Sommario
L’attenzione dei ministeri dell’Interno e della Difesa per la scuola e i giovani
Il rifiuto del militarismo tra gli insegnanti democratici e nella stampa pacifista
Il richiamo alla Costituzione e il ruolo delle Forze armate
Società civile e militari: i pregiudizi da superare
La politica europea e italiana di fronte ai temi della pace e della guerra
Decisioni che passano sulla testa dei cittadini e mettono a rischio la nostra democrazia
Introduzione
In questo intervento intendo affrontare il tema del rapporto tra scuola, militarismo e crescenti minacce autoritarie connesse al ritorno dei nazionalismi in Europa. Provo a ragionare di questi problemi, percepiti come particolarmente pericolosi tra coloro che si occupano di istruzione, facendo riferimento, da una parte, ai principi stabiliti dalla nostra Costituzione, non sempre presenti nella loro complessità e articolazione nella discussione, ma soprattutto, dall’altra, richiamando il contesto internazionale attuale e il dibattito politico in corso, non solo nazionale, con i gravi pericoli che il mondo sta correndo sul terreno della pace, della sicurezza e della difesa dell’ambiente.
Alcune di queste considerazioni intervengono su snodi particolarmente critici del dibattito pubblico presente, si tratta di questioni sensibili che toccano la coscienza, il giudizio, la posizione che ciascuno di noi occupa nella società. Non è mia intenzione provocare la suscettibilità dei lettori. Voglio invece invitare ad una riflessione su argomenti complessi e assai divisivi, in un momento in cui il confronto è particolarmente difficile e avviene spesso in un clima di intolleranza in cui si sono imposti anche comportamenti autoritari che si pongono al di fuori del contesto democratico, che invece dovrebbe garantire un confronto e una libertà di pensiero e di espressione a tutti i cittadini. Mai, dal dopoguerra in poi, come in questa fase storica, questi diritti sono stati così minacciati nel nostro Paese.
Il quotidiano Domani, pubblicava, il 22 dicembre 2024, a firma Valerio Cuccaroni, un articolo dal titolo “Poliziotti, protocolli e concorsi: la scuola militarizzata di Valditara”.
Secondo l’autore, il 21 novembre scorso, sarebbe stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Istruzione (e del Merito) e quello degli Interni - Dipartimento per la pubblica sicurezza, per «contribuire alla formazione dei giovani» con l’aiuto di polizia e forze dell’ordine. Tra le diverse iniziative, un bando per premiare il miglior tema sulla figura del «militare italiano nel passato e nel presente». Il protocollo d’intesa, della durata di tre anni, punta a «contribuire alla formazione dei giovani, promuovendo la cultura della legalità e del rispetto delle regole, perché diventino protagonisti responsabili della propria vita e cittadini consapevoli della società civile». Promotori dell’accordo i due ministri Giuseppe Valditara e Matteo Piantedosi.
Altre notizie che vanno nella stessa direzione si possono trovare sul sito del Ministero della Difesa. Nella sezione dedicata alla “Comunicazione”, sono presentate le attività promozionali dell’Esercito Italiano. Nella pagina, consultata il 15 gennaio 2025, sono indicati: “Tour promozionale invernale; 1000 Miglia; Conferenze nelle scuole e visite presso gli enti della F.A.; il Salone internazionale del libro di Torino; Job&Orienta Digital Edition 2020; Tour promozionale estivo”. In basso, quattro approfondimenti con iniziative tematiche relative alla prima guerra mondiale: L’Esercito vince (Vittorio Veneto 1918); L’Esercito rEsiste (dopo Caporetto); L’Esercito combatte (per i 100 anni dalle battaglie del 1916); L’Esercito marciava… (sulla città di Trieste).
Per le conferenze nelle scuole, per le quali esiste da tempo un accordo tra i due ministeri interessati, Difesa e Istruzione, sono previsti incontri tenuti da personale militare “debitamente specializzato/formato” per informare gli studenti “sulle opportunità professionali e sugli sbocchi di carriera previsti dai concorsi per Ufficiali, Sottufficiali e Graduati”. Inoltre, “sono organizzate visite di scolaresche presso gli enti militari, per far conoscere direttamente la vita di tutti i giorni dei reparti dell’Esercito”.
Queste iniziative, che non sono nuove, provocano oggi una forte preoccupazione nell’opinione pubblica, perché avvengono nel contesto di una discussione politica e mediatica in cui il tema della guerra si impone come una possibilità concreta.
