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c'era per noioltre la lavagna

17/03/2016

"Una sfida ancora aperta"

a cura di Rosanna Angelelli, Gloria Calì, Agata Gueli

Convegno nazionale del CIDI

Il 20 Febbraio 2016, presso il liceo Classico “Genovesi”, a Napoli, si è svolto il convegno nazionale del CIDI, a quaranta anni dalla pubblicazione delle “Dieci tesi per l’Educazione Linguistica Democratica”. I lavori si sono svolti per l’intera giornata, nella cornice affascinante del centro storico della città partenopea.
Il convegno, segnato dalla scomparsa di Umberto Eco, la cui notizia è arrivata poche ore prima del suo inizio, è iniziato con la lettura di un brano da “Lettera a una professoressa” di Don Lorenzo Milani, con le voci di Daniela De Scisciolo (Cidi Potenza) e Antonio Maiorano (Cidi Napoli).

La mattinata
Annamaria Palmieri, già Presidente del Cidi Napoli e attuale Assessore all’istruzione (o meglio, “alla scuola”, come da lei precisato) del comune di Napoli, non ha solo porto il saluto delle istituzioni, ritenendolo troppo convenzionale in un convegno che non può né deve essere celebrativo. La riflessione odierna sulle “Dieci tesi” si configura infatti come una vera e propria sfida: c’è un conto aperto sul loro contenuto e sui loro contesti. Il contenuto fa capo a una formazione/educazione linguistica che i Cidi, forti del loro passato impegno, continueranno a rivendicare e a portare avanti per il futuro, in nome di un principio che dovrà essere tutelato fino in fondo: il diritto all’uguaglianza. Proprio per le sue competenze di insegnante amministratrice pubblica e scrittrice –il giorno prima del convegno è stato presentato sempre a Napoli il suo libro, Maestri di scuola, Maestri di vita- Palmieri ha potuto evidenziare con chiarezza che il problema “scuola”, e quello connesso del successo formativo, sono essenzialmente di natura sociale e politica: c’è uno stretto legame tra lo sviluppo delle capacità linguistiche e le caratteristiche dei territori in cui vivono gli alunni, vale a dire i loro contesti di provenienza, gli ambienti in cui essi ritornano, finite le ore di lezione, e determinanti alla comprensione degli alunni stessi. Da questi elementi bisogna partire, dunque, per offrire opportunità concrete di educazione, in primis quella linguistica, dando a essa il valore formativo e libertario che le fu assegnato da don Milani [1].

Di seguito, l’intervento di Alba Sasso, ex Presidente del CIDI, ha aperto una prospettiva storica straordinaria sulle “Dieci tesi” in relazione ai processi di cambiamento  della scuola italiana. Negli anni ’70, che hanno visto anche la nascita del CIDI e la Legge sugli Organi collegiali, la  nascita delle “Dieci Tesi” ha rappresentato la realizzazione di un modello di scuola centrato sull’eguaglianza delle opportunità come finalità educativa e formativa, sul superamento del modello trasmissivo come metodologia didattica, sulla centralità del docente nel sistema di insegnamento/apprendimento con la carica delle sue competenze epistemologiche e didattiche. Si apriva così in quegli anni  una fase proficua di collaborazione tra CIDI e Università.  Negli anni ’80 e ’90 il dibattito sulla scuola fu molto vivace, anche nelle commissioni ministeriali. Sono gli anni delle sperimentazioni, della ricerca di un’identità propria da parte delle scuole, di un processo virtuoso che si concluse, per così dire, con il riconoscimento dell’Autonomia Scolastica. Il successivo spartiacque, da Moratti fino alla “riforma” Gelmini, ha aperto una voragine di insuccessi formativi degli studenti, di calo della qualità dell’insegnamento; di crollo della considerazione sociale del ruolo degli insegnanti. La legge 107 rappresenta il coronamento di questo processo regressivo: manca, insieme a tutto il resto, una vera riflessione su che cosa e come si deve fare scuola, e manca la convinzione che l’istruzione non è un costo per lo Stato, ma un investimento [2].

