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29/04/2016

E' questione di metodo. Parte II

di Paola Conti

L'articolo propone una riflessione che, prendendo spunto da alcune circostanze legate alla scuola dell'infanzia, affronta in modo particolarmente efficace questioni nodali e in buona misura irrisolte in tutti gli ordini di scuola.
Particolarmente utile alla preparazione alla prova concorsuale, l'articolo, per la sua ampiezza, è stato pubblicato in due parti: qui la
Parte I [NdR].

Da soli o in gruppo

Un altro equivoco che va chiarito riguarda il rapporto tra risposta individuale e lavoro di gruppo. Parafrasando ciò che abbiamo detto prima a proposito dell’esperienza, potremmo aggiungere: “In principio c’è la risposta individuale”. Questa ha la funzione di far riflettere ciascun bambino sul contenuto proposto, mettendo in gioco le sue competenze e conoscenze; solo dopo possiamo riprendere gli elaborati individuali e, partendo da quelli, condividere le conoscenze e arrivare alla realizzazione del cartellone di codifica di gruppo come risultato del contributo di tutti. Questo perché partendo da una conversazione di gruppo, spesso parlano sempre gli stessi bambini, cioè quelli che sanno già le cose, o che hanno gli strumenti linguistici per poterle dire (specialmente a 3 - 4 anni questa abilità non può essere data per scontata in tutti). Gli altri, per timidezza, per difficoltà linguistiche, per mancanza di conoscenze in proposito, per emulazione di ciò che hanno detto gli altri, restano nell’ombra.
Chiedere di disegnare (ma anche di ricostruire plasticamente) da soli, e poi di verbalizzare, “costringe” tutti a dire qualcosa, a riflettere su quella cosa, e consente a noi di capire le reali condizioni di ciascuno. In questa fase, si accetta tutto: le omissioni, anche gli errori. Poi si socializza e il cartellone diventa davvero il risultato del lavoro di tutti: tutti ci si riconoscono perché c’è anche solo una cosa che hanno notato tutti. Se la questione è abbastanza chiara per tutti si può procedere. Altrimenti (se non è chiara per un gruppo consistente di bambini) bisogna tornare a lavorare proponendo materiali e strumenti diversi.
Questo è un passaggio fondamentale: noi chiediamo ai bambini quali sono le caratteristiche (perché il lavoro consiste proprio in questa scoperta, in questo “accorgersi” progressivo) e poi lavoriamo su quelle che loro hanno evidenziato. Non decidiamo “prima” cosa i bambini devono vedere perché l’importante non è ciò che si vede (le caratteristiche) ma la capacità di vedere. Se poi le caratteristiche individuate ci sembrano troppo “povere”, proponiamo attività che ne mettano in evidenza altre.

Lo schema è un po’ questo: osserviamo la terra. Manipolazione libera. Scheda “Com’è la terra”. Risposte dei bambini: marrone, grigia, fine, sassosa…  Approfondiamo queste caratteristiche. Per esempio, lavoriamo sul colore (marrone e grigio). Come si costruiscono questi colori? Oppure sulla consistenza: forniamo ai bambini colini di dimensioni diverse e vediamo cosa otteniamo. Costruiamo serie ordinate in base alla granulosità. Se nessuno ha evidenziato le caratteristiche chiaro/scuro, dobbiamo decidere se vogliamo lavorarci oppure no. E decidiamo a seconda dei bambini. Abbiamo tempo per approfondire (nel senso che vale la pena usare il tempo per approfondire questo aspetto o è necessario usarlo per altro)? Questo gruppo di bambini ha bisogno di lavorare su questo aspetto o anche no? Se decidiamo per il sì, proponiamo attività che facciano “scoprire” ai bambini la caratteristica che non avevano notato da soli. Per esempio diamo loro solo terre grigie (o marroni) di diversa intensità di colore. E chiediamo cosa hanno in comune e cosa hanno di diverso e poi proviamo a ricostruire le gradazioni (aggiungendo acqua o bianco). Perché non ci sono caratteristiche che “vanno sapute”.

