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28/04/2016

E' questione di metodo. Parte I

di Paola Conti

L'articolo propone una riflessione che, prendendo spunto da alcune circostanze legate alla scuola dell'infanzia, affronta in modo particolarmente efficace questioni nodali e in buona misura irrisolte in tutti gli ordini di scuola.
Particolarmente utile alla preparazione alla prova concorsuale, l'articolo, per la sua ampiezza, sarà pubblicato in due parti. [NdR].


L'ostinata impermeabilità al "curricolo"
Nonostante siano passati anni, ormai, dall’introduzione nella scuola delle "Indicazioni per il Curricolo", il concetto di “curricolo” stenta ad entrare nella prassi quotidiana. Nella migliore delle ipotesi, si dice “curricolo”, ma si intende “programma”; in tutti i segmenti di istruzione; perfino nella Scuola dell’infanzia. Ma la sostituzione di una parola con un’altra non ha compiuto (e non può compiere) il miracolo del rinnovamento della didattica. E infatti, nonostante i cambiamenti lessicali, il modo di intendere la scuola, di fare scuola nel concreto, è sostanzialmente rimasto invariato.

Ho provato spesso a pensare ai motivi di questa che appare come una vera e propria impermeabilità del sistema a un’innovazione che su di me ha avuto, sin dall’inizio della mia esperienza professionale, un’attrazione irresistibile. Nel tempo, mi sono data molte risposte, ma quella che alla fine mi convince di più è la complessità del metodo, il suo non essere riconducibile a una “ricetta”, la necessità di una ridefinizione continua e perenne di pratiche, modalità, atteggiamenti, ai quali ciascuno di noi è legato emotivamente, prima ancora che professionalmente.
Il curricolo implica una dialettica/dinamica continua tra ciò che si è fatto e ciò che va fatto dopo. E il prodotto, la risposta del bambino, è il punto di partenza di questa ri-progettazione. Cosa significa altrimenti “mettere il soggetto che apprende al centro dell’azione di apprendimento”? Osservare i prodotti dei bambini, ascoltare le loro risposte, individuare le criticità o le potenzialità impreviste e imprevedibili: è questo il lavoro sul curricolo. E poi, è decisivo essere capaci di intervenire su quelle criticità, ri-calibrando, ri-prendendo, ri-pensando il lavoro in funzione delle osservazioni effettuate.

La didattica tradizionale non è efficace non (solo) perché non coinvolge direttamente i bambini, non (solo) perché utilizza il libro di testo invece dell’esperimento; non è efficace perché non si occupa di ciò che avviene nella mente dei bambini, perché non si interessa dei processi, perché valuta i risultati constatando successi o insuccessi come se fossero dati ineluttabili dei quali gli insegnanti hanno il dovere di prendere atto attraverso la valutazione. Perché ciò che conta è aver affrontato quel contenuto, aver fatto quell’esperienza, nella convinzione che il nostro lavoro consista in questo: nello spiegare come funziona una cosa, nel raccontare come è avvenuto o avviene un fenomeno. E questo atteggiamento non cambia neanche nella scuola dell’infanzia, anche se è più “mascherato” dalla tipologia delle attività proposte. I contenuti danno sicurezza; la riproposizione di percorsi già fatti, di argomenti già affrontati, sembra mettere al sicuro da possibili incognite, da salti nel buio difficili da gestire.
Così il cambiamento viene accettato in quanto sostituzione di un percorso con un altro, in una sorta di baratto all’interno del quale non cambia la sostanza del fare scuola. Perfino la scelta di contenuti più vicini al mondo dei bambini e più prossimi alle loro capacità di comprensione, influisce poco sul miglioramento dei risultati. 