A seguire, Annamaria Ajello, presidente dell’INVALSI, ha organizzato il suo intervento in due parti. Nella prima ha cercato di giustificare i criteri generali di scelta e di composizione degli item delle prove INVALSI. Tali criteri non sono sempre del tutto corrispondenti alla didattica delle competenze linguistiche e agli obiettivi che tradizionalmente sono sostenuti nella scuola italiana, differenza questa che può comportare impacci e insuccessi da parte degli studenti di fronte a prove su testi, come quelli "non continui" e questioni non usualmente presenti nella didattica curricolare. Ne deriva che, se per l’INVALSI è importante sviluppare una cultura della valutazione di sistema, è però fondamentale capire le difficoltà degli studenti formati su una didattica tradizionale. Nella seconda parte della relazione Ajello delinea una panoramica intorno agli esiti delle prove nazionali. I risultati migliori in italiano si hanno nelle prove sul testo narrativo, perché, a parere di Ajello, è meno complicato comprendere questo tipo di testo: l’essere umano, infatti, dapprima “si racconta”, poi “si spiega”, e le competenze formali (comprese quelle grammaticali) non progrediscono se non si affronta il passaggio cognitivo dalla narrazione all’analisi.
Questa stessa carenza si nota anche nelle prove di matematica, dove sono poco  chiare le distinzioni tra ipotesi, tesi e argomentazione. Da qui l’auspicio che la formazione linguistica a scuola si eserciti di più su testi misti, che movimentino significati e discipline diversi, una pratica poco frequentata a scuola. Senza un apporto determinante e autonomo della scuola,  – si chiede la relatrice-  l’INVALSI rischierebbe davvero di diventare una “Equitalia” dell’insegnamento in Italia e questa non è certo la volontà dell’Istituto. Gli obiettivi di Lisbona sono abbastanza lontani dagli esiti delle prove, ma la citazione di un pensiero di Wendell Berry-celebre per il doppio ruolo di contadino e di scrittore-, tratta da La strada dell’ignoranza (2015), secondo cui la competenza linguistica non costituisce un ornamento, ma una necessità di carattere relazionale-esistenziale immediato, riposiziona  Ajello su quanto precedentemente sostenuto da Palmieri: i contesti socio economici e culturali in cui vivono gli studenti, hanno un ruolo essenziale nel loro successo scolastico [3].

L'intervista a Tullio De Mauro
Nell’ultima parte della mattinata Giuseppe Bagni (Presidente del CIDI) ha discusso con Tullio De Mauro sulle “Dieci tesi per l'educazione linguistica democratica”. Le domande iniziali sono: Che cosa è entrato dentro la scuola del loro contenuto? Che cosa ne è rimasto fuori? In esse è implicita una risposta discordante, perché –a parere di Bagni e di chi ha già parlato durante la mattinata-, oggi l’atteggiamento nei confronti dell’educazione linguistica sembra essere molto conservatore. È tornata quella pedagogia del passato che era più attenta all’educazione linguistica attraverso il testo scritto e l’acquisizione di competenze grammaticali, formali, piuttosto che di pratiche comunicative “miste”, per dirla con Ajello. Quale ruolo allora le “Dieci tesi” possono recuperare dal passato o fondare per il presente? Bagni continua dichiarando che  la sua professionalità tecnica lo fa lavorare nell’ambiente del laboratorio scientifico dove gli studenti che lo affiancano si esprimono in un linguaggio spesso indipendente dall’insegnamento formale della lingua che hanno ricevuto o stanno ricevendo nell’ora di italiano. Questo linguaggio è legato alla descrizione del fenomeno scientifico osservabile durante un esperimento, nasce cioè da una esperienza “nuova” per gli studenti e come tale suscitatrice di una “creatività” anche verbale. Certamente essa non è improvvisata, sebbene la spinta alla verbalizzazione di quanto preparato e osservato sia inizialmente di carattere emotivo (la meraviglia della novità, di una scoperta),ma da verificare successivamente, in coerenza con lo sviluppo della fase analitica e della comprensione/spiegazione dell’esperimento. Così la comunicazione immediata su quanto si va osservando pian piano si dispone in selezione e gerarchizzazione concettuale, diventando un processo, una strategia di senso. Tutto questo gli fa allora chiedere a Tullio De Mauro quanto possa essere lontana l’esperienza di uno studente a contatto con i testi di quei grandi artisti così detti classici da lui molto distanti, cosa peraltro stigmatizzata al negativo dallo stesso don Milani. E siccome si sa che la lingua dei classici ha sostanziato la lingua italiana tanto da far pensare che questa sia più di tipo letterario che comunicativo, allora come si potrebbero ripensare i classici oggi a scuola?