Il lavoro consiste nell’educazione all’indagine e alla scoperta. Noi insegnanti, spesso applichiamo stereotipi mentali (colore, forma, dimensioni…) ad una ricerca che deve essere compiuta direttamente dai bambini anche a costo di trascurare alcune di queste cose. Perché ripeto, l’importante è che loro imparino ad osservare, cercando; che riescano a comprendere che la realtà che li circonda è organizzabile a seconda dei fini e degli scopi. Se voglio lavorare la terra per ottenere un vasetto, non mi importa molto del colore. Dovrò andare ad indagare altre caratteristiche, tipo come si comportano i vari tipi di terra mescolati con l’acqua. Se invece la voglio usare la terra per dipingere ciò che mi interessa è il colore e la consistenza… 

Il modo di procedere nei diversi percorsi (disciplinari)
A questo proposito si può rilevare una contraddizione nel modo di procedere dei diversi percorsi (lingua, matematica, scienze). In realtà la contraddizione è solo apparente. Il percorso di scienze e quello di lingua sono molto diversi (parlo di quello di lingua perché lo conosco meglio).
In quello di scienze si vanno ad indagare prima, e a sviluppare poi, competenze molto specifiche che hanno la loro base nelle capacità individuali. La capacità di osservare, di analizzare, di cogliere aspetti salienti, per esempio le caratteristiche in grado di definire un oggetto o un fenomeno, sono prettamente individuali.
Il lavoro di gruppo e la condivisione delle acquisizioni serve di rinforzo a ampliamento per i singoli. Ma ciò che si va delineando (e ciò per cui lavoriamo) è lo sviluppo personale delle competenze di cui parlavo prima. Non a caso di solito questi percorsi vengono proposti all’inizio dell’anno; proprio perché le competenze anche di atteggiamento (attenzione, concentrazione, costanza…) che questi percorsi riescono a sviluppare servono poi anche negli altri.
Il percorso di lingua ha caratteristiche diverse. Per la sua estrema complessità (ci sono in gioco abilità fonetiche, sintattiche, semantiche, di struttura testuale…) rappresenta una tappa nella costruzione di un curricolo verticale imprescindibile. Cerco di spiegarmi meglio: mentre i percorsi di scienze potrebbero avere senso anche isolatamente, quello di lingua - per vedere dispiegate le sue potenzialità - ha bisogno del proseguimento. Perché? Perché molte delle abilità che cerca di sviluppare, i singoli bambini le acquisiranno molto più tardi. La funzione del gruppo diventa fondamentale per fornire la base esperenziale su cui basare le proprie elaborazioni.
Mentre in scienze, questa base è tangibile (il pesce lo vedo, la castagna la tocco) e, quindi, tutti sono in grado di dire qualcosa, con la lingua no. E allora bisogna costruire una base di esperienza comune all’interno della quale poi ciascuno trovi le cose personali. I testi d’appoggio (ma anche la costruzione di un “ambiente”, la drammatizzazione delle diverse situazioni) hanno proprio questa funzione.
Ma quante volte i bambini si “limitano” a ripetere pari pari quello che hanno ascoltato dal testo o che è venuto fuori dal lavoro di gruppo! A volte, parola per parola. E va bene, ma testimonia della grande difficoltà e del bisogno dei bambini di avere un modello di riferimento, un ancoraggio referenziale. Parlare sul nulla (quello che noi chiamiamo immaginario, ma che non può essere dato per scontato e che va costruito a scuola) è molto difficile per i bambini di questa età. Anche quelli che parlano, raccontano le storie dei cartoni animati (a me è capitato con i nomi dei personaggi della storia) o dei film.

Naturalmente le proporzioni tra individuale e collettivo non possono essere stabilite a priori: dipende dai gruppi dei bambini e dai singoli. E torna in gioco la sensibilità e la sapienza professionale degli insegnanti. Ma pur con tutte le difficoltà e le fatiche, questo approccio va salvaguardato perché rappresenta il cuore e la sostanza del metodo di lavoro. Lo scambio con gli altri nella pratica sociale del discorso diventa strumento per imparare a pensare.
Così come nella fase del pasticciamento le mani tradiscono e indirizzano il vagare del pensiero che è alla ricerca di una strategia per agire, nella discussione nel piccolo gruppo, le parole, le frasi, svolgono la funzione di orientare i ragionamenti, di dare senso e significato alle azioni di cui si è fatto esperienza. Si tratta di un pasticciamento del pensiero che però lascia tracce di sé.

“Il metodo dell’intelligenza esige che si conservino tracce delle idee, delle attività, delle conseguenze osservate. Conservare tracce significa che la riflessione consideri e compendi operazioni che comprendono tanto il discernimento quanto il ricordo dei tratti significativi di un’esperienza. Riconsiderare significa riesaminare retrospettivamente quel che è stato fatto in modo da estrarre i significati netti, che sono il capitale di cui si vale l’intelligenza nelle esperienze future.” (J. Dewey, 1967) [1].