A partire dall’invasione russa dell’Ucraina, nel dibattito pubblico sono tornati termini che prima sembravano scomparsi dal vocabolario quotidiano o che venivano utilizzati con un certo pudore e con molta prudenza, come “utilizzo dell’arsenale atomico”, “guerra su larga scala”, “escalation militare”, “guerra ibrida”, “guerra senza limiti”, ecc. La possibilità di raggiungere accordi tra Paesi in contrasto, di utilizzare lo strumento della diplomazia, delle istituzioni internazionali, degli accordi per la soluzione del conflitto, il ricorso a strumenti politici basati sulla trattativa e sulla mediazione, sono stati sempre più sostituiti dal ricorso alla forza, al confronto aperto, allo scontro militare. E se in passato il discorso poteva vertere sulla possibilità della guerra “giusta” o “a fini umanitari” o “per imporre la pace”, ora il ricorso alla forza militare perde ogni connotazione che ne giustifichi moralmente lo scopo.
L’atteggiamento di rifiuto, o almeno di perplessità, dei rapporti tra Difesa e Interni da una parte, Istruzione dall’altra, è abbastanza diffuso nel mondo della scuola, in particolare appare come un elemento distintivo della parte più democratica, progressista e di sinistra degli insegnanti e delle famiglie.
In un articolo del 30 marzo 2023, dal titolo “Cultura della difesa nelle scuole italiane” pubblicato sul sito della Confederazione Unitaria di Base (CUB), in occasione della nascita del Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa (oggi Ufficio per la tutela della cultura e della memoria della Difesa), si critica aspramente l’iniziativa. Secondo il comunicato della Difesa: “Tutelare la correttezza del dibattito pubblico promuovendo la verità dei fatti e consentendo ai cittadini di accedere a informazioni verificate, è una delle nuove frontiere della difesa della libertà”. Invece, per l’articolo, il Comitato celebrerebbe “battaglie combattute sotto la bandiera del nazifascismo presentandole come gesta eroiche (…) Nessuna contestualizzazione e soprattutto nessuna autocritica del ruolo che l’esercito italiano ebbe nel sostegno al colonialismo prima e al fascismo poi, fermo restando che molti militari dopo l’8 Settembre combatterono a fianco della Resistenza. (…) La scuola sta diventando il terreno privilegiato non solo della propaganda di guerra ma ambito dove rileggere la storia passata non senza parziali ricostruzioni e innumerevoli omissioni”. Nell’articolo si critica inoltre la possibilità di ospitare nelle caserme l’Alternanza Scuola Lavoro (oggi PCTO) e l’invito fatto dall’Ufficio Scolastico Provinciale di Pisa alle scuole della provincia a portare le classi alle iniziative per celebrare i cento anni dell’Aeronautica militare. Un giudizio complessivo chiude l’articolo: “Le conseguenze dal punto di vista didattico di una supina accettazione da parte delle istituzioni scolastiche di questa ‘colonizzazione’ sono evidenti. Partecipando a tali iniziative oppure ospitando le forze armate all’interno delle proprie strutture, le scuole abdicano al loro ruolo di luogo di formazione e di convivenza pacifica trasformandosi in un ibrido sempre più succube del Ministero della Difesa. Per questo salutiamo con entusiasmo e appoggiamo le iniziative del Movimento No Base che in questi mesi ha svolto nelle scuole attività approfondite di indagine su come la cultura militare stia impattando sulla formazione dei giovani di oggi. Di fronte all’invito pervenuto da parte della 46^ Brigata Aerea alle celebrazioni per il centenario dell’Aeronautica Militare e diffuso alle scuole dall’USP di Pisa, esprimiamo tutta la nostra indignazione e invitiamo le scuole e lo stesso USP a farsi invece promotore di laboratori di pace. Critichiamo inoltre il Comune di Pisa che per l’occasione ha assunto il ruolo di ‘autista’ offrendo il trasporto presso l’aeroporto militare a titolo gratuito per le scuole che ne facciano richiesta”.