De Mauro inizia rispondendo alle prime due domande. Il Giscel ogni tanto fa un bilancio dell’incidenza delle “Dieci tesi”. Nell’ultima riflessione è emerso che il 20% degli insegnanti di mezza età le ricorda, ma se si fanno loro domande più puntuali, appena il 12% di questo 20% risponde positivamente citando esperienze didattiche concluse e verificate.
Alcune parole “d’ordine” delle “Dieci tesi” hanno avuto una buona sorte essendo state accolte sia nei programmi che nelle recenti "Indicazioni ministeriali"; esse riguardano, per esempio, l’attenzione al retroterra culturale del ragazzo -esigenza questa che era stata maturata dal CIDI ancor prima della stesura definitiva delle Tesi- oppure, l’importanza di una educazione linguistica trasversale alle varie discipline.
Che cosa è passato e passa oggi nella pratica didattica? A una prima impressione, gli insegnanti delle elementari hanno maturato e applicato molte indicazioni delle “Dieci Tesi”, con buoni risultati, almeno fino al ritorno del maestro “unico” che ha nuovamente irrigidito trasversalità e flessibilità.
Man mano che ci si sposta sulla secondaria di II grado, l’attenzione a una educazione linguistica “attiva”, dinamica, comune alle varie discipline diventa sempre più rarefatta. E anche qui ha giocato un ruolo molto negativo il vuoto riformatore, orientato verso provvedimenti frammentari e non di sistema. Ma anche l’università porta il peso di una formazione insoddisfacente e di una sostanziale chiusura ai problemi della scuola. Ne è esempio la reazione accademica dei Lincei da lui coinvolti per promuovere iniziative sulla e per la scuola: dopo i primi plausi, c’è stato un allontanamento verso altri orizzonti di interesse oppure un ritiro della ricerca entro “singole” materie.
E allora, sul recupero della pedagogia tradizionale, il giudizio non può non essere amaro e severo: vengono gettate presunte zattere di salvataggio del passato, consistenti nel maestro unico, nel ritorno alla valutazione numerica per la fascia dell’obbligo, nella settorialità dell’ora di italiano. E ci sono dei supporter, come Paola Mastrocola, che caldeggiano in questo presunto ritorno all’ordine, la trasmissività ex cathedra dei saperi, la rivendicazione del ruolo essenzialmente direttivo del docente.
C’è però un passato positivo che continua ad alimentare l’attività pedagogica e la didattica sperimentale di cui Bagni ha parlato poco fa, ma ciò accade non per via della “Buona scuola”, ma per l’insopprimibile sopravvivenza del dettato di Dewey che “si impara facendo cose”. Non per nulla nell’indagine IEA del 1970, le competenze in Matematica e Fisica apparvero buone solo negli Istituti Tecnici perché si era puntato sulla laboratorialità.
 Le difficoltà attuali sono state monitorate e riferite da INVALSI, sebbene i dati illustrati poco fa dalla Presidente Ajello vadano contestualizzati in modo più fine. Per esempio, perché le ragazze hanno avuto un risultato nelle competenze linguistiche al di sopra della media delle loro compagne europee? Perché i risultati migliori sono di pertinenza di certi territori? Il Trentino e la Val d’Aosta, che sono i nostri picchi positivi, sono anche meglio finanziati e organizzati, con un tessuto sociale più ricco e un polilinguismo storicamente radicato e protetto. Ciò che è devastante (e che si ritorce contro la cultura dei giovanissimi) è l’incultura della popolazione: il 70% degli individui tra i 16 e i 65 anni  ha difficoltà a capire un grafico, un articolo di giornale, e questi dati provengono dall’inchiesta “All”, un progetto di ricerca internazionale che tra il 2003 e il 2005 ha sondato in sette Paesi le competenze degli adulti. Come si è espressa la politica per ridurre la sottocultura generalizzata? Come si sono tutelate e avvantaggiate le scuole, dove sono le biblioteche, le “vere” librerie? La scuola evidentemente è stata lasciata sola a combattere un’ignoranza e un degrado ormai endemici.
Infine, il tema complesso, dei classici, e del ruolo che la lettura di essi può essere ancora riconosciuto non solo nella scuola, ma anche nella costruzione del patrimonio linguistico comune. De Mauro ha sottolineato che, sebbene il vocabolario di base della lingua italiana sia aggiornato sulla base dei mutamenti nella comunicazione, il lessico di alta frequenza resta debitore, per l’80% almeno, al Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, basato sulla lingua dantesca. È perciò ancora importantissima la lettura dei “classici “, da Dante a tutti gli altri “costruttori” della lingua italiana, per acquisire strumenti e strutture comunicative efficaci e condivise. Ma va detto anche che le lingue sono inventate da tutti, ricchi e poveri e che, a suo parere, proprio per questo, Dante è “figlio” (non padre) della lingua italiana, dei vari dialetti, del polilinguismo della sua storia.

