Russa su quella europea, comprendendo i Paesi dell’Unione europea e quelli che sono fuori, come la Gran Bretagna. Carlo Cottarelli, che dirige l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolicaha dimostrato che si tratta di dati manipolati. Nel 2024, i paesi europei avrebbero speso 730 miliardi di dollari (a parità di potere d’acquisto), rispetto ai 462 della Federazione Russa, il 58% in più. Questo nonostante la Russia sia impegnata in una guerra. Mario Draghi, intervenendo il 18 febbraio scorso al Parlamento europeo, ha parlato invece della necessità di 7-800 miliardi di euro di investimenti per rafforzare il sistema di difesa comune, attraverso l’emissione di un “debito comune” (…) “sovranazionale”. 


Si parla anche di un esercito comune. Attualmente, i paesi dell’Unione europea aderenti alla NATO hanno insieme un numero di militari effettivi superiore al milione, ma rimane il problema di fondo, ovvero che all’Unione europea non spetta una vera sovranità simile a quella degli Stati aderenti. La questione della presenza e del controllo delle Forze armate è sempre stata, assieme a quella della moneta e alle politiche fiscali, tra i capisaldi di ogni Stato sovrano. Non sembra che i Paesi europei attuali, e non solo quelli dell’Est che si caratterizzano oggi per politiche prevalentemente nazionaliste, ma anche quelli del nucleo originario, si pensi alla Francia ad esempio, l’unica ad essere anche potenza nucleare, siano disponibili a cedere sovranità ad un organismo sovrannazionale che dovrebbe chiedere, in nome di che cosa non si sa, di armarsi e di andare a combattere.
L’Alto rappresentante per la Politica Estera dell’Unione europea, Kaja Kallas, intervenuta alla conferenza annuale dell’Agenzia europea della difesa (EDA) lo scorso 22 gennaio 2025, dopo avere premesso che “La gente dice che sono un falco anti-Russia, allora dovremmo essere tutti falchi. Penso di essere semplicemente realista”, chiarisce quale sarebbe l’intento strategico dell’Unione europea: “Non deve esserci alcun dubbio, in nessuno di noi, sul fatto che dobbiamo spendere di più per prevenire la guerra, ma dobbiamo anche spendere di più per prepararci alla guerra”. Rileggete attentamente, perché un’affermazione del genere, fatta da un alto rappresentante della Commissione, non si era ancora sentita! Cioè di doversi preparare alla guerra. E il suo collega alla Difesa Andrius Kubilius
“La Lituania destinerà nei prossimi anni il 5-6% del Pil alla Difesa. Io sono lituano e sarò dunque di parte, ma credo sia quello di cui abbiamo bisogno”. Queste persone, che rappresentano due piccoli paesi baltici con poco più di quattro milioni di abitanti, decidono oggi il destino e le scelte politiche a nome di 450 milioni di cittadini europei! Giocano alla guerra ma non sono consapevoli di avere di fronte la potenza nucleare della Federazione Russa, che ha più di 6.000 testate atomiche, un paese che se minacciato nella propria sopravvivenza saprebbe come reagire. Con quali mezzi questi signori pensano di fare la guerra alla Russia? Pensano che gli USA siano disposti a morire per l’Ucraina o per l’Europa? Follia pura.

Nulla da aggiungere a queste continue dichiarazioni e decisioni belliciste, nessuna proposta diplomatica viene dalle Istituzioni europee, solo più guerra. È questo atteggiamento politico dell’Europa a cui apparteniamo che dovrebbe preoccupare profondamente tutti i democratici italiani e il mondo della scuola, perché denuncia il gravissimo deficit di democrazia da cui è affetto tutto il progetto di integrazione sviluppatosi a partire dal 1992, che garantisce gli interessi delle oligarchie economico-finanziarie piuttosto che quelli dei cittadini europei. Dovremmo preoccuparci, prima ancora della spesa militare e della creazione di un esercito europeo, di ricostruire le basi dell’Unione europea su solide fondamenta realmente democratiche, a partire da una Costituzione liberamente condivisa, che riproponga i valori su cui si pensava di superare, ottanta anni fa, la tragedia della seconda guerra mondiale.

5. Decisioni che passano sulla testa dei cittadini e mettono a rischio la nostra democrazia.

Negli ultimi anni, mentre si parlava in maniera sempre più insistente di guerra e non di pace, e i recenti interventi del generale Masiello, attuale Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ma anche quelli della presidente del Consiglio Meloni vanno tutti in questo senso, le posizioni che insistevano per promuovere o ricercare la pace e la diplomazia per la risoluzione dei conflitti venivano ridicolizzate, quanto non accusate di essere solidali o colluse col “nemico”. Essere “putiniano” diventava l’epiteto per annullare ogni invito alla riflessione sulle cause e sulle responsabilità della guerra in Ucraina, mentre chi criticava la reazione israeliana a Gaza e gli effetti tragici sulla popolazione dei bombardamenti dell’esercito israeliano, diventava automaticamente “antisemita” e nemico di Israele.

