Le Nuove Indicazioni per il primo Ciclo di Istruzione hanno avuto il grande merito di alzare notevolmente il livello del dibattito sul sapere scolastico, giacché moltissime voci esperte, società scientifiche, associazioni, si sono pronunciate, con grande ricchezza di esperienza didattico-pedagogica e riflessione scientifica, sui contenuti e sulle finalità delle discipline da insegnare a scuola. La voce è stata unanime nel senso di una profonda critica e di quasi unanime conclusione di “irricevibilità”.
Sul documento, inoltre, anche il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione si è espresso in toni critici e, ultimo ma non ultimo, è arrivato il pronunciamento del Consiglio di Stato, che dichiara di non poter neanche esprimere un parere, ma richiede una revisione formale e sostanziale del testo.
Il ministro, e, soprattutto, la coordinatrice della commissione che ha redatto le nuove Indicazioni, si prodiga senza risparmio, nelle occasioni pubbliche a cui partecipa in virtù della sua carica accademica e politica, e sui social, a sostenere la bontà dell’operazione culturale del ministero. La narrazione che viene propalata è che il Ministro Valditara sia una persona di grande visione, cultura e potenza innovatrice, e che le critiche alle Indicazioni siano frutto di pregiudizio e faziosità. Chi critica questo ministro, le nuove Indicazioni, tutte le sue decisioni, così si dice, ha una posizione ideologicamente connotata, è “di sinistra”, e rispetta unicamente questo posizionamento, senza voler guardare la bontà dell’operazione.
Vengono, perciò, salutate con favore le uscite giornalistiche di intellettuali considerati, appunto, “di sinistra”: Massimo Recalcati, Massimo Giannini… che esprimono consenso all’idea di scuola che questo governo propone, e che vengono elogiati per la loro onestà intellettuale.
Non diciamo nulla di sconvolgente, se sottolineiamo che, prima di parlare di scuola, bisognerebbe informarsi, come su qualunque argomento. Tuttavia, non cadremo nella trappola di dire: «Certo, quelli non entrano in una classe da decenni… che ne sanno?». Questo è un errore gravissimo: di scuola, dovrebbero parlare tutti, si dovrebbe parlare molto di più, bisognerebbe far circolare molta più informazione. Finora, effettivamente, se n’è parlato poco e male, e soprattutto in cronaca: si leggono prevalentemente notizie di aggressioni e violenze, a cadenze regolari si parla di esami di stato, e poco altro.
Molte persone e molte associazioni si sono occupate, in questi decenni, di scuola cercando di rinsaldare e sviluppare il motivo della sua esistenza, cioè quello di costruire una società composta da persone in grado di viverci portando un contributo liberamente orientato verso una dimensione personale, sociale e professionale che, insieme al contributo di tutte le altre individualità, componga un organismo civico sano.
Rispetto a questa finalità i cittadini e le cittadine italiane dovrebbero poter avere un’opinione: mi piace una scuola per questo scopo? Oppure vorrei una scuola che insegni a mio figlio a non “rompere”, a trovare un bel lavoro che gli faccia guadagnare tanti soldi e che sia sempre social-mente molto liked?
Ognuno dovrebbe capire che la scuola per la società è diversa dalla scuola “per me” e dovrebbe poter conoscere che cosa significa questo o quell’impianto, quali conseguenze porta.
Spesso usiamo la locuzione “scuola democratica”, per indicare l’istruzione che abbia come fine essenziale una società giusta e sviluppata, mentre l’”altra” scuola non ha un aggettivo preciso, perché se si usa “scuola autoritaria”, “scuola individualistica”, “scuola mercificata” in pochi direbbero : «Sì, mi piace!» Forse, sarà per questo che l’attuale indirizzo di politica scolastica si presenta pubblicamente usando termini come “innovazione”, ma anche “identità”… “stupore”, “buon senso”… ogni tanto scappa “umiliazione”, ma poi c’è Recalcati che distrae, usando un termine suadente: “limite”.
Ma che cosa significa “scuola democratica”? Nel linguaggio comune, spesso l’aggettivo democratico è sinonimo di "accondiscendente". Spesso si racconta la scuola democratica come quella che non insegna il sapere se non in forme semplificate, che, ingiustamente, non distingue chi sa di più da chi sa di meno, dove prevale una dimensione relazionale dei rapporti, a scapito di una culturale.
Si sa che gli stereotipi uccidono, e questi stereotipi hanno avvelenato la scuola democratica agli occhi dell’opinione di chi guarda dall’esterno, dando agio a chi ha usato strumentalmente il modello della scuola “non democratica” di dimostrare che è quest'ultima è quella che funziona. Attenzione: chi sostiene che la scuola “non democratica” è preferibile all’altra non porta evidenze a sostegno né della bontà della sua proposta, né del fallimento dell’altra.
Proviamo a spiegare.