Il pomeriggio
Anna Rosa Guerriero (Giscel) nella sua relazione su“ Nuove domande per un apprendimento linguistico di qualità” riprende l’auspicio di Sarpi e, rivolgendosi ai nuovi soggetti, giovanissimi italiani lontani dalla dialettofonia -su cui tuttavia si è strutturata la nostra lingua- e immigrati ormai di seconda generazione che hanno perso anch’essi il loro sostrato culturale, auspica che la nostra attività didattica, illuminata dallo spessore scientifico e dalla mobilità cognitiva delle “Dieci tesi”, possa “recuperare tutta la tavolozza comunicativa del parlante”, mantenendo insieme la continuità e il dinamismo, utilizzando l’elasticità delle lingue (non solo quindi dell’italiano!) come L1 e L2., ma anche come supporti trasversali dei vari saperi. Dunque, il rapporto tra educazione linguistica e condizioni storico sociali emerge anche in questo intervento e le problematiche che ne scaturiscono per la scuola non possono essere semplificate in una congerie di criticità affastellate e confuse, tra cui i giudizi-limite del tipo “I giovani non leggono o non scrivono più”, come fa in genere la stampa divulgativa. Il Giscel da anni con le sue pubblicazioni (“Quaderni Giscel”), con gli studi a cura di Adriano Colombo e Gabriele Pallotti, con i materiali Indire a cura di Mario Ambel, sta raccogliendo materiali significativi sui bisogni e sugli esiti linguistici delle nuove generazioni, una realtà caleidoscopica che necessita di una pluralità di punti di vista e una dialogicità di studi da approcci diversi, che verranno  presentati nel prossimo Convegno Giscel “L’italiano dei nuovi italiani”. Nella seconda parte della relazione Guerriero puntualizza le strategie didattiche per lei più significative per raggiungere l’obbiettivo dell’uguaglianza e dell’inclusione, perché, come viene detto da Mariateresa Sarpi “La nuova educazione linguistica non è affatto anarchica e superficiale”.  Un primo accenno è venuto fuori anche in riferimento all’educazione linguistica integrata con l’educazione mediale, a proposito della scrittura documentata che, quasi sempre, usa informazioni reperite sul web; il tema intorno ai supporti digitali, alla comunicazione digitale, sarà poi al centro della tavola rotonda conclusiva del Convegno [4].

