In questa estate contrassegnata da eventi di portata storica, documentati da molteplici immagini inquietanti, il 15 Agosto ha rappresentato per me un particolare momento di riflessione. In quel giorno appariva su “la Repubblica” un contributo di Gustavo Zagrebelsky sul genocidio in atto a Gaza [1]; l’approccio utilizzato dall’illustre giurista, in quest’articolo, ha prodotto su di me un forte impatto emotivo, sicuramente maggiore rispetto ad altri resoconti e commenti già noti sulla tragedia in atto. L’articolo era intitolato “Il coraggio di liberare i morti dall’anonimato” e prendeva le mosse dall’iniziativa del cardinale Matteo Zuppi che il 15 Agosto, a Monte Sole di Marzabotto, ha letto in modo accorato i nomi di bambini e bambine vittime della guerra in Palestina.
Nell’incipit dell’articolo ci si chiedeva se quello del cardinal Zuppi dovesse essere considerato soltanto un gesto retorico e inutile. Sono giunta però alla stessa conclusione dell’articolista, ovvero che non fosse tale, che quel gesto avesse una sua specifica connotazione. L’intervento implicava cioè una fondamentale scelta etica, esprimeva un irrinunciabile principio di umanità e ad esso andava attribuito un potente significato.
La ricca argomentazione di Zagrebelsky mi ha permesso di allargare la prospettiva rispetto all’eccidio di Gaza, spingendomi a rimettere al centro il sentimento di dolore e pietà che tendiamo a neutralizzare o normalizzare, forse come reazione di autodifesa. Vorrei citare il seguente passo dell’articolo: “Consideriamo la differenza tra l’esecrazione solo numerica e l’immedesimazione anche nominativa nei misfatti che insanguinano la terra. La prima è anonima; un numero vale un altro; un bimbo ucciso equivale ad un altro tra le migliaia; sono interscambiabili nella conta e nelle statistiche, e precisamente se si trascura la loro identità, propria e irripetibile.” Zagrebelsky qui nota che, se è vero che all’esecrazione segue la riprovazione, essa ad un certo punto si ferma, e quando i numeri crescono subentra l’accettazione. È come se si trattasse di “un’unica vicenda inumana, naturale e impersonale.” La scelta di fare i nomi, invece, ci ricorda che si tratta della vita di quei bambini, a ciascuno dei quali va riferita un’esistenza irripetibile e una serie di relazioni sociali uniche nel loro genere. Il “fare i nomi” si pone così in netta opposizione alla riduzione dei morti a numeri contabilizzabili. Se la somma numerica raggruppa semplicemente le esistenze in un dato statistico, mettendo in evidenza la generica portata di un fatto, cosa ne è dell’umanità di queste persone? L’umanità, come ricorda Zagrebelsky, è irriducibile ad un dato, essendo invece la manifestazione della partecipazione attiva e passiva, della rete di relazioni che instauriamo con altri esseri umani.
n passaggio particolarmente toccante dell’articolo si sofferma su quello che significa commemorare. Far rivivere in noi qualcuno implica il riconoscimento del “vivere con”:
Vivere con” significa lasciare e ricevere segni, grandi o piccoli che siano, piccoli almeno come un nome che ci differenzia dagli altri, che ci renda degni d’essere considerati per quello che siamo nella nostra individualità.” [2]
Se è vero così che la filosofia politica ha definito il 900 come “l’età dei diritti” ora, di fronte alle tragedie correnti, dovremmo avere il coraggio di fare un passo indietro sul piano concettuale ed etico, per parlare del “primordiale diritto al segno o all’orma; il diritto ad un passaggio sulla terra che non sia nulla, un sospiro nemmeno udito o presto dimenticato.”
Ma se concordiamo con Zagrebelsky nell’affermare che ogni singolo assassinio di un’innocente è un male assoluto, completo, totale, ne consegue la necessità di affrontare a scuola, con i mezzi che si ritengono opportuni, la tragedia che si sta vivendo in Palestina e in Terrasanta. Piuttosto che adottare la postura di una falsa neutralità, non sarebbe opportuno, per i docenti, individuare alcuni degli aspetti che, in chiave didattica e formativa (con la necessaria prudenza) permettano di avvicinare gli studenti a questa immane tragedia, ancora in corso? Tale scelta dovrebbe essere suggerita da vari fattori. Data la pervasività dei vari media nel fornire una comunicazione superficiale e spesso manipolata sui fatti recenti, il compito che spetta agli adulti è quello di abituare le nuove generazioni a distinguere la realtà virtuale da quella fattuale. Quali esperienze possono essere ricondotte ad un ambiente naturale o artificiale, essendo passibili di essere umanizzate, di risultare fondative di una relazione stabile tra l’Io e l’Altro da sé? Nei nostri figli e nipoti avviene facilmente la percezione di quanto possano avere in comune con i loro coetanei che vedono piangere tra le macerie o alla ricerca del cibo, nello scenario di Gaza? Forse dovremmo aiutarli di più ad acquisire tale consapevolezza? Sono domande cui è e difficile rispondere, ma credo che esse vadano almeno poste, da parte di quei docenti che aspirano a rendere possibile un approccio critico alla storia presente e, più in generale, a gettare i semi della cittadinanza attiva nei loro studenti e nelle loro studentesse.
[1] Gustavo Zagrebelsky, Il coraggio di liberare i morti dall’anonimato, la Repubblica, 15 Agosto 2025, pag.13
[2]Gustavo Zagrebelsky, nell’articolo citato, con riferimento al nome proprio come diritto identitario ricorda il Codice civile e l’art. 22 della Costituzione; egli giudica queste norme tra le più misconosciute e violate.