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28/06/2024

In difesa della complessità

di Giuseppe Buondonno

L’invito ad alcune figure politiche era, giustamente, finalizzato al “che fare?”. E abbiamo provato, credo utilmente, ma certo onestamente e unitariamente, a dire cose sensate[1] . Però i tempi erano inevitabilmente stretti, mentre gli stimoli (anche per il pomeriggio precedente) erano ricchi; così mi sono rimaste in testa alcune considerazioni, spero utili anche queste.

Riguardano la complessità, vittima sacrificale del pensare, del parlare e dell’agire nell’era digitale e virtuale.

In tutte e tre queste sfere, semplificazione e rapidità comprimono fortemente, direi statutariamente, il tempo, che della complessità è il principale alleato. Tempo per la comprensione e per l’assimilazione; per l’elaborazione e per l’articolazione; tempo che, come un diaframma salvifico, separa, ad esempio, il sentire emotivo dall’agire (o dallo scrivere, che, in alcuni casi, è la stessa cosa). Lo sperimentiamo quotidianamente, con i nostri alunni, e con noi stessi, pur figli del Novecento.
Semplificazione e rapidità determinano – parafrasando Byung Chul Han[2] 
- una deprivazione emotiva dell’essere che, per quanto possa sembrare paradossale, non è in contraddizione con una ipertrofia delle sensazioni, dal momento che essa riduce il tempo della riflessione. Negli schermi digitali si produce (e si vive!) una dilatazione della contingenza che frantuma la stabilità, frammenta l’identità; alimentando un senso di precarietà, che ha già tante ragioni materiali. Perché, tra l’altro, quell’esperienza così pervasiva e costante, dietro la sua facciata social, atomizza e isola l’esperienza umana, determinando una fragilità subalterna. Un atomismo consumistico, che non è più quello delle vetrine dei passages, di cui parlava Benjamin ai primi del Novecento[3], ma molto più invasivo e, letteralmente, a portata di mano e di emozioni immediate.

Consumo, soprattutto, di informazioni, che sempre più tendono a sovrapporsi alla conoscenza, fino a sostituirla; con tutta la forza della facilità rispetto alla complessità. Quest’ultima, infatti, è fatta di sfumature, di articolazioni, di contraddizioni; mentre, nella sua facilità, l’informazione offre “un aggancio immediato” che, a differenza del pensiero, non dura e richiede, subito, nuove sensazioni. E, come l’informazione prende il posto della conoscenza, così una curiosità distratta prende il posto dell’attenzione; perdendo – cito ancora Benjamin – “lo sguardo lungo, lento, che sa indugiare”. Cioè il pensiero astratto e complesso, che è, però, la caratteristica essenziale di homo sapiens. In quella lentezza lunga, in quel diaframma tra istinto e azione, c’è tutta la civiltà umana (etica e diritto, ma anche filosofia, poesia, arte, narrazione e, infine, democrazia).

Qualche giorno fa, una rubrica del TG magnificava le fiabe, istantanee e personalizzate, prodotte dall’intelligenza artificiale; così diceva: “senza alcuno sforzo”. Cioè, in sintesi, senza lo sforzo di pensare, immaginare e creare. Questo “mondo a portata di mano”, con i suoi effetti istantanei determinati dalla semplificazione, non è solo facile e frettoloso; è anche facilmente e frettolosamente consumabile. A questo modello di umanità consumante, alla sua magnificata semplicità, il pensiero complesso non serve; serve a chi detiene il potere di programmare (ma su questo torno più avanti). L’entusiasmo per la rapidità e la sottile insofferenza per un pensiero articolato, complesso – in ultima analisi, lento – ricorda molto da vicino il disprezzo futurista per la “chiacchiera”, in sostanza per la democrazia; anche a questo si riferiva Benjamin, parlando dell’“estetizzazione della politica”[4]. È, infine, un mondo omologabile e, soprattutto, quantificato. Che si tratti di merci materiali, o di informazioni consumate compulsivamente, in forma di merce, cambia poco. Di fatto la storia scompare, tende a evaporare il nesso cosciente e collettivo che trasforma gli oggetti, i fatti o le notizie in storia; non a caso, Byung Chul Han parla di crisi della narrazione. In cosa consiste, infatti, l’operazione straordinaria di Marx, nel primo libro de Il Capitale? Nel trasformare quella “immane raccolta di merci” (in cui il mondo ci si presenta), in analisi critica della merce; cioè nella storia delle relazioni sociali che l’hanno prodotta [5]. 

