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editoriali

27/08/2018

Ricominciare dal (senso di) vuoto

di Mario Ambel

Basta col pensiero unico, appello del prof Cacciari. E gli intellettuali insorgono: via test invalsi e alternanza scuola-lavoro. Così titola Alessandro Giuliani su “La Tecnica della Scuola” del 16.08.2018.  A una lettura frettolosa di questo titolo,  potrebbe sembrare che l’allarmato appello di Massimo Cacciari e di altri intellettuali in previsione delle elezioni europee del 2019  intervenga contro i test Invalsi e l’ASL.  In realtà non è così. 
Da più parti si è creato un collegamento fra il "testo-appello" di Massimo Cacciari e altri intellettuali [1], che è di natura più politica e di carattere generale, e l' "Appello per la scuola publica", promosso qualche mese fa e firmato da più di 12000 persone.
Forse  perché lo stesso Cacciari è anche tra i firmatari di quest’ultimo, si è legittimato l’accostamento tra i due documenti che, se è vero che contengono anche alcuni tratti ispiratori comuni, in primis la reazione contro la degenerazione del “pensiero unico”, ne danno accezioni differenti. A proposito del pensiero unico Cacciari si riferisce a quel pensiero demagogico-populista che caratterizza l’attuale coalizione di governo e scrive: “Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento”; mentre i firmatari dell’ “Appello per la scuola pubblica” lo hanno definito come il pensiero derivante da “un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista”.

Inoltre, nel più recente appello di Cacciari, orientato a promuovere una reazione culturale contro la deriva del discorso pubblico in tutta Europa,  non si parla di scuola. Mentre nell’altro, gli snodi critici e i principi ispiratori delle scelte che hanno guidato la più o meno recente politica scolastica (di centrodestra e di centrosinistra) furono a suo tempo esposti con chiarezza dai suoi promotori. Li ripropone in sintesi lo stesso articolo citato in apertura, ribadendo almeno tre punti di forte opposizione alle scelte della  Legge 107:
- Alternanza Scuola Lavoro (ASL);
- Valutazione standardizzata e invasività dell’INVALSI;
- Inclusione.
Sono questioni cui “insegnare” ha dedicato e continuerà a dedicare un’attenta elaborazione critica e propositiva [2].

Dal punto di vista più strettamente politico è per altro interessante notare come l’appello di Massimo Cacciari, in qualche misura giustamente riconducibile anche a una critica severa nei confronti dei governi di centro destra e di centro sinistra, sia oggi promosso in aperta ostilità nei confronti dei principi ispiratori dell’attuale governo, che ha nella ferma opposizione a quei governi uno dei suoi punti  fermi.
Insomma, è come se gli intellettuali firmatari di questi appelli (e i molti insegnanti firmatari del secondo) stessero nel complesso affermando che nessuno che abbia  gestito il potere in questi ultimi vent’anni  o che lo gestisca ora, ha una proposta attendibile e condivisibile per il governo della scuola, e del Paese, o dell’Europa.
Per quanto riguarda la scuola è una tesi che sulla nostra rivista abbiamo ribadito prima e dopo le recenti elezioni politiche: non riconosciamo i presupposti e le pratiche di una politica scolastica condivisibile nelle scelte dei governi Berlusconi di centrodestra, abbiamo apertamente criticato e osteggiato la “Buona scuola” del centrosinistra, e siamo quanto mai perplessi di fronte ai principi ispiratori e a molte scelte pratiche dei due movimenti attualmente al governo, di cui non condividiamo le rispettive dichiarazioni programmatiche sulla scuola. [3]

Al contempo abbiamo anche qualche significativa riserva rispetto ad alcuni dei principi che sostengono la posizione dell’ “Appello per la scuola pubblica”. In particolare non condividiamo la contrapposizione fra conoscenze e competenze e il rischio di ritorno a una difesa acritica di una scuola rigidamente trasmissiva e disciplinarista in senso antico, che non sarebbe, a nostro giudizio, un buon modo per reagire agli eccessi e alla degenerazione aziendalista o produttivistica della gestione ministeriale e bipartisan della “scuola delle competenze” [4].

Oltre tutto, ad aggravare queste percezioni, non siamo preoccupati solo dalle cattive condizioni in cui versa la scuola, e dai suoi mali antichi da cui non riesce ad affrancarsi (permanenti alte quote di dispersione, disuguaglianze intrinseche al sistema e ai suoi risultati, crescita della povertà educativa, assenza di una seria educazione degli adulti, scarso contrasto alla aggressiva superficialità dei media, ecc.), ma anche dalle soluzioni al suo stato di crisi proposte in questi ultimi anni. Ricordiamole in estrema sintesi.

