Il femminicidio di Giulia Cecchettin da parte del suo coetaneo ed ex fidanzato – contesto sociale e culturale né degradato né “alieno” - sembra, nella percezione collettiva, un punto di non ritorno: il fatto che non ci permette di distogliere più lo sguardo. Per quanto, nella sostanza, niente sia diverso perché la violenza sulle donne è universale, trasversale e prescinde dal livello di istruzione, dallo status, dalla cultura di provenienza dei singoli individui e continua ad essere perpetrata, la giovinezza dell'assassino porta con sé la domanda: che uomini stiamo educando?
Come ci ha ricordato recentemente Ida Dominijanni, per la prima volta abbiamo assistito ad un'immediata, immensa reazione politica, di fronte ad un lutto non più solo privato, cui hanno partecipato subito le studentesse e gli studenti di Padova e poi, nelle manifestazioni, in tutta Italia; per la prima volta è sembrato che gli uomini si rendano conto del loro problema. Per la prima volta, forse, i maschi, si stanno interrogando sulla violenza che li abita senza l'esorcismo di considerarlo un fatto che non li riguarda (e che quindi possono ignorare). È un barlume di consapevolezza di come nella trappola del patriarcato siano invischiati gli uomini non meno che le donne, benché con una lampante asimmetria di potere che permane vistosamente anche nelle democrazie avanzate, nelle quali l'emancipazione femminile va di pari passo con la misoginia e l'aggressività maschile (consultare, ad averne il coraggio, i social e certi quotidiani). Le donne da noi non sono uccise perché non hanno diritti, ma perché esercitano la libertà di scegliere per la loro vita e nelle relazioni, e la violenza, che ha il suo culmine nei femminicidi, è disseminata nel linguaggio e nei modelli di trasmissione culturale, con la radicale loro assenza come soggetti: dalla storia, dal pensiero, dalle scienze, dalle arti. Da nessuno dei soggetti istituzionali, e neppure compiutamente dalla scuola, è mai venuta davvero una riflessione che colga la violenza contro le donne come sistemica, perché tocca ogni aspetto materiale e simbolico della società ed epistemica, perché le cancella come soggetti del sapere. Così come ignora tutti i saperi, disciplinari, pedagogici, metalinguistici, relazionali, prodotti dentro l'unica rivoluzione non cruenta che la storia ricordi, quella femminista. Sarebbe come, per fare un esempio, ignorare la Rivoluzione Francese nel prendere in esame le forme della nostra democrazia.
"Patriarcato" è una parola risignificata dal femminismo, che l'ha sottratta alla polvere dell'archeologia, per indicare un assetto generale del rapporto tra i generi, trasversale a diverse culture, compresa la nostra – europea occidentale - che vanta l'invenzione dei diritti universali. Designa la disparità nel rapporto di potere entro cui si costruisce il sapere, si sviluppa l'economia, si stratifica la cultura materiale, si elabora l'immaginario.
Dalle reazioni che questa parola ha provocato nella stampa conservatrice, fra i politici, sui social, sentiamo che tocca un nervo scoperto. Stiamo infatti nominando qualcosa che invece si vorrebbe tacere, e non è solo la disparità sociale ed economica delle donne (omettiamo l'enorme messe di dati in proposito, compreso il famigerato tetto di cristallo), ma è anche e soprattutto la loro obliterazione culturale dovuta alle categorie epistemiche con cui si definisce il mondo: le donne, cancellate nella dicotomia cultura/natura; produzione/riproduzione; astratto/concreto; universale/contingente; politico/privato. Nella rappresentazione ancora dominante, seppure sempre meno nella realtà, occupano il secondo polo della dicotomia; sono ancora strutturalmente assenti dalla storia, dalla letteratura, dalle scienze, dal pensiero nel senso che né il loro punto di vista né il loro apporto ha scalfito i “canoni”, il linguaggio, le epistemologie dominanti nella cultura.
E non si può negare che specialmente la scuola, di cui, come insegnanti, nelle associazioni come il CIDI, abbiamo promosso e attraversato cambiamenti straordinari, nella direzione della democrazia della conoscenza, dell'inclusione di tutti i soggetti, della piena realizzazione del dettato costituzionale, sia stata nei fatti tra le istituzioni più refrattarie a fare i conti con la portata politica ed epistemica (ridefinizione radicale delle conoscenze) della differenza sessuale e di genere, con le soggettività dei corpi situati dentro le forme culturali e materiali.
La vocazione universalistica della rivoluzione illuminista ha pure avuto come conseguenza l'astrattezza dei soggetti che apprendono come dei soggetti che insegnano.