Nel successivo intervento intitolato “Bilancio e prospettive di 40 anni di Educazione linguistica. Una indagine di insegnare”, Mario Ambel, (direttore della rivista online del CIDI insegnare) ha presentato i risultati di un sondaggio elaborato da un apposito gruppo di ricerca, e attuato mediante un questionario compilato da 100 docenti di tutta Italia [5]. All’elaborazione delle domande si è arrivati con una ricostruzione analitica dell’educazione linguistica nel nostro Paese in un certo senso “a puntate”, considerati i 40 anni di politica scolastica intercorsi tra l’oggi e il 1977, l’anno in cui Tullio De Mauro pubblicò per gli Editori Riuniti Scuola e linguaggio, dove le "Dieci tesi" venivano presentate nella versione letta dallo stesso De Mauro a un convegno del Cidi nel marzo del 1975. Sono intercorsi tanti anni di speranze, di delusioni su una grande scommessa educativa solo in parte compiuta. Dalle risposte date emerge, sostanzialmente, che la diffusione  delle “Dieci tesi” nella prassi didattica è stata poco ampia e soprattutto, poco profonda, nella scuola italiana: assai scarsa è la percezione dell’incidenza delle “Dici tesi” nel rinnovamento della didattica dell’italiano. In particolare tutte le prospettive didattiche che le “Dieci tesi” individuavano come auspicabili sono quelle meno frequentate dalla scuola, al contrario sono ancora e sempre più diffuse tutte le pratiche che consideravano deleterie. Riguardo al presente, alcune risposte sono contraddittorie. Si afferma che la migrazione ha fatto bene alla scuola, ma poi si lascia intendere che l’insegnamento è ostacolato dalla condizione dei giovani d’oggi. Anche riguardo alla didattica mediale le risposte sono esitanti. Insomma, il quadro è tutt’altro che chiaro e confortevole. Allora –si chiede Ambel- come concludere questo primo sguardo sull’indagine? Intanto continuando a chiederci perché non ce l’abbiamo fatta, individuando  cause politiche ma anche formative, culturali della scuola e della società, oltreché le responsabilità individuali. Difficile pensare che la soluzione stia nel far dipendere i processi educativi da una malintesa accentuazione dell’importanza del momento valutativo [6].

La tavola rotonda
A conclusione dei lavori pomeridiani, con un tempo purtroppo troppo ristretto per aprire un vero confronto tra le posizioni conformi all’argomento della “tavola rotonda”, si è aperto lo spazio per la “prospettiva”: “Leggere e scrivere al tempo dei social network”. A rappresentare varie posizioni Andrea Bagni, Franco Lorenzoni, Benedetto Vertecchi, Chiara Lugarini e Trifone Gargano, con la conduzione di Emma Colonna. Le varie voci hanno  esposto le proprie considerazioni sul significato da attribuire oggi al leggere e allo scrivere, in un tempo in cui si impone una nuova prospettiva di accesso alle modalità (lettura di contenuti di rete e su supporto elettronico) e agli strumenti (tastiera e visualizzazione elettronica dell’output) necessari a entrambe le operazioni. Fatto questo che potrebbe determinare segni e funzioni diverse anche dell’analfabetismo, nonché sistemi di verifica e di controllo esterni ed estranei agli ambienti scolastici tradizionali. La ricca diversità delle posizioni ha offerto molti spunti di riflessione.