Su questi temi, i Cobas Scuola Autoconvocati e CESP (Centro Studi per la scuola pubblica), hanno dato vita, nel 2023, all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, col compito di “monitorare e denunciare l’attività di militarizzazione nelle scuole e, in un secondo momento, anche delle università”. L’iniziativa è nata dopo alcuni convegni del CESP “finalizzati a denunciare il costante incremento delle spese militari e della circolazione di armi in una contesto internazionale nel quale la guerra nucleare più che mai si profila purtroppo come possibile nefasto orizzonte”. Sul suo sito si possono trovare molteplici esempi, aggiornati periodicamente, sui rapporti tra Istituti scolastici e Forze armate, sul ruolo dell’industria bellica italiana, sulle esperienze di lotta in Italia e all’Estero contro le guerre e la militarizzazione dei giovani. L’Osservatorio ha organizzato a Torino, il 7 febbraio 2025, un convegno su “Non è un mestiere come un altro. Soldati, guerra e militarizzazione della scuola e della società”.
Secondo i promotori: “Il Convegno è dedicato al personale della scuola, ma è aperto a chiunque desideri partecipare per riflettere sugli attuali scenari di guerra e sulla crescente militarizzazione degli spazi di istruzione, proprio mentre nelle scuole e nelle università i percorsi di educazione alla pace stentano ad affermarsi. Siamo al contrario convinte/i che la funzione educativa della scuola – secondo la nostra Costituzione che all’articolo 11 ‘ripudia la guerra’ – dovrebbe essere quella di educare alla convivenza civile, alla mediazione ed alla risoluzione pacifica degli inevitabili conflitti”. Tra gli interventi, particolarmente interessanti quelli di Giorgio Monasterolo, su “Guerra grande o pace vera. Come e perché il rischio di un conflitto mondiale generalizzato è entrato nel nostro orizzonte storico”, e di Charlie Barnao, su “Militarizzazione totale e costruzione dei nuovi guerrieri”. Barnao, in particolare, ha messo in evidenza che il tipo di addestramento a cui un soldato oggi è sottoposto, corrisponde, non soltanto metaforicamente, al percorso delle persone sotto tortura. L’obiettivo di questi corsi è di ricondizionarne i comportamenti e automatizzarli per rispondere alle sollecitazioni del combattimento. Vogliamo però pensare che questa particolare esperienza di formazione, sicuramente molto dura, abolisca il normale sentire dell’uomo e del cittadino, “disumanizzandolo”, trasformando il soldato in un automa anche quando non è operativo? Personalmente, anche in base alla mia esperienza personale, non lo credo.
In un articolo dell’11 gennaio 2025, l’Osservatorio, che appare oggi la principale fonte di informazione su questi argomenti, ha espresso un giudizio negativo anche sulla celebrazione del 7 gennaio, nota come "Festa del Tricolore", nata a partire dal 1996 per celebrare l’adozione ufficiale del Tricolore da parte della Repubblica Cispadana: essa servirebbe a ricostruire “un’identità nazionale e un sistema di valori che servirebbero a cementare non solo l’unità del Paese, ma anche una comunanza di vedute trasversali agli schieramenti politici”. Questa operazione avverrebbe, però, “in un paese che non ha mai fatto i conti col passato coloniale e fascista, passato che al contrario viene oggi spesso richiamato dagli attuali governanti senza alcuna revisione critica”.
Il ruolo assunto dalle nostre Forze armate nella costruzione degli orientamenti della pubblica opinione sarebbe confermato da quanto riportato nello stesso sito della Difesa: “Il 7 gennaio 1797 veniva scelto come vessillo della Repubblica Cispadana. Oggi il Tricolore, simbolo per eccellenza del nostro Paese, compie 228 anni. Tre colori – il verde, il bianco, il rosso – che rappresentano i valori dei quali donne e uomini delle Forze armate sono tra i più preziosi ambasciatori nel mondo”. Secondo l’Osservatorio: “La retorica militarista si avvale di queste giornate per celebrare le politiche estere e internazionali, gli interventi militari all’estero, i piani di intervento in Africa nascosti dietro a progetti di sostegno alle economie locali”.