La scuola democratica è un sistema in cui si realizza uno spostamento strutturale di priorità: dal “sapere” come quantità di informazioni da presentare come un valore astratto e trasmettere come un tesoro, si passa all’apprendere come diritto per ciascuna persona. Da una dimensione quantitativa e statica della conoscenza, si passa ad una concezione trasformativa e dinamica di essa.
La cultura così intesa non uniforma affatto chi apprende, distingue una persona da un’altra, ma lo fa per dare a ciascuna la possibilità di ritrovarsi e di esprimersi secondo linguaggi, stilemi, codici conosciuti attraverso i percorsi disciplinari.
Questa cultura, dentro la scuola, diventa sviluppo, ha una forza proattiva, non repressiva: è "interessante", nel senso che sostanzia la crescita della persona. Non è un sistema di regole da inculcare ma un linguaggio da imparare per comunicare se stess* e il mondo.
Realizzare questo spostamento non significa certo semplificare; cercare di includere tutt* e ciascun* in una storia di sviluppo culturale, piuttosto, vuol dire, anzitutto, conoscere la società che c’è fuori dalla scuola, per realizzare processi significativi per le persone che provengono da quel “fuori” e che devono essere in grado di immaginarne lo sviluppo migliorativo. È una postura professionale molto faticosa, che non lascia spazio all’abitudine, ma richiede studio, riflessione e spirito critico. Si tratta di non cedere alla ripetizione delle pratiche e dei contenuti, perché ciò che andava bene cinque anni fa non è più adatto a chi apprende adesso; richiede confronto costante tra chi negozia saperi diversi, perché la società è intrinsecamente complessa, e la complessità deve diventare, in classe, un metodo; implica uno sforzo incessante di riconoscimento e ricomposizione delle diversità in un insieme, la classe, che sia qualcosa di nuovo rispetto alla somma di individualità.
Questo modo di incarnare la professionalità docente non è morbido per chi lo pratica né rende morbido l’apprendere: implica, infatti, per entrambe le parti, la fatica della ricerca e della negoziazione, la consapevolezza dell’errore, l’intenso sforzo della progettualità. Un impegno costante e consapevole da parte dell’insegnante per realizzare “il pieno sviluppo della persona”.
Sono tantissim* insegnanti, in tutta Italia, che hanno sperimentato e sperimentano questo modo di lavorare; sono coloro che i genitori chiedono all’atto dell’iscrizione, che le classi aspettano al cambio dell’ora. Sono coloro a cui i/le dirigenti scolastic* lungimiranti conferiscono incarichi aggiuntivi strategici, riconoscendone il senso dell’istituzione, un profilo di competenza alto e una capacità di migliorare la scuola.
Tutto ciò accade perché il loro modo di lavorare funziona davvero, include e non seleziona, è ricco di cultura significativa. Il rigore si attua solo fuori dall’aula, per preparare materiali e strumenti con cui rendere effettivo il diritto all’apprendere, dargli corpo, il corpo di alunni e alunne che crescono nella relazione educativa giusta.
Quest* insegnanti rispettano pienamente non solo il dettato costituzionale, ma anche le leggi successive che definiscono la professionalità e la struttura stessa della scuola pubblica in Italia.
Immaginiamo quale grande sviluppo sociale, culturale, economico avrebbe conosciuto il nostro paese se questo modello di scuola, che adesso appare minoritario, fosse stato sostenuto dalla politica attraverso investimenti massicci per una formazione professionale continua e concentrata sulla ricerca didattica, non solo degli insegnanti ma anche dei dirigenti scolastici. O attraverso investimenti per la scuola a tempo pieno in tutti gli ordini e gradi di istruzione, in modo da aumentare la permanenza di alunni e alunne in un contesto culturalmente ricco e sano.
La scuola democratica sembra che non funzioni, oggi, semplicemente perché non le è mai stato dato spazio di esercizio e alimento per crescere; la sua forza, tuttavia, è talmente grande da dar vita alla professionalità efficace di moltissime donne e moltissimi uomini di scuola, che ne hanno coltivato le dimensioni essenziali, spesso in condizioni avverse, perché ne hanno constatato l’efficacia. Non certo perché erano militanti “sinistri”.
Le associazioni che, negli ultimi cinquant’anni, hanno teorizzato principi e strutture della scuola democratica, da molti mesi sono impegnate in uno sforzo nuovo: mettere insieme le differenze e far capire che l’impianto democratico del sistema di istruzione è l’unico legittimo ed è l’unica garanzia di qualità dell’istruzione stessa.
Non serve oggi e non è mai servita l’imposizione di regole, l’umiliazione (o il limite…) per far crescere un bambino e farlo diventare una persona realizzata, dal punto di vista personale e professionale; e la generazione di chi oggi ha cinquant’anni o anche sessanta o settanta lo sa benissimo, avendo vissuto nel mito del Posto Fisso, del Libero Mercato, dell’Occidente… di tutte quelle lettere maiuscole che oggi discriminano le persone, le tengono in guerra e devastano la natura. Lo sanno benissimo, secondo me, anche i giornalisti, gli psicanalisti, i/le docenti dell’università.
La scuola o è democratica, o non è.