Franco Lorenzoni, maestro e autore del fortunatissimo libro I bambini pensano grande, ha lanciato l’idea di una “ricreazione dall’obbligo del digitale da riconoscere come un diritto dei bambini sino almeno agli 8/9 anni, allorché la scuola, come luogo del “controcanto possibile” alla realtà “medializzata” possa vivere come una comunità che si ferma a fare domande, su tutto, e a cercare al suo interno risposte nell’ascolto reciproco; l’uso di materiali video, secondo Lorenzoni, mortifica lo sviluppo spontaneo della riflessione, del pensiero complesso, della coordinazione cognitiva tra osservazione e intervento sul reale.
Su questa linea, che potremmo definire critico-riflessiva sul tema posto, si è posto anche Benedetto Vertecchi, focalizzando la questione molto dibattuta, di questi tempi, sulla scrittura in corsivo, la cui pratica è da difendere e proteggere perché si correla fortemente con la capacità di laterizzazione cognitiva di memorizzare e articolare il pensiero. Ha parlato a questo proposito dell’importanza di curare la memoria “interna” in ciascun soggetto, senza la quale a nulla ci servirebbe l’immensa memoria “esterna” offerta da Google.
Un esempio di utilizzo degli strumenti digitali nell’interazione con la classe lo ha offerto Chiara Lugarini, insegnante di lettere alla media, che gestisce un blog per la didattica, il cui nome "sconfinamenti" , rimanda alla possibilità di utilizzare uno strumento online per sconfinare, appunto, in zone di scrittura e di lettura le più varie, arricchendole di esperienze comunicative altre, come per esempio, quelle audio. L’esperienza di Lugarini è sempre più diffusa, giacché molti insegnanti, anche nella scuola primaria, usano blog o altri strumenti più avanzati per la condivisione di prodotti e percorsi scolastici, utilizzando le piattaforme social o le strutture per le classi virtuali; l’attenzione, nel suo intervento, è stata centrata sugli aspetti di originalità e visibilità che lo strumento da lei prescelto può offrire ai ragazzi della fascia d’età di suo diretto interesse.
Andrea Bagni, docente di lettere negli istituti professionali, condirettore della rivista online école si è concentrato invece sul bisogno di comunicazione che i ragazzi oggi esprimono e manifestano quasi compulsivamente attraverso gli scambi mediali; sta al docente, perciò, intercettare questa esigenza e proporre percorsi letterari che abbiano a che fare con il desiderio impellente di collettività che, in forme spesso a-letterate, gli adolescenti esprimono. Ciò consente, anche di veicolare l’obiettivo del rigore che lo studente deve porre nella cura del suo leggere  e del suo scrivere, come forma di rispetto verso ciò che produce, sia in termini di scrittura che di lettura interpretante.
 

A chiudere la tavola rotonda è stato il contributo di Trifone Gargano, docente di letteratura italiana nei licei, autore di un testo molto significativo, per il tema in discussione: La letteratura al tempo di Facebook. Il suo intervento, breve ma ricco di impulsi, è stato indirizzato a sottolineare la necessità del passaggio dagli strumenti materiali di composizione letteraria a quelli immateriali, offerti dalla rete, come si passò dal manoscritto alla carta stampata. Gli insegnanti, in questo contesto, non possono chiudersi di fronte alla realtà delle innovazioni, le quali sono da rileggere alla luce di una continuità possibile con la vita della comunicazione verbale scritta letteraria: i testi epigrammatici e i tweet; la costruzione di fiabe e le app accessibili da Facebook sono solo alcuni esempi. La scuola, quindi, può essere un luogo elettivo di sperimentazione e costruzione di “letteratura”, in quanto la guida esperta di un docente può condividere spazi e strutture efficaci per la costruzione di testi multilivello, narrativi, documentali o di ogni altro genere, la cui condivisibilità costituisce un ulteriore valore aggiunto.

Posizioni dunque diverse, richiami multiprospettici su una questione certamente complessa quale quella dell’educazione e dell’istruzione al tempo della società liquida.

Note

1. Sulla convergenza in fatto di educazione e di lingua fra Don Milani e Pier Paolo Pasolini, si veda si insegnare l'articolo di Annamaria Palmieri, "La 'pedagogia' di Pasolini e Don Milani".
2. Il testo dell'intervento di Alba Sasso, "Dalle sfide della scolarizzazione di massa alle nuove domande educative", è pubblicato sul sito nazionale del Cidi.
3. Le slide dell'intervento di Annamaria Ajello e la documentazione distribuita ai convegnisti  sono reperibili sul sito nazionale del Cidi.
4. Le slide dell'intervento di Annarosa Guerriero sono reperibili sul sito nazionale del Cidi.
5. Su insegnare è possibile ripercorrere l’iter dell’indagine, nella sezione "L'Educazione Linguistica Democratica" che la rivista ha dedicato e continuerà a dedicare alle”Dieci tesi”.
6. Le slide dell'intervento di Mario Ambel sono reperibili sul sito nazionale del Cidi.

Parole chiave: educazione linguistica

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