Un recente articolo su Avvenire, 3 gennaio 2025, dal titolo “La denuncia. Armi, uniformi, combattimenti: la propaganda militare si fa a scuola”, conferma questa tendenza e riprende le informazioni raccolte dall’Osservatorio. A Brindisi un’intera scolaresca sarebbe entrata in caserma per una lezione di combattimento corpo a corpo. A Siracusa una Dirigente scolastica avrebbe sottoscritto una convenzione per far svolgere ai suoi studenti i PCTO presso l’Arsenale marittimo di Augusta. Una scuola di Messina avrebbe inserito nella brochure di presentazione dell’Istituto una foto con militari in assetto di guerra per promuovere un corso di orientamento con le forze dell’ordine. L’elenco potrebbe continuare. Intervistato dal giornalista, il responsabile dell’Osservatorio, Michele Lucivero, denuncia che in diverse occasioni, quando sono i militari o le forze dell’ordine gli interlocutori, i Dirigenti scolastici tendono ad aggirare il normale iter decisionale per l’approvazione di questi progetti, che dovrebbero passare dai consigli di classe e dai collegi docenti per l’approvazione. Lucivero conclude: “la cultura della guerra entra nella testa dei più giovani: diventa un metodo per legittimare e diffondere il consenso, tra le nuove generazioni, sulla presenza delle forze armate che intervengono in più contesti, sia all'estero nelle varie missioni internazionali, sia nei più disparati ambiti interni, compresi quelli non di stretta competenza militare”.
Un intervento di ampio respiro su questi argomenti, è rappresentato dall’articolo a firma Silvia Granziero, “L’ombra di esercito e polizia sulla scuola ha riflessi sempre più inquietanti”, tratto dalla rivista on line The Vision del 18 ottobre 2024. Nell’articolo, dopo avere criticato l’introduzione della riforma del 4+2 dell’istruzione tecnico-professionale e avere lamentato la mancanza di corsi di educazione sessuale e all’affettività obbligatori nelle scuole, l’autrice denuncia che “in compenso lasciamo che negli istituti scolastici entrino i militari con il loro immaginario bellico”. Il rapporto tra i due temi è presto esplicitato: secondo l’autrice, infatti, il lessico usato nel definire la “filiera tecnologico-professionale” apparterrebbe ad un campo semantico differente da quello dell’istruzione, ovvero “quello militare, con termini come addestramento: un’eco sinistra soprattutto in tempi in cui si evoca il ritorno alla leva obbligatoria”. L’articolo riprende poi la denuncia dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, secondo cui i percorsi di alternanza scuola-lavoro, le uscite didattiche e i progetti che coinvolgono le forze dell’ordine andrebbero tutti nel senso di incoraggiare il militarismo tra i giovani studenti. La formazione sarebbe così diventata terreno di conquista di un’ideologia bellicista e di controllo securitario. Infatti, le forze dell’ordine invitate nelle scuole tratterebbero fenomeni come il bullismo e l’abuso delle droghe secondo la lente del controllo, instillando paura e trascurando altri aspetti come la prevenzione, il piano psicologico e quello sociale.
Questa collaborazione avrebbe comunque una lunga storia, infatti l’articolo ricorda che da dieci anni l’Alberghiero "Giovanni Falcone" di Giarre (CT) ha sottoscritto un accordo coi militari della "US Navy" della stazione aeronavale di Sigonella; mentre una scuola dell’infanzia paritaria di Varese organizza visite presso la base militare di Solbiate Olona (VA) con i bambini che si vestono da militari e familiarizzano con strumenti di guerra. Ancora: tra le iniziative rivolte ai giovani, la Regione Piemonte ha organizzato nel settembre 2024 "Giovani Adulti Festival", con relazioni su “La guerra spiegata ai ragazzi”; “Il corpo della nazione”; “Il corpo sotto scorta”; “Il corpo degli eroi”. Tra i relatori: Renato Daretti, presidente dell’Associazione Nazionale Incursori dell’Esercito, Maurizio Belpietro, sostenitore dell’ex generale Vannacci; Gian Micalessin, proveniente dal Fronte della gioventù.
L’autrice condanna questa militarizzazione del mondo giovanile, cosa ancora più grave se riferita alla scuola, ovvero il luogo del laicismo e del contrasto delle ideologie (o almeno così dovrebbe essere): “E da sempre i regimi cercano di portare in classe i propri valori per manipolare le menti quando sono più plasmabili e crescere dei cittadini obbedienti, piuttosto che cittadini pensanti: questi, d’altronde, potrebbero essere scomodi. Non a caso durante il Ventennio a scuola si insegnavano anche istruzioni militari”.
