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23/04/2024

Il Piano Estate 2023-2024 e la Scuola-bazar del ministro Valditara

di Simonetta Fasoli

Dovevamo aspettarcelo: questo governo è pericoloso negli annunci che fa, ma lo è ancora di più quando fa quello che annuncia.

E’ stato da poco emanato un provvedimento del MIM, precisamente il D.M. n. 72 del 11 04 2024 - Piano per la definizione di percorsi educativi e formativi per il potenziamento delle competenze, l’inclusione e la socialità nel periodo di sospensione estiva delle lezioni negli anni scolastici 2023- 2024 e 2024-2025 (c.d. Piano Estate). E’ il caso di parlarne, per i tanti motivi di criticità che presenta.
Già il ministro Valditara aveva preannunciato alcuni tratti della “grande riforma” che qui ritornano sotto forma di percorsi e di risorse finanziarie, in particolare quando aveva affermato con una certa enfasi: "nella legge di Bilancio abbiamo ottenuto lo stanziamento di ulteriori 150 milioni di euro, che sono stati utilizzati per valorizzare il personale della scuola, per favorire una grande riforma che oggi abbiamo lanciato: quella della personalizzazione dell’insegnamento, che prevede l’introduzione del tutor nelle scuole e l’introduzione dell’orientatore, per dare ai nostri ragazzi prospettive di un percorso professionale e formativo che sia realizzante".
Nel Decreto del cosiddetto “Piano Estate” trovano attuazione queste linee ispiratrici, sotto il comune denominatore di un criterio che vorrebbe dar loro nobiltà e spessore: la “personalizzazione dell’insegnamento”. Vale la pena ricordarne le ascendenze: mi riferisco ai Piani di studio personalizzati di gelminiana memoria, che intesero mandare in soffitta come un reperto novecentesco l’impianto pedagogico-didattico della L. 517/77 centrato tra l’altro sull’individualizzazione dell’insegnamento – apprendimento. Non si tratta di astratti nominalismi, ma di una precisa idea di scuola (e di società): da una lato, la scuola “di tutti e di ciascuno”, dell’articolo 3 comma 2 e dell’articolo 34 della Costituzione; dall’altro, la scuola degli individui irrelati, impegnati in una competizione darwiniana, dei pretesi talenti che in quell’ottica altro non sono se non frutti della condizione sociale e dei privilegi di nascita. Non a caso di talenti si parla anche in questo decreto, mentre prende corpo nel Paese e in aree non irrilevanti di opinione il tema speculare dei cosiddetti “plusdotati”: sacrificati, secondo questa querelle, alle esigenze della scuola massificata e dei livelli, a dare retta alla “vulgata”, sempre più bassi dell’insegnamento.
Attorno a questo nodo critico, che è pedagogico e al tempo stesso politico-culturale, girano altri temi non meno rilevanti, tra cui un’accezione di orientamento che è un’altra spia della cultura politica di questo governo, per le idee che sottende e per le implicazioni che comporta. Su questo stesso versante, la strategia ministeriale, come un valente “braccio destro” (mai espressione fu più appropriata…) ha investito anche nel campo delle politiche professionali, prevedendo specifiche figure e funzioni quali il docente tutor e l’orientatore, che vengono così cooptati ed associati all’impresa.

Siamo di fronte ad una delle torsioni di significato cui assistiamo da tempo nell’area delle politiche scolastiche ispirate al neoliberismo (ancora una volta, pensiamo agli antecedenti dei governi berlusconiani…). Il tema dell’orientamento è infatti centrale nell’istruzione e formazione, ma va declinato anzitutto in termini educativi, come ci hanno a suo tempo indicato i Programmi del ’79 della Scuola media, sotto questo aspetto non superati. Parliamo infatti di orientamento “attraverso” le discipline, che dai diversi punti di vista “collocano nel mondo” (Programmi del 79) come a dire che orientano. Possiamo dunque a ragione delineare i connotati di un percorso di orientamento "educativo". Potremmo osservare anzitutto che è tale se prende le distanze da ogni forma, anche surrettizia, di addestramento al lavoro; se è mirato a formare soggetti capaci di riconoscersi parte attiva delle proprie scelte di vita; se, inoltre, non assume il punto di vista del mercato come luogo di incontro della domanda/offerta, sovrapponendo  le esigenze economiciste ai percorsi formalizzati di istruzione/formazione; se, infine, non limita il campo di azione dentro gli  spazi angusti di una idea  di "prossimità", del territorio e delle sue caratteristiche produttive.