È nella storicità che si manifesta il pensiero critico, cioè il pensiero complesso, capace di nessi, sfumature, contraddizioni; non certo nella bolla ipertrofica di un eterno presente. La complessità esiste nel tempo e ha bisogno di tempo. È la differenza profonda tra informazione e sapere, che noi insegnanti conosciamo, o dovremmo conoscere, bene, ma è anche quella tra conoscenza e assimilazione.

Siamo, dunque, alla morte della complessità? No. Piuttosto, direi, la tendenza è a restringere l’accesso ad essa. Mentre il mondo si fa più complesso, si tira alle masse l’osso di una semplificazione facile da consumare e del tutto irrilevante ai fini della gestione del potere, che è, appunto, gestione della complessità. Che viene riservata, sempre più, ad una élite. È questo il gigantesco problema democratico che abbiamo davanti; che non riguarda solo i contenuti che vengono veicolati, a valle, ma, a monte, l’accesso al sapere reale, non meramente esecutivo e superficiale. E questo – già alle origini del digitale, molto prima, dunque, della diffusione dell’intelligenza artificiale, ma ancor più col suo impatto di massa – investe la formazione. La distanza tra formare un’umanità esecutiva o un’umanità pensante è, prevalentemente, nel dominio democratico della complessità. In questo senso, fuori dalla banalità, pseudo dialettica, dell’utilizzo del medium, l’attenzione, a mio avviso, va spostata sulla relazione inedita tra medium e strutture cognitive; cioè sul modello di sapere, funzionale a un modello, più o meno selettivo, di società; a un modello, più o meno subalterno, di umanità. È questa, così mi sembra, la forma storicamente determinata che assume la battaglia per il sapere come strumento di liberazione.

Non viviamo un tempo normale (ammesso che ne esistano), perché le spinte verso un’involuzione autoritaria delle democrazie è forte e globale, e la banalizzazione del sapere è un loro alleato fedele.
Contrapporle la chiarezza cosciente della complessità è il compito difficile di quella “ballata popolare”, la scuola profondamente e rigorosamente democratica così definita da Giancarlo Cerini, giustamente evocata nella discussione di Roma.

 

Note

[1] Tutte le registrazioni delle sessioni del coordinamento si possono riascoltare sul sito del C.I.D.I.

[2] Byung-Chul-Han, "La crisi della narrazione", Torino 2024. Questo filosofo non poteva lasciarmi indifferente; non solo perché affronta il tema da cui prese l’avvio il mio scambio di lettere con Beppe Bagni (poi raccolto nel volume: G. Bagni e G. Buondonno, Suonare in caso di tristezza, Savona 2021), ma anche perché, nato in Corea del Sud (uno dei polmoni tecnologici dell’Estremo Oriente), insegna a Francoforte (uno dei polmoni del marxismo novecentesco). Una sintesi assai interessante. Dell’autore coreano voglio ricordare anche: Le non-cose (Torino 2022) e Infocrazia (Torino 2023).

[3]  W. Benjamin,  "I "passages" di Parigi", (ed. it.)Einaudi, 2002. I passages sono dettagli eterogenei con cui l'autore descrive la realtà di Parigi, da lui considerata il centro ideale del mondo.

[4] Mi riferisco alla Postilla sui Futuristi, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Torino 1966).

[5]  K. Marx, Il Capitale, Libro I (Roma 1970). Non sembri irriverente verso Marx, ma a quella, iniziale e folgorante, pagina de Il Capitale, mi ha fatto tornare, qualche anno fa, un docufilm di Christian Elia (su racconto di Cecilia Strada), prodotto per Emergency, che si intitola Storia di una pallottola. Un lavoro che mi permetto di suggerire, non solo per la critica della guerra, ma anche, appunto, per quella della merce che, in buona parte, è la stessa cosa.

Scrive...

Giuseppe Buondonno Insegnante di Lettere al Liceo Artistico di Fermo; è responsabile Scuola e Università di Sinistra Italiana.

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