Viene poi richiamato l’esempio americano, dove i militari, dopo gli attentati alle Torri Gemelle del 2001, si presentano nelle scuole col compito di invogliare il reclutamento, utilizzando, oltre che il richiamo di stipendi al di sopra della media, la possibilità di accelerare il processo di naturalizzazione americana. Anche Russia, Bielorussia e Ungheria presenterebbero esempi di questo interesse per la scuola e gli adolescenti da parte del mondo militare. In tutti questi casi vi sarebbe “l’obiettivo di sviluppare il patriottismo nei giovani, attratti dal senso di stabilità, comunità e appartenenza che la vita militare promette”.
In Italia questi fenomeni stanno avvenendo a piccoli passi, precisa sempre l’autrice, ma farebbero parte di un “più generale e in apparenza innocuo inquadramento gerarchico degli studenti, sottoposti ad un controllo maggiore – dall’introduzione del registro elettronico, con notifiche immediate alle famiglie, in poi – che finisce per deresponsabilizzarli”. “Il contrario di quello che la scuola dovrebbe fare, cioè crescere individui autonomi, consapevoli, capaci di pensare con la propria testa grazie al pensiero critico sviluppato con i libri, dibattiti e riflessioni, promotori della democrazia e dei valori portati avanti dalla Costituzione che ci vantiamo essere “la più bella del mondo”; a partire dall’art. 11, che ci ricorda che ‘l’Italia ripudia la guerra’. La presenza di militari e forze dell’ordine nelle scuole “sembra motivata dalla volontà di indottrinare i bambini presentando come valori positivi i valori della guerra, che, dietro la retorica della difesa della patria e della comunità, sono quelli della violenza. Obbedienza e passività sono più utili ai regimi”.
Credo che i rilievi proposti fin qui sul pericolo insito nella presenza dei militari e delle forze dell’ordine nell’istruzione dei giovani cittadini siano condivisi, almeno a pelle e come sentimento, dalla gran parte dei lettori. Soprattutto per gli insegnanti nati nei due decenni successivi alla fine della guerra è sempre prevalso il rifiuto della retorica patriottica e del militarismo, perché associati alla storia del Ventennio fascista.
Tuttavia, fermarsi a questo livello di ragionamento ci rende impotenti di fronte alle sfide che il contesto politico e culturale presente ci pongono. Per avere qualche strumento in più partiamo dalla nostra Costituzione, ma considerando tutti gli elementi di analisi necessari, non limitandoci alla sola visione parziale che anche nel nostro mondo siamo soliti utilizzare.
Dire che la nostra è una Costituzione nata dalla Resistenza e dalla sconfitta del nazi-fascismo è certamente vero, ma questa è solo una parte della riflessione per capire non tanto la struttura formale del testo costituzionale, quanto il ruolo che essa ha avuto nella storia repubblicana e lo scontro che attorno ad essa si è combattuto nel corso del secondo dopoguerra.
L’articolo della nostra Costituzione che più viene richiamato all’interno di una pedagogia democratica è sicuramente il terzo, con particolare enfasi per il secondo comma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Consideriamo questa formulazione un valore distintivo della nostra azione, oltre che della nostra Repubblica. Ma dobbiamo pensare alla Carta costituzionale come ad un testo unitario, che va assunto nella sua totalità, almeno se ci consideriamo come cittadini della Repubblica italiana e ne accettiamo i valori e le leggi, con i doveri e i diritti previsti, soprattutto quando siamo insegnanti. Non la possiamo utilizzare a pezzi, prendendo solo quello che ci piace e con cui siamo in sintonia, mettendo la sordina sugli argomenti che riteniamo lontani dal nostro modo di vedere e dalla nostra sensibilità. Le questioni attinenti alla guerra, alle forze armate, agli obblighi dei cittadini e dei pubblici funzionari sono trattate, anche se brevemente, ma con molta chiarezza, dal Testo costituzionale.
L’impianto della Carta costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio 1948 è, come si suole dire, sostanzialmente democratico-liberale, con una forte influenza sia della cultura socialista sia di quella cristiano-sociale, ovvero quelle più rappresentative all’interno dell’Assemblea costituente. Essa rientra tra le costituzioni democratico-sociali di cui fu capostipite quella della Repubblica tedesca approvata a Weimar nel 1919.
Tuttavia, per comprenderne il significato, si devono aver presenti i momenti della storia nazionale che ne determinano non solo la genesi, ma anche le modalità di attuazione all’interno di un preciso momento storico.