Nonostante l'interrogazione critica portata avanti dalle lotte e dalla ricerca della scuola, fin dagli anni Settanta, nonostante i cambiamenti dettati dalla necessità di un ascolto diverso, praticati dalle e dagli insegnanti, quasi per causa di forza maggiore, la linea di riferimento, la struttura portante non è stata intaccata e spesso ha reso impotenti di fronte al pluriverso di domande, bisogni, significati portati da alunne e alunni, studentesse e studenti sempre più differenti.
Se aggiungiamo il deterioramento della formazione dovuta alle ultime riforme, improntata alla -presunta- funzionalità al mondo del lavoro e lo smantellamento dell'idea di istruzione pubblica e di scuola come diritto costituzionale, sostituita dall'aziendalismo e dall'offerta formativa privatistica, possiamo renderci conto di quali rischi la scuola, e i soggetti in formazione, come del resto chi insegna, corrono.
L' assenza di saperi, metodi, posture epistemologiche capaci di spingere il pensiero critico oltre le forme canonizzate dalla scuola stessa, rese iconiche dal modello dello studente riflessivo del liceo classico, non è più giustificabile perché comporta una vera inadeguatezza dell'istituzione preposta alla formazione.
E poi, quanto, come donne che insegnano, abbiamo riflettuto, ci siamo ribellate al fatto che parlavamo di mondi da cui per secoli siamo state escluse? Quanto ci siamo interrogate su cosa abbia prodotto su di noi, su cosa produce nelle studentesse e negli studenti (come, in altro modo, nelle generazioni di origine non italiana) questa invisibilità, il non potersi sentire soggetto dei processi culturali, storici, sociali che si studiano, ristrette iconicamente nei riquadri di lettura facoltativa dei libri di testo?
Cosa pensa del suo posto nel mondo la candidata di un concorso a cattedre in lettere in cui, quando va bene, trova Elsa Morante o Natalia Ginzburg e niente per i secoli passati, se non qualche cameo?
E come si affina la sensibilità alle parole e alle immagini tossiche degli stereotipi della grammatica, neppure correttamente declinata, di chi insegna a bambine e bambini della scuola primaria? E cosa argomentiamo rispetto alla segregazione formativa nelle STEM e il gap di preparazione in matematica delle bambine e delle studentesse, nonostante un riconosciuto loro maggiore coinvolgimento nei processi di apprendimento?
E la scuola ha davvero fatto i conti con l'enorme portato di saperi, nella scienza, nella filosofia, nell'ecologia, nella pedagogia dovuto ai femminismi, alla rivoluzione incruenta e mai conclusa delle donne?
Può bastare una spolverata di femminile, di generiche pedagogie inclusive e relazionali in luogo del confronto con saperi, per niente liquidi, prodottisi in anni di femminismi, ignorati – cioè non pervenuti alla conoscenza critica di chi insegna?
Saperi e pensiero delle donne, benché non meno necessari alla costruzione del mondo, sono stati esclusi strutturalmente e sistematicamente dalla trasmissione e dalla rielaborazione critica della scuola, salvo il lavoro singolare di alcune e alcuni docenti. Dovremmo chiederci, invece, quale contributo potrebbe apportare alla formazione scolastica la politica e il pensiero femminista.
Dobbiamo chiederci chi ha ricostruito, raccontato, sistematizzato, e da quale prospettiva, il passato, le narrazioni, le rappresentazioni del mondo.
La violenza contro le donne sistemica ed epistemica è come un iceberg, affonda in una dimensione profonda degli individui e della società. La scuola deve essere capace di vedere la parte immersa: andare alla radice del linguaggio; lasciare la parola all'alterità; decostruire criticamente le mitografie contemporanee, leggere la complessità della tradizione. Niente va cancellato né, men che mai, riadattato, addomesticato, ma tutto va sottoposto al vaglio della domanda su chi ha e ha avuto il potere della parola: chi prende la parola, e per chi? Chi parla a nome di un altro/ di un'altra?
Se adottiamo la prospettiva del soggetto privato della parola (le donne), scopriamo un mondo infinito di sapere cancellato. Ma scopriremo anche le voci di popoli colonizzati, delle persone razzializzate: saremo costrette/i a rivedere le categorie con cui ancora separiamo le conoscenze in assetti disciplinari.
L'assenza delle donne dai libri di testo, dai canoni letterari, dalle bibliografie, dagli apparati della conoscenza è un fatto che inficia il senso del sapere stesso, non solo perché oblitera una parte significativa dei soggetti che lo hanno prodotto ma perché gerarchizza e svaluta, anche quando se ne appropria, saperi che ricadono fuori dal sistema astratto universale eurocentrico, androcentrico, antropocentrico.