Un equivoco di fondo: obiettivi educativi e didattici
Leggendo le programmazioni, spesso ci si imbatte in elenchi più o meno lunghi. Talvolta, tali elenchi sono organizzati in categorie: finalità, obiettivi generali, obiettivi specifici, obiettivi educativi, obiettivi didattici, e così via. Al di là della funzione burocratica e della confusione terminologica che si è andata sedimentando negli anni intorno a questi concetti, l’impressione che si ricava quasi sempre dalla lettura di quei documenti è che ci sia una distinzione netta (spesso anche una gerarchia) tra obiettivi educativi (spesso orientati a finalità generali e di tipo trasversale) e quelli didattici (più direttamente legati all’acquisizione di conoscenze specifiche in relazione ai contenuti proposti).
Riflettere su quali siano gli obiettivi delle nostre proposte, può aiutare a sgomberare il campo da equivoci che condizionano in maniera pesante le scelte successive. Rimaniamo nel campo dell’educazione scientifica, anche se il ragionamento (con i dovuti distinguo) potrebbe valere anche per gli altri ambiti. Perché è importante proporre percorsi scientifici fin dalla Scuola dell’Infanzia? Quali sono gli obiettivi che ci prefiggiamo?

L’educazione scientifica "dovrebbe essere finalizzata essenzialmente a una tempestiva sensibilizzazione, ad un atteggiamento di confidenza e riflessione critica nei confronti degli aspetti più propriamente scientifici del mondo (e del linguaggio) in cui sono immersi gli allievi di oggi, e a contribuire all’acquisizione di quella dimensione pervasiva della personalità che può essere indicata come atteggiamento scientifico e metodo scientifico, di fronte ai problemi più urgenti della vita quotidiana." (Pontecorvo-Guidoni, 1979) [1]

“L’obiettivo è pervenire ad un approccio scientifico costruito sull’alfabeto dell’osservazione-scoperta, sulla grammatica dell’accorgersi: i bambini vanno messi nelle condizioni di accorgersi, di adattare ciò che sanno pensare (ricordare, spiegare, progettare) a ciò che sanno vedere, a ciò che succede intorno a loro.” (Frabboni, 1992)[2].

La scuola, detto in altri termini, non ha il compito di formare botanici, chimici, fisici… Almeno, non la scuola fino a 16 anni. Questa scuola ha un compito diverso, ben più importante e più difficile: quello di utilizzare le esperienze (la semina, la combustione…) e le discipline (la scienza, la musica, la letteratura…) per formare le persone, per aiutarle a vivere meglio, per fornire gli strumenti che le mettano in condizione di imparare ad imparare in tutto l’arco della vita.
La scuola deve educare quel pensiero, lo deve rendere sempre più consapevole, sempre più libero e svincolato dalla situazione. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, potremmo dire che la scuola “usa” i contenuti della scienza, in quanto li ritiene occasioni feconde per espandere le naturali motivazioni dei bambini alla comunicazione, socializzazione, autonomia, costruzione, esplorazione.
Dietro l’apparente “pochezza” o “banalità” scientifica di alcuni contenuti scelti (cosa c’è di scientifico nell’osservare campioni di terra per definirne il colore, a confronto con esperienze di trasformazione dell’acqua o di galleggiamento o di fotosintesi…) si nasconde la complessità autentica e reale delle competenze che andiamo a sviluppare, la loro fondatività nella costruzione di quegli atteggiamenti scientifici, di quei modi scientifici di guardare il mondo che rappresentano la base di qualunque apprendimento successivo delle scienze formalizzate come discipline, ma ancor più, della capacità di quel ragionamento critico e divergente, di quel pensiero logico e razionale, di cui la nostra epoca reclama a gran voce la costruzione e il consolidamento.

In principio era l’esperienza
Va detto, però, che lo sviluppo di atteggiamenti e di modi di pensare di questo tipo non è spontaneo, né tanto meno automatico. Non si attiva semplicemente “per contatto” con esperienze, materiali, oggetti. Il nostro lavoro consiste, dunque, nel creare ambienti che sostengano l’apprendimento, nello scegliere contenuti concettualmente dominabili in relazione alla fascia di età cui si rivolgono, nell’approntare e proporre strumenti (anche questi sia di tipo operativo, sia concettuale) che stimolino, nei bambini, quella riflessività che rappresenta la condizione per passare dal fare al saper fare. 