La crisi politica e sociale del primo dopoguerra si risolve con una decisa scelta di campo delle nostre classi dirigenti, compresa la Monarchia: incapaci di rispondere ai problemi aperti dalla conclusione della Grande guerra e dalle domande sociali che potentemente entrano in gioco con la vittoria, esse decidono di affidarsi al Fascismo e a Mussolini per riportare l’ordine nel Paese. La ripresa della politica coloniale a partire dal 1930 e l’ingresso in guerra nel 1940 come principale alleato della Germania nazista, segnano definitivamente il ruolo internazionale dell’Italia. L’8 settembre 1943, è bene non dimenticarlo, come invece normalmente viene fatto, non segna solo la sconfitta di Mussolini, del Fascismo e della Monarchia, ma la fine della sovranità italiana, perché occupata nel Centro-nord dai tedeschi e a Sud dagli eserciti delle Nazioni Unite.
L’armistizio sottoscritto a Malta il 29 settembre 1943, un testo lungo 44 articoli, dovrebbe essere letto in ogni classe ancora oggi, perché sia possibile comprendere il grado di soggezione in cui l’Italia si trovava dopo la resa incondizionata del 3 settembre 1943, quella che noi chiamiamo con pudore “armistizio”. Nonostante alcuni atti formali successivi che hanno ristabilito almeno sul piano internazionale il riconoscimento delle altre nazioni, ancora oggi il nostro Paese continua ad essere caratterizzato da una minorità nei confronti delle potenze vincitrici, USA e Gran Bretagna soprattutto, Francia secondariamente.
Si leggano, ad esempio, l’art. 20: “Le Nazioni Unite eserciteranno tutti i diritti di una Potenza occupante nei territori e nelle zone di cui all’art. 18” (quelle occupate direttamente) e l’art. 21 B: “le autorità italiane metteranno a disposizione, nel territorio italiano non occupato, tutte le facilitazioni per i trasporti richieste dalle Nazioni Unite (…) ed eseguiranno le istruzioni emanate dal Comandante in capo alleato relative all’uso e al controllo” di tutte le risorse del Paese indicate di seguito (…) “secondo quanto le Nazioni Unite potranno specificare (…)”.
Il Trattato di Pace di Parigi fra l’Italia e le potenze vincitrici firmato il 10 febbraio 1947 e promulgato con Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato il 28 novembre 1947 riconosceva all’Italia fascista la responsabilità della guerra di aggressione con le potenze alleate, ma le clausole finali erano meno punitive, ad esempio, rispetto alla Germania e al Giappone, per il ruolo avuto da forze definite “democratiche” nella caduta del Fascismo, per la resa incondizionata del settembre 1943, per la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943, tanto da far rientrare il nostro paese tra le nazioni “cobelligeranti” (attenzione, non alleata) nella guerra alla Germania. Il Trattato prevedeva la cessione di territori, sia nazionali che coloniali, restrizioni molto forti sul piano militare e la messa a disposizione delle potenze vincitrici del naviglio della Marina Militare, oltre la consegna dei criminali di guerra. Quest’ultima richiesta, per ragioni politiche e giuridiche assai complesse, non sarà invece soddisfatta, se non per pochissimi ed eccezionali casi.
Con la ratifica simultanea del Trattato da parte delle nazioni vincitrici (USA, URSS, Gran Bretagna e Francia) e dell’Italia, il cui organo legislativo (cioè l’Assemblea costituente) ne aveva infine approvato la sottoscrizione, il 15 settembre 1947 la guerra finiva formalmente. Il 14 dicembre 1947 veniva finalmente sciolto l’Allied Military Government (già A.M.G.O.T. = Governo militare alleato dei territori occupati), il vero decisore politico e istituzionale fino a quel momento. Sarà l’AMG a seguire da vicino la vita politica italiana tra il settembre 1943 e la fine del 1947, accompagnando con la sua presenza e il suo controllo i momenti decisivi del passaggio alla Repubblica, dall’ingresso dei partiti politici nel governo con Bonomi, nel giugno 1944, alle prime elezioni amministrative nel 1946, a quelle politiche e al Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, ai lavori dell’Assemblea costituente.
Le preoccupazioni di Stati Uniti e Gran Bretagna per i risultati elettorali italiani sono note, come molteplici sono state le modalità utilizzate per influenzare se non determinarne i risultati, pronti, anche per questioni di sicurezza interna e internazionale, ad intervenire direttamente, in caso di risultati non favorevoli (ovvero la vittoria delle sinistre). Del resto, quelle votazioni si svolsero avendo ben presenti gli eventi appena precedenti o coevi della guerra civile greca e le crescenti tensioni internazionali provocate dal confronto tra le potenze vincitrici.