Siamo infatti fortemente contrari alla  visione ministeriale di una scuola delle competenze tutta orientata all’addestramento, adattivo e spesso acritico, alla realtà esistente (di cui sono epifenomeni sia i “compiti di realtà” che l’ “alternanza scuola-lavoro”,  in quanto deleghe complementari della scuola a una presunta superiorità anche educativa della realtà esterna). Così come osteggiamo forme accentuate e vuote di trasversalismo pragmatico-comportamentale, che hanno il sopravvento sia sulla solidità e la permanenza dei saperi e sia sulla trasversalità degli approcci linguistici e cognitivi alle diverse culture e alle loro osmosi.

E siamo anche  fortemente preoccupati da alcune soluzioni metodologiche troppo spesso proposte come procedure salvifiche: si pensi alla fiducia spesso acefala nell’efficacia delle nuove tecnologie, che ha portato in auge l’esempio di scuole come quella diretta dall’attuale sottosegretario all’Istruzione, dove ad alcuni aspetti positivi di tipo ambientale e motivazionale fa da contraltare il repertorio sostanzialmente tradizionale e retrò delle pratiche messe in atto, costellate di “registri”, “lezioni”, “voti”, “contenuti”, “libri di testo”,  nei quali l’autogestione produttiva e riproduttiva da parte dei docenti non è di per sé garanzia di apprendimento consapevole da parte degli allievi, né tanto meno di didattica innovativa ed efficace.

Analogamente guardiamo con qualche preoccupazione all’enfasi con cui da alcuni viene proposta e praticata una fiducia troppo acritica nei confronti di soluzioni quali la “flipped class room”, dove la legittima volontà di superare il modello trasmissivo  spesso si riduce a un ribaltamento spazio-temporale delle stesse procedure della scuola tradizionale che si vorrebbero superare. Della “flipped” ci interessa discutere le modalità di protagonismo attivo degli allievi, più che il trasferimento extra moenia delle attività di ricerca delle informazioni in un universo digitale che si rivela sempre più inquinato da false credenze,  rischiando in questo modo di trasformare una scuola che si alimenti di conoscenze ricavate prevalentemente dai media digitali in una sorta di lotta impari fra doxa ed episteme.  

La nostra proposta, più volte affermata e argomentata, intende promuovere una didattica operativa e costruttivista,  finalizzata  all’acquisizione da parte di un soggetto consapevole e via via più autonomo di competenze culturali di cittadinanza, garantite da una scuola nella  quale progettazione, ricerca e processi di insegnamento siano strategicamente preminenti e autonomi rispetto alle esigenze di valutazione e di adattamento alla realtà esterna.
E non lo proponiamo certo da oggi:

"Competenze culturali  per la cittadinanza è il dossier del 2007 con cui "insegnare" poneva le basi di una proposta culturale, metodologica e didattica che accompagnasse e sostenesse un reale innalzamento dell'obbligo scolastico nel nostro paese.
Dal punto di vista teorico, la proposta si fondava sul superamento della dicotomia "conoscenze vs competenze", intesa come limitativa e fuorviante, mentre  con la prospettiva della "cittadinanza" si intendeva affrancare le competenze da finalità economicistiche o legate a una malintesa spendibilità.
Dal punto di vista metodologico era la proposta di una scuola operativa e laboratoriale, dove l'allievo fosse protagonista attivo dei processi di apprendimento e non ascoltatore sempre più passivo e disinteressato della trasmissione del sapere altrui, dove il "fare" e il "saper fare" non fossero contrapposti al "sapere" nel modo di apprendere e neppure, soprattutto, di immaginare e vivere professionalmente il proprio futuro. [5]

Ciò che amareggia, spesso, nelle motivazioni addotte per spiegare le ragioni dei compiti di realtà, dell’ASL, come per altro delle classi digitali o della “flipped” è la legittima e giustificata critica alla scuola trasmissiva, alla sua inefficacia, alla sua noia, allo scarso coinvolgimento degli allievi, al suo potenziale discriminatorio e selettivo.

È come se la scuola, per liberarsi dagli esiti infausti del suo vizio più antico (la trasmissività passivizzante di un sapere acritico e libresco dai docenti e dai libri di testo alla testa degli allievi) fosse costretta o a ritornare a quelle procedure (come vorrebbero non pochi difensori, anche autorevoli, della scuola imperante temporibus illis), oppure a gettarsi verso strade del tutto nuove e inesplorate (o presunte tali), dove per altro il rischio della “lezione” e del “voto” non solo non viene rimosso, ma ritorna prepotentemente seppure talvolta sotto mentite spoglie, o tra le verbose e defatiganti procedure e rubriche "autentiche", con le quali troppi esegeti ministeriali della valutazione formativa sono ormai abituati a rimuovere e occultare la loro incapacità di opporsi a quella selettiva.