La scuola e l'accademia hanno contribuito, loro malgrado, a trasmettere la cancellazione di metà dell'umanità, sotto forma di saperi universali e conoscenze disciplinari, con le loro grammatiche, il loro lessico, i loro campi di studio.
Per quanto possano essere cambiate storiografie, paradigmi della scienza, pratiche didattiche, questa differenza non è mai stata portata a tema, neppure da un luogo politico e di ricerca come il CIDI. Svalutazione, cancellazione sono forme e prodromi di violenza.
La scuola deve rendere possibile un pensiero che non sia unico, quella “doppia descrizione”, direbbe Bateson[1] (dove "doppia" sta per "plurale", "multiverso"), che apre a diverse ricostruzioni del mondo; parliamo di come portare alla luce la critica strutturale «all’androcentrismo capitalista, l’analisi sistemica della dominazione maschile e la rilettura di genere di democrazia e giustizia», per usare le parole di R. Braidotti[2].
È possibile dar vita ad un progetto così ambizioso sul piano epistemologico, pedagogico, didattico con i corsi più o meno facoltativi di educazione agli affetti?
Da alcuni anni nella scuola si procede per aggiunte successive di interventi che trasformano questioni lancinanti della società in contenuti da trattare in appositi, circoscritti spazi di approfondimento, con esperti del caso. Ma non si parla mai di formazione iniziale e continua degli insegnanti, che implichi per tutti una riflessione sul linguaggio e sui costrutti disciplinari, che includa anche il portato di cinquant'anni di pensiero femminista rispetto a differenza, genere, colonialismo, ecologia, scienza e tecnologia. La scuola e l'accademia ignorano il cambiamento più significativo e profondo della società contemporanea. Ciò che si apprende non aiuta a capire la vita, le relazioni, il presente. Né si tiene conto della richiesta, anche politicamente articolata, che viene dalle studentesse e dagli studenti, sulle questioni del genere, della crisi ecologica, dei saperi. Anche da parte loro viene un’interrogazione del mondo carica di conoscenze da passare al vaglio critico.
Torniamo alle storie situate, ai corpi – anche questi muti o pretesi muti – di alunne e alunni, studentesse e studenti, con i quali chi insegna si misura con dolore e passione quotidianamente, mentre il sistema continua a non vederli se non come “rumore”, disturbo.
In Insegnare il pensiero critico, ultimo testo della trilogia che comprende, Insegnare a Trasgredire e Insegnare comunità[3] bell hooks, pensatrice, insegnante, pedagoga, femminista afroamericana, porta esattamente a tema il come si è costituito il sapere che da insegnanti trasmettiamo, una riflessione epistemologica e metalinguistica che è radicalmente politica e pur contestualizzata nel conflitto culturale tra comunità bianca e minoranza afrodiscendente negli anni Novanta. Parla, straordinariamente, anche alla società italiana del XXI secolo, attraversata da movimenti, culture, soggetti -studentesse e studenti, infine – di ogni storia e provenienza.
Si può insegnare il pensiero critico mettendo al vaglio del dubbio gli stessi strumenti e contenuti di conoscenza che utilizziamo.
Nel suo excursus bell hooks ci ricorda che:
Questo promemoria, persino scontato nella sua semplicità, mette in gioco i soggetti e i saperi nella loro politicità, senza astrattezza, in una dimensione situata, mai neutra, di interrogazione critica e di ricerca, per prendere in carico il cambiamento necessario contro la violenza sulle donne.
D’altra parte, nella ricerca di una “doppia descrizione”, come plurale, parziale, in continua rielaborazione, mai definitiva, si mette a tema la forma intrinsecamente relazionale delle conoscenze, degli statuti disciplinari, delle rappresentazioni del mondo che si trasmettono o si elaborano nella scuola.
Relazione che richiede responsabilità verso le donne e gli uomini ( e non solo) che la scuola può contribuire a formare.
immagine a fianco: murale del quartiere Lunetta di Mantova. Foto di @M.Gloria Calì
[1] Gregory Bateson, Mary Catherine Bateson, Dove gli angeli esitano, trad. Giuseppe Longo, Adelphi, Milano 1989
[2] Rosi Braidotti, Il Postumano vo.III Femminismo, trad.Sofia Aurilio, Deriveapprodi, Bologna 2023
[3] bell hooks, Insegnare il pensiero critico, trad. Feminoska, Meltemi, Milano 2023