Dall’individuale al collettivo: quando, come, cosa?
Abbiamo già detto che il passaggio dalla produzione individuale a quella collettiva può avvenire “solo” quando la maggior parte dei bambini sa di cosa stiamo parlando, ha preso confidenza con l’ “oggetto”, è in grado di produrre individualmente una qualche rielaborazione (grafica,, verbale, plastica…). Finché le produzioni individuali non sono soddisfacenti (rispetto agli obiettivi di competenza per i quali sono state proposte) non ha senso procedere con l’elaborazione collettiva. D’altra parte anche questa fase del lavoro (quella collettiva) ha bisogno di condizioni organizzative per essere efficace.
Innanzi tutto va realizzata in piccolo gruppo. Se la sezione è eterogenea per età, il gruppo è quello dei bambini della stessa età; se la sezione è omogenea, i bambini vanno divisi in sottogruppi (considerati i numeri delle sezioni attuali, direi almeno tre) cui affidare la rielaborazione di caratteristiche diverse. Un’attenzione particolare va rivolta ai materiali proposti.
Nel passaggio dall’individuale al collettivo, ciò che interessa è favorire un progressivo processo di astrazione. Per i bambini di tre anni, l’uso della foto al posto dell’oggetto concreto è già un elemento importante in questo processo. Con i bambini di quattro anni possiamo usare materiali che spostino ulteriormente la mediazione tra l’oggetto e il simbolo (materiali di recupero, imitazione attraverso il corpo, disegni stilizzati…). Ai bambini di cinque anni si può chiedere la produzione di simboli grafici, ma solo a patto di aver fatto tutto il percorso negli anni precedenti. Altrimenti bisogna ripercorrere le tappe anche con loro. E nella produzione dei simboli e nella ricerca delle parole per definire le caratteristiche, l’uso del vocabolario risulta imprescindibile.
Si tratta di un uso educativo di questo strumento che non serve tanto per imparare parole nuove (che possono essere facilmente dimenticate), quanto piuttosto per appropriarsi di un metodo di conoscenza e convivenza. Il vocabolario infatti rappresenta un’autorità indipendente, cui far ricorso quando non ci troviamo d’accordo.

Una parola sull’errore
Nella vita quotidiana di tutti noi, l’errore costituisce il segno di una mancanza, rappresenta una sconfitta, qualcosa per cui subire conseguenze più o meno pesanti, ma mai piacevoli. La scuola invece è il posto dove si può sbagliare. Di più: è il luogo dove si può “usare” l’errore trasformandolo in uno strumento efficace di formazione.
I suoi utilizzi sono molteplici: innanzi tutto l’errore rappresenta il segnale che qualcosa non ha funzionato. Ma non necessariamente nei bambini. Per esempio, potrebbe essere la nostra proposta a risultare inadeguata: il contenuto scelto, i materiali usati, gli strumenti messi a disposizione, i tempi imposti, l’organizzazione del lavoro (gruppo piccolo o grande, coppia…), gli spazi utilizzati.
L’insegnante deve interrogarsi su questi aspetti prima di procedere perché da questa riflessione scaturisce la riprogettazione del lavoro. Se nonostante tutto, le risposte dei bambini sono diverse rispetto alle nostre aspettative (in termini di raggiungimento degli obiettivi) è possibile coinvolgerli nell’analisi: cosa non ha funzionato? Era facile o difficile? Perché? Ma l’errore (specialmente quello individuale) è un indicatore efficace del modo di ragionare di quel bambino. Non dobbiamo mai dimenticare che, statisticamente, è possibile che le risposte pertinenti siano il frutto del caso invece che del ragionamento. Per questo è sempre opportuno essere molto cauti nell’esprimere valutazioni e usare comunque una molteplicità di linguaggi e strumenti per avere conferma o smentita dell’impressione iniziale.
L’errore non va trascurato o rimosso o sottovalutato. I bambini si accorgono di aver sbagliato e solo l’uso didattico dell’errore elimina o riduce il senso di frustrazione che deriva dalla constatazione di non essere stati capaci. Solo mettendo quel bambino nelle condizioni di poter “approfittare” di quell’errore, lui lo potrà considerare un elemento momentaneo all’interno di un percorso che però è possibile affrontare con fiducia nelle proprie capacità. 

Note

1. Dewey J., Esperienza e educazione, (1938), La Nuova Italia, Firenze, 1967

Per la documentazione completa del percorso didattico sulla terra, si veda Conti P., "Dalla terra invisibile alla terra come ambiente di vita", in Conti P., Fiorentini C., Zunino G., Conoscere il mondo, Edizioni Junior, 2005.
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Immagine a lato: tratta da Conti P., L'osservazione e la trasformazione della frutta, "insegnare", sett. 2014, riservato agli abbonati.

Scrive...

Paola Conti Insegnante di scuola dell'infanzia. Fa parte del gruppo di ricerca e sperimentazione del CIDI di Firenze con il quale svolge attività di formazione sui temi dell'educazione scientifica e della progettazione didattica.

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