Insomma non è un buon momento quello in cui ci apprestiamo a ricominciare l’anno scolastico. Del resto, non è certo la prima volta che ci apprestiamo a ricominciare con forti preoccupazioni sullo stato di salute e sulle modalità di governo della scuola. Questo si leggeva nell'editoriale di apertura dello scorso anno scolastico:

"Forse dovremmo ricominciare proprio da qui il nuovo anno scolastico: dalla consapevolezza che mentre noi continuiamo ad arrovellarci per fare una scuola adatta ai nostri allievi e al futuro del paese in cui viviamo (tutto, non solo del suo fallimentare sistema economico e occupazionale), altri più o meno in buona fede lavorano per altri fini. E forse dovremo anche provare a riscoprire l’importanza, ogni tanto, di disobbidire agli imperativi che più fanno a pugni con la nostra coscienza professionale e civile." [6]

E purtroppo, in questo ultimo anno di questioni  che confliggono con la nostra coscienza professionale e civile, ne sono emerse alcune ancor più serie di quelle didattiche, che riguardano i rapporti, ancor più complessi, fra cultura educazione etica e politica e che producono a tratti un disorientante senso di vuoto.
Al riguardo, sulla nostra pagina fb, abbiamo recentemente rivolto al Ministro questa domanda:

Sta per ricominciare l'anno scolastico. 
Come cittadini e come insegnanti, ci chiediamo se alcune scelte e alcune affermazioni di taluni membri del Governo siano compatibili con i più elementari assiomi del nostro compito di educatori alla convivenza civile e al rifiuto di ogni forma di discriminazione e di intolleranza. 
Chiediamo al Ministro dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca se i principi ai quali dobbiamo ispirare le nostre scelte educative e didattiche siano quelli rinvenibili nelle affermazioni del Ministro dell'Interno o nelle esternazioni di alcuni esponenti della loro comune forza politica.
Sapere che cosa pensa al riguardo il responsabile del MIUR è un diritto non solo dei docenti, ma degli studenti e delle loro famiglie. 

Che il momento sia grave lo testimonia anche un altro recente documento. In risposta all’appello di Massimo Cacciari alcuni “docenti universitari impegnati nelle scienze dell’educazione”, tra cui Massimo Baldacci, su “la Repubblica” [7] affermano di condividere le preoccupazioni per i molteplici elementi che imbarbariscono il confronto pubblico e le scelte politiche e che inevitabilmente “concorrono alla marginalità in cui sono relegate educazione e istruzione”.  Ribadiscono la necessità di “riproporre con forza il ruolo trasformativo dell’atto educativo, affinché riacquisisca imprescindibile funzione di volano per la società”; anche superando falsi dualismi “in primis quello fra equità e qualità”. La pedagogia e la scuola hanno la responsabilità e “il compito di richiamare tutti a una cultura dell’umano e del rispetto della diversità.”

Vorremmo su tutte queste questioni aprire un confronto che ci sembra non più procrastinabile. La scuola italiana ha il diritto e il dovere di servire in modo più coerente ed efficace il suo mandato costituzionale. Per farlo ha bisogno di ridiscutere e rifondare radicalmente le sue finalità, le sue strutture e le sue procedure.
Questo è un periodo assai infelice per il nostro paese e l’intera Europa, incapaci di reggere le contraddizioni di un mondo che hanno fortemente contribuito a realizzare per o in quello che è.  Un salto di qualità della convivenza civile ha bisogno di muovere i primi passi dalla scuola, una scuola che sia capace di orientare i cittadini di domani in una giusta direzione democratica, propugnatrice e rispettosa innanzitutto dei diritti universali degli individui e delle genti.
 

Note

1. Il "testo-appello" è stato pubblicato su "la Repubblica", del 3.08.2018
2. Tra i contributi più recenti si veda in particolare Mario Ambel, "La scuola italiana, l'Europa e noi", insegnare, 31.05.2018, che contiene anche una nutrita rassegna di rimandi ad altri contributi.
3. Cfr. Mario Ambel,  "A urne chiuse e poi aperte", insegnare, 3.3.2018. 
4. Abbiamo affrontato la questione nella presentazione e nei contributi dello "speciale" "Di nuovo conoscenze vs competenze", 27.03.2018.
5. Cfr. M. Ambel e D. Chiesa, a cura di, Competenze culturali  per la cittadinanza,  editoriale ciid, Roma, n.1-2007, è disponibile per i soli abbonati nella sezione dossier.
6. Cfr.  Mario Ambel, "Ricominciare dalla fine (della scuola)?", insegnare, 08.09.2017.
7. Cfr. "Le scienze dell'educazione per l'Europa", su "la Repubblica", 24.08.2018.

 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".