“I bambini esplorano continuamente la realtà, ma hanno bisogno di imparare a riflettere sulle proprie esperienze descrivendole, rappresentandole, riorganizzandole con diversi criteri” (dalle "Indicazioni Nazionali per il Curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo di Istruzione"). In questa prima frase dello spazio dedicato al campo di esperienza che si occupa dell’esplorazione del mondo che circonda i bambini è riassunta e sintetizzata la sostanza dell’azione che deve guidare le scuole e gli insegnanti nell’approcciarsi a questo ambito di apprendimento. È vero infatti, che anche bambini molto piccoli manifestano e sviluppano spontaneamente comportamenti finalizzati all’esplorazione della realtà che li circonda. Ma la scuola rappresenta il primo luogo in cui  le bambine e i bambini incontrano le conoscenze e i saperi in una forma progressivamente strutturata. Ed è questo incontro “programmato” che consente la costruzione di quegli atteggiamenti che rappresentano i “veri” obiettivi del nostro lavoro.
La scuola attiva quei canali che consentono il passaggio tra i saperi strutturati e le modalità rappresentative, gli schemi e le strutture della mente infantile, in forme capaci di produrre conoscenze stabili, consapevoli, trasferibili e attente agli aspetti operativi che sono quelli che aiutano i bambini a costruire i propri metodi di indagine e di lavoro. La riflessione sulle esperienze attraverso la descrizione, la rappresentazione e la riorganizzazione con criteri diversi, diventa la struttura metodologica di riferimento per la progettazione in questo campo di esperienza.

In principio c’è l’esperienza, potremmo dire. Un’esperienza fatta di partecipazione concreta, diretta, coinvolgente, esperita nella maniera più completa possibile. In questa fase esplorativa, i bambini sviluppano la loro capacità di osservare in maniera sempre più selettiva, imparano a collaborare per la buona riuscita di un’esperienza, diventano capaci di descrivere utilizzando dati via via più “oggettivi”. Ma grazie a questo lavoro di tipo preliminare è possibile andare oltre, introducendo elementi di concettualizzazione, stimolando il passaggio graduale e progressivo dal piano percettivo a quello operativo, dal concreto all’astratto, dal segno al simbolo. Perché solo attraverso questo passaggio le interazioni dei bambini con la realtà diventano sempre più significative e producono concreti contenuti di conoscenza.  
Il piegare le mani in gesti e movimenti inusuali, il progettare e costruire direttamente uno strumento che serve a uno scopo ben preciso, “costringe” la mente a pensare a ciò che sta facendo e questo consente di acquisire consapevolezza del proprio operare e a cercare soluzioni sempre più funzionali, a riconoscere strategie che testimoniano (che sono espressione e al contempo costruiscono e consolidano) il proprio modo di imparare, il proprio stile cognitivo, il proprio approccio alla conoscenza. In questo modo i bambini imparano a darsi ragione dei cambiamenti e dei non/cambiamenti della realtà, a provare a cercarne le cause, ad accorgersi della coerenza e della non/coerenza tra ciò che si pensa e ciò che accade.

Note

1. Pontecorvo C., Guidoni P., Scienza e Scuola di base, Istituto Enciclopedia Italiana, 1979.

 2. Frabboni F., Quando l’educazione scientifica prende il nome di Le cose, il tempo e la natura, Infanzia, Settembre 1992.
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Immagine a lato: tratta da Conti P., L'osservazione e la trasformazione della frutta, "insegnare", sett. 2014, riservato agli abbonati.

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Scrive...

Paola Conti Insegnante di scuola dell'infanzia. Fa parte del gruppo di ricerca e sperimentazione del CIDI di Firenze con il quale svolge attività di formazione sui temi dell'educazione scientifica e della progettazione didattica.

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