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19/07/2024

La didattica che non funziona (secondo Invalsi)

di Pietro Levato

Finalmente possiamo dare un contenuto tangibile al fatidico termine introdotto dall’attuale ministro per ribattezzare l’ormai ex MIUR. Ebbene sì, è merito di Valditara, e delle misure varate nei primi due anni di governo, se quest’anno sono stati raggiunti, a suo dire, “importanti miglioramenti”[1] nelle prove Invalsi. D’altronde il ministro non è nuovo a queste entusiastiche esternazioni: a quanto pare, sempre per merito del suo dicastero, i docenti italiani hanno ricevuto un sensibile aumento stipendiale, tale da scalare la classifica europea nel giro di un anno [2]. Ormai abituati alla narrazione sapientemente avventata del ministro, ciò che preoccupa in questa ennesima ondata estiva di dichiarazioni, interpretazioni e soluzioni prêt-â-porter che seguono il ritualistico rapporto Invalsi, è l’affermazione tanto calcolata quanto pericolosa del presidente dell’omonimo istituto, Roberto Ricci. Il quale sentenzia, come un profeta dispensatore di verità indiscusse e indiscutibili, che la didattica della scuola italiana non funziona [3]. Come fa a dirlo? Semplice: gli ultimi dati Invalsi non solo replicano nella sostanza quelli degli ultimi anni, ma denunciano un certo peggioramento nel sempre benemerito Nord. Non lasciamoci ingannare dall’apparente contraddizione delle dichiarazioni dei due rappresentanti ufficiali in questa girandola di baldanzosi interventi. Se Valditara sfrutta quel poco di miglioramento (e se fosse casuale?) che è possibile intravedere in questi ultimi dati, come il decremento di un punto percentuale sulla dispersione implicita, lo fa per persuadere i suoi detrattori della giustezza della strada che ha imboccato; Ricci, dal canto suo, usa quel tanto di peggioramento (e se fosse altrettanto casuale?) che è possibile ricavare da una situazione sostanzialmente in stallo, per perseguire l’ormai evidente scopo ultimo della fabbrica Invalsi: il disciplinamento del corpo docente e degli studenti. Ci sono parecchie spie, a partire proprio dall’uso al singolare della parola “didattica”. Verrebbe da chiedersi in effetti a quale didattica qui si faccia riferimento, ma non conta, l’importante è dare in pasto all’opinione pubblica una categoria dai tratti sfuggenti per cui ciascuno, pensando ai propri insegnanti di qualche primavera fa, o a quelli attuali del figlio o della figlia, o di un qualunque giovane parente, si faccia una sua idea, magari del tutto fantasmagorica. Del resto non è forse in questo modo che nel tempo si sono imposte, è il caso di dirlo, le prove Invalsi? È bastato adoperare i termini “oggettivo”, “dati”, “competenze di base”, “livelli”, “cultura della valutazione”, per farci credere che sia stato scovato l’unico sistema di valutazione possibile, persino a prova di infallibilità. Poco conta che l’oggettività dello strumento e dei dati ricavabili dalla sua applicazione non determini affatto la neutralità delle interpretazioni che se ne possono dare, ma che al contrario dipendono dall’orientamento di chi li legge; come del resto hanno dimostrato involontariamente gli stessi Valditara e Ricci con le loro letture contrapposte. Eppure, ancora una volta, assistiamo all’affermazione del “punto di vista senza collocazione” [4] con cui l’opinione pubblica è tratta in inganno, grazie anche all’uso dei numeri e delle percentuali sciorinate sui giornali come una mitragliata che non lascia scampo. In realtà dietro questi test cosiddetti oggettivi [5], portati a sistema, si celano scelte strategiche guidate da scopi precisi, che poco o nulla hanno a che fare con l’apprendimento, ma hanno molto più a che vedere con una certa visione del mondo (utilitaristica, individualistica, meritocratica) verso cui la scuola deve porsi al servizio. Ci hanno fatto credere, per esempio, che scopo degli Invalsi sarebbe stato quello di valutare il sistema scuola, per risolverne carenze e disuguaglianze a favore soprattutto dei più deboli [6], quando in realtà è ormai chiaro che sono adoperate per valutare le singole scuole, i singoli docenti e i singoli studenti. A cui addossare tutte le responsabilità degli eventuali fallimenti educativi, e per questa via arrivare in modo surrettizio a non chiamare più in causa, e quindi a non modificare, le iniquità strutturali dell’ordinamento economico e sociale in cui si opera e si tenta di progettare il proprio destino. Istruzione e merito, il binomio è servito! C’è scritto nero su bianco, basta rispolverare le direttive ministeriali del 2008, varato dall’allora ministra Gelmini [7], in cui si legge a chiare lettere che l’Istituto Invalsi è chiamato a una ricognizione delle metodiche per la valutazione degli insegnanti a fini premiali di carriera e retribuzione; direttiva supportata anche da un opuscolo OCSE, tradotto in italiano dall’Invalsi stesso nel 2012, in cui si auspica che la retribuzione basata sulla prestazione possa divenire un’opzione politica praticabile[8]. Insomma, il trionfo dell’individualismo, con tutto ciò che ne consegue, soprattutto in termini di competizione e di distribuzione anticipata di meriti e colpe; in barba alle specificità dei contesti di origine, alle relazioni umane intessute, alle occasioni afferrate e a quelle perse, alle occasioni mai avute. E così molte scuole secondarie di secondo grado, ormai già da qualche anno, si sono attrezzate per promuoversi anche facendo leva, quando ovviamente va a loro giovamento, sui risultati Invalsi conseguiti e la posizione accaparrata nell’ultima classifica di Eduscopio[9]. E non va forse in questa direzione l’ultima abile trovata del ministro, di inserire cioè i risultati Invalsi nel curriculum d’uscita dello studente? Con lo stesso ministro, che a quanto pare considera ormai maturi i tempi per velocizzare il più possibile il processo in atto, siamo arrivati anche al punto di legittimare l’uso dei risultati Invalsi per minare l’autorevolezza di una singola scuola, come il caso recente di Pioltello ha lasciato prefigurare. In occasione dello scontro a ferro e fuoco con il dirigente della scuola che aveva osato chiudere il giorno di festa della fine del Ramadan, Valditara ci ha tenuto a evidenziare come i risultati Invalsi raggiunti dall’istituto fossero sotto la media della regione lombarda. Come non vedervi il potente messaggio sibillino che a questo collegio e a questo dirigente non è possibile dare più di tanto credito, per cui appare giustificata la necessità di un intervento dall’esterno? Ciò che dovrebbe stupire di più in questa storia è tuttavia la reazione del dirigente stesso, emblema di ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi e che ancora purtroppo non riusciamo a mettere davvero a fuoco. In risposta al suo suadente interlocutore, il dirigente in questione ci ha tenuto a evidenziare a sua volta che se in realtà si mettono a confronto i risultati della sua scuola con quelli delle scuole appartenenti alla stessa categoria, vale a dire con un ESCS basso [10], salta fuori che sono persino superiori. Il dirigente di Pioltello ci è cascato, ha adoperato le stesse parole degli Invalsi, lo stesso sguardo, pensando forse in questo modo di spuntarla sull’avversario. Ma ciò che va spuntata è piuttosto l’arma Invalsi che, come in ogni condizione di oggettivazione, crea la cosa per mezzo della parola. La prima mossa dell’oggettivazione, infatti, è proprio la creazione di categorie con la relativa tassonomia, in modo da appiattire la realtà in un’unica dimensione e cancellare così in un colpo solo ciò di cui la realtà si nutre e si sostanzia, ovvero della sua irriducibile molteplicità, accompagnata dalla variazione persistente dei punti di osservazione - sempre collocati - attraverso cui è possibile esaminarla, e renderla esistente. Che cosa può mai c’entrare quindi la scuola di Pioltello con, mettiamo, una scuola dei Quartieri Spagnoli? Cambiano gli studenti, cambiano le famiglie, cambiano i docenti e i dirigenti, cambia insomma l’intero paesaggio urbano e umano! Ma basta costruire un’equivalenza a priori, selezionando alcuni dati e oscurandone altri, per essere portati a credere che di realtà ne esista soltanto una, predeterminata e incontrovertibile. Come appunto la didattica. Poiché soltanto la didattica che risponde alle attese degli Invalsi funziona [11]; tutte le altre, per quanto eterogenee nei metodi e guidate da culture pedagogiche diverse, ma non certo dal mantra Invalsi, possono ridursi a un’unica categoria unidimensionale: la didattica che non funziona.