Si è poi imposta nei governi occidentali, a partire da quello USA, prima con Biden poi con Trump e, attraverso la NATO, anche ai governi europei compreso il nostro, la convinzione che si dovesse con ogni mezzo procedere verso un riarmo forzato, per sostenere i veri o presunti pericoli all’ordine internazionale “basato sulle regole”, come dicono gli americani. Il riarmo previsto non ha il solo scopo della “deterrenza”, ovvero farsi trovare preparati ad un eventuale attacco nemico, ma nei discorsi sempre più abituali dei principali leader occidentali, lo abbiamo visto sopra, il riarmo serve a riaffermare il predominio e l’egemonia del nostro “Occidente” a guida angloamericana (oppure europea) nei confronti di ogni possibile nemico. È nel contesto di queste scelte, che nella comunicazione pubblica si è pian piano assistito alla diffusione di una retorica bellicista basata sull’amor di patria, sullo spirito di sacrificio, sull’onore, sulla fierezza, sulla difesa della famiglia, dei figli, delle madri e delle sorelle da proteggere con le armi, il fucile e l’elmetto. Una retorica che è stata diffusa soprattutto dalla destra politica, ma che si è appropriata di valori propri della cultura democratica e presenti, come abbiamo visto sopra, nella stessa Costituzione. 

Nello stesso periodo si è proceduto a mettere in crisi i principali strumenti che nel dopoguerra la comunità internazionale aveva sviluppato dopo l’ultima guerra mondiale per gestire le tensioni e i conflitti mondiali: l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la Corte Penale Internazionale dell’Aja, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i Trattati per la limitazione delle armi nucleari. Sono stati sempre di più messi in discussione il principio di legalità, interpretato secondo convenienza, e il concetto di Stato di diritto, contestato per i propri nemici, ma insindacabile se riguardava paesi amici. Dell’esistenza di questo doppio criterio di giudizio, di questa ipocrisia che domina la politica internazionale dell’Occidente, sono assolutamente consapevoli i Paesi in via di sviluppo, ma non i nostri cittadini e i politici che continuano a credere nella propria falsa coscienza.
Questo dibattito viene proposto ai cittadini in forma distorta, con censure e rimozioni, propaganda e politiche di marketing. La chiarezza, completezza e precisione dell’informazione, la costruzione di competenza civica su questi argomenti, di consapevolezza e di spirito critico, è quanto di più lontano dalla volontà e dagli obiettivi dei ceti dirigenti della politica, dell’economia, della cultura, dell’informazione. Questo atteggiamento elusivo, purtroppo, non riguarda solo gli attuali partiti di governo, ma anche quelli di opposizione, che su questi temi votano spesso con i primi. È quanto accaduto nel voto sulla Risoluzione europea dello scorso 19 settembre 2024, che approvava nuovi aiuti in armamenti all’Ucraina e toglieva le limitazioni al loro impiego in territorio russo.

Come si può comprendere da quanto detto finora, il ruolo delle nostre Forze armate, indicato come abbiamo visto dalla nostra Costituzione, non può che ridefinirsi in base al contesto internazionale e agli orientamenti della politica parlamentare e di governo. Ed è su queste decisioni che l’opinione pubblica dovrebbe potersi esprimere. Ma questo oggi non avviene.

Rimane l’ambiguità di una situazione in cui ci comportiamo come se fossimo in guerra con la Federazione Russa, e qualche politico o commentatore esaltato ne è pure convinto, ma il Parlamento di tutto questo è stato informato solo per questioni di spesa da approvare, senza che nel Paese e nelle sedi istituzionali scelte così determinanti per la nostra vita siano state sottoposte ad un vero contraddittorio. Non solo. E’ stato impedito che i cittadini avessero una conoscenza sui dati obbiettivi della situazione internazionale e sulle reali decisioni assunte dai differenti soggetti statuali, rendendo impossibile ai più la comprensione della realtà. Non solo l’opinione pubblica, ma anche i decisori in ogni ambito, politico, economico, culturale, sono stati immersi in questi anni in una realtà immaginaria, costruita ad arte dalla comunicazione pubblica sulla base di notizie ed elaborazioni distorte da attori il cui scopo era concorrere alla “guerra ibrida” e alla “guerra psicologica” che è oggi parte determinante di ogni conflitto internazionale.

Sarebbe invece indispensabile che le opinioni pubbliche del Continente prendessero coscienza della realtà e potessero esprimersi, finalmente, su questioni che determinano il futuro di tutti, perché si parla di pace e di guerra.

 

Note

[1] Su questo argomento, tra altri: M. Cereghino-G. Fasanella, Dagli archivi angloamericani e del servizio segreto del PCI il perché degli anni di piombo. Le menti del doppio Stato, Chiarelettere, Milano 2020.

[2] Per una disamina più approfondita, si veda la trilogia di Gian Enrico Rusconi: "Se cessiamo di essere una nazione", Il Mulino, Bologna 1993; "Resistenza e postfascismo", Il Mulino, Bologna 1995; "Cefalonia. Quando gli italiani si battono", Einaudi, Torino 2004.

 

Scrive...

Carlo Palumbo Ha insegnato al Primo Liceo Artistico di Torino, pubblicista e autore di ricerche e progetti didattici anche nazionali, svolge attività di formatore e aggiornatore in progetti del CIDI, con particolare attenzione alla storia del Novecento,

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