Con l’avvio della guerra fredda, le limitazioni militari furono cancellate e l’Italia sarà ammessa nel 1949 nella NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico, e nel 1955 all’ONU. Questi fatti, tuttavia, se formalmente hanno riportato l’Italia nel consesso delle nazioni riconosciute internazionalmente, non hanno annullato la subordinazione alle potenze vincitrici del nostro Paese, a partire dalla presenza di basi militari americane e NATO all’interno dei confini nazionali. A titolo di esempio, si stima che oggi siano presenti sul territorio nazionale 90-100 testate nucleari, parte ad Aviano vicino a Pordenone, parte a Ghedi Torre (Brescia), sotto il controllo diretto USA. Inglesi e americani continuano a seguire e a influenzare da vicino la nostra vita politica ed economica, ancora oggi, a distanza di quasi ottant’anni dalla fine della guerra.
In questo contesto, è più facile comprendere il vero senso dell’art.11, di cui in genere si ricorda solo il primo comma, ma non il secondo. Art. 11 “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. L’adesione ad un trattato militare internazionale inserisce l’Italia in una rete di relazioni in cui il ruolo egemone spetta agli Anglo-americani, con una nostra posizione dipendente e subordinata.
Secondo l’Art. 80 della Costituzione, la ratifica di trattati internazionali spetta alle Camere. Fondamentale è anche l’Art. 52 “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. (…) L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Si noti l’uso dell’aggettivo “sacro”, è l’unica volta che il Testo costituzionale ricorre a questo termine, che nella nostra cultura ha sapore mazziniano, ma che ricorre anche nella retorica patriottica. È importante quanto affermato nell’ultimo comma: che lo spirito democratico della Repubblica debba informare le Forze armate. I militari, come tutti i cittadini, hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi, oltre che adempiere alle funzioni pubbliche con “disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” (Art. 54). Sottolineo le parole usate per indicare il comportamento richiesto per i pubblici dipendenti: come anche per i militari esse sono “disciplina e onore”. Sono due termini che ritroviamo nelle comunicazioni presenti sul sito del Ministero della Difesa e normalmente utilizzati in ambiente militare, ma trovano la loro radice non nella retorica militarista, ma nella nostra Costituzione.
Con l’art. 98, i militari, in quanto pubblici impiegati, sono “al servizio esclusivo della Nazione”. Per loro, come per magistrati, funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti diplomatici e consolari all’estero, la legge può limitare il diritto di adesione a partiti politici. Le ragioni appaiono ovvie, soprattutto per chi è autorizzato a ricorrere all’uso della forza per la propria azione e deve evitare di apparire di parte nella sua azione istituzionale. In questi casi, com’è noto, il decisore ultimo, sul piano operativo, è il Governo in carica.
I termini “Patria”, “Nazione”, “Disciplina”, “Onore”, appaiono nel testo costituzionale con naturalezza. Non credo che per questa ragione essa possa essere accusata di nazionalismo, di patriottismo retorico, di militarismo autoritario. È solo il contesto a definire il modo in cui interpretare il senso di queste parole.
Il tema della guerra è presente in più occasioni nel Testo costituzionale, anche dopo l’art. 11, in particolare per definire alcune procedure istituzionali. L’art. 60 stabilisce che la durata di ciascuna Camera possa essere prorogata solo per legge e soltanto in caso di guerra; con l’art. 78 “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”; con l’art. 87 il Presidente, oltre ad essere il Capo dello Stato e a rappresentare l’unità nazionale, “Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”.
Dopo avere chiarito in maniera netta che l’Italia ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali, la Carta definisce quindi le modalità con cui procedere in caso di guerra, in un mondo che non ha affatto cancellato la violenza e l’aggressione militare. Uno Stato, anche democratico, non può non prevedere uno strumento adatto alla difesa di fronte alle minacce armate provenienti dall’esterno. Possiamo non essere d’accordo per ragioni etiche o politiche, ma non negare la realtà conflittuale del mondo. Inoltre, i temi della pace e della guerra non possono essere discussi solo tra specialisti, ma devono vedere i cittadini tutti, quindi anche quelli in età scolastica, coinvolti nel confronto, senza pregiudizi.