In fondo ci stiamo cascando tutti. Tutti stiamo normando il nostro sguardo, tutti stiamo prestando il fianco alla società disciplinare. Spacciata per la “società della conoscenza"[12].

 

Note

[1] Comunicato su www.miur.gov.it, 11 luglio 2024.

[2] Basta leggere il contributo riportato sul sito www.m.flcgil.it dal titolo Stipendi dei prof: Valditara gioca coi i numeri, per capire come stanno davvero le cose.

 [3] Alex Corlazzoli, Invalsi 2024: nessun segno di miglioramento dal Covid e per la prima volta peggiora anche il Nord. “La didattica non funziona”, Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2024.

[4] Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, elèuthera, 2018. Testo di cui mi sono avvalso per l’intera critica al sistema Invalsi.

[5] È importante non confondere i test oggettivi portati a sistema con quelli comunemente adoperati nella prassi didattica, che sono o dovrebbero essere controllati e strutturati dai singoli docenti per scopi che non siano altri che favorire e migliorare i processi di apprendimento, nella peculiarità irrinunciabile della situazione.

[6] Sulla questione rimando all’importante contributo di Cristiano Corsini, La valutazione che educa, FrancoAngeli, 2023.

[7] Direttive annuale e triennale rivolte all’Istituto Nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, Miur, 2008.

[8] OCSE, Pisa in focus, n.16, maggio 2012 (i numeri della rivista sono consultabili sul sito Invalsi).

[9] Consultare i parametri di Eduscopio, con le relative motivazioni, è un’incredibile immersione in apnea nel mondo efficientista di oggi.

[10] Sul sito invalsiopen.it si legge: “lindicatore ESCS – l’Economic, Social and Cultural Status – definisce lo status sociale, economico e culturale delle famiglie degli studenti che partecipano alle Prove INVALSI e ad altre ricerche internazionali”.

 [11] Cfr. il fascicolo “A prova di INValSI (tredici anni dopo)”, in cui sono presenti molti altri contributi che forniscono un quadro davvero esaustivo sulla questione.

[12] Sul sito treccani.it si può leggere che la società della conoscenza è la “società nella quale il ruolo della conoscenza assume, dal punto di vista economico, sociale e politico, una centralità fondamentale nei processi di vita, e che fonda quindi la propria crescita e competitività sul sapere, la ricerca e l’innovazione. La locuzione ha assunto importanza in occasione del Consiglio europeo svoltosi a Lisbona nel marzo 2000”.

Parole chiave: indagini nazionali, Invalsi

Scrive...

Pietro Levato Docente di Italiano della scuola secondaria di primo grado; membro del direttivo del CIDI di Pisa, collabora con il CIDI di Firenze; componente della redazione di Insegnare.

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