C’è da esplorare un altro filone che attraversa in più passaggi il testo del decreto, sotto diverse formulazioni, che si identifica nella “socialità” citata nello stesso titolo della norma: un ambito a maglie larghe che permette di indicare diverse attività di tipo ludico-espressivo, artistico, nella più consolidata classificazione dei linguaggi verbali e non verbali. Qui il terreno si fa più che mai scivoloso, in quanto utilizza i dispositivi e i suggerimenti operativi per farne il grimaldello di una “terziarizzazione” spinta dell’istituzione scolastica. Infatti, in un contesto letteralmente con-fuso non sono chiariti, probabilmente per una precisa scelta di natura politica, i rispettivi ruoli dei soggetti, istituzionali e non, coinvolti nelle attività prefigurate, pur nell’indicazione di alcuni strumenti di gestione ampiamente noti e collaudati (intese, accordi di programma). La scuola sembra essere, volta a volta, il contenitore istituzionale, il terminale amministrativo, il facilitatore neutrale dei processi, quando dovrebbe invece esserne protagonista, privilegiata anche se non unica, nella funzione irrinunciabile della regia educativo-didattica che le assegna il mandato istituzionale.  Insomma, si profila una deriva dell'istituzione scolastica che rappresenterebbe l'alterazione della sua natura pubblica e del suo compito costituzionale. Ben diversamente si dovrebbero porre in essere i molteplici e virtuosi rapporti  tra la scuola e il territorio: la qualità culturale del territorio, che spazia nelle dimensioni della cosiddetta "educazione non formale", può essere una preziosa alleata della scuola e un presidio per l'efficacia della sua azione nell'ambito, che le compete in via esclusiva, dell'educazione formale. Qui c'è altro: c'è il rischio di trasformare la scuola, istituzione della Repubblica, in un grande bazar di “intrattenimento diffuso”.

Sullo sfondo dell’operazione in atto, troviamo i richiami ad una “educazione sentimentale” che sembra essere un’idea dominante nelle scelte politico-culturali di questo esecutivo, tanto da averne fatto materia di uno specifico provvedimento concernente le cosiddette “competenze non cognitive”, che è stato nelle settimane recenti oggetto di audizioni parlamentari in cui sono stati coinvolti anche i soggetti dell’associazionismo professionale. La questione è dirimente e complessa, tanto che richiederebbe uno specifico contributo. Basti, in questa sede, rinviare al documento della presidente nazionale del Cidi Valentina Chinnici, redatto nell’occasione dell’audizione: pregevole per equilibrio, chiarezza e profondità di analisi. E basti sottolineare che l'educazione sentimentale, inquadrata nella cultura politica di questo governo, diventerebbe la prova provata di un sistema scolastico pubblico che sta abdicando alla propria funzione.

Fin qui una ricognizione dei temi essenziali, e di quello che si muove intorno a un testo in sé molto scarno sul piano dei contenuti (caratteristica confermata nella circolare di accompagnamento). Restano da considerarne i risvolti sul versante della gestione politico-amministrativa più direttamente inerenti all’istituzione-scuola e alle politiche scolastiche del lavoro: aspetti non meno rilevanti e significativi della strategia complessiva che viene perseguita. Vale la pena sottolineare ancora una volta, al riguardo, che la distinzione delle diverse dimensioni (pedagogica, politico- culturale, professionale) è utile per una disanima accurata, ma non deve far perdere di vista i molteplici intrecci e i punti di intersezione nei processi innescati, che in un sistema complesso definiscono rimandi ed interdipendenze.

Anzitutto,  va rimarcato il fatto che l’intera operazione costituisce un chiaro vulnus, non il primo e certamente non l’ultimo, per l’autonomia scolastica delineata dal Regolamento (D.P. R. 275/99), elevata a principio costituzionale nella riforma del Titolo V (L. Cost. n. 3/2001) e ulteriormente declinata nelle norme primarie successive. Un esempio, questo decreto 72/2024, di una politica governativa che mette insieme, disinvoltamente, neocentralismo e devoluzione (fino all’esito apparentemente paradossale della cosiddetta “autonomia differenziata”, grande cavallo di battaglia leghista fatto proprio dall’esecutivo). Con tutte le sue ambiguità, con l’incompiutezza che la contraddistingue, non credo vi sia dubbio che l’autonomia scolastica, correttamente intesa e praticata, sia espressione e potenziale realizzazione della libertà di insegnamento sancita dall’articolo 33 della Costituzione. Non fa meraviglia, dunque, che sia oggetto di attacchi politici da parte di un governo di matrice marcatamente illiberale come quello attuale. Questo mi pare il senso di un provvedimento che è scarno (forse anche per la natura dei suoi riferimenti culturali…) ma abbastanza dettagliato nelle sue indicazioni. Non sto parlando, ovviamente, del dettaglio – peraltro solo essenziale – che accompagna la declinazione delle risorse finanziarie, la loro fonte, la destinazione d’uso. Insomma, è una precisa idea di scuola, di educazione, di formazione quella che emerge dal provvedimento: con alcuni passaggi perfino minuziosi, laddove il dettaglio è funzionale all’operazione di controllo centralistico, e altri volutamente lasciati nell’indeterminatezza, se questa si presta a lasciare “mano libera” alle dinamiche tra i diversi soggetti, istituzionali e non.

La scuola del “curricolo di istituto”, dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (art. 6 D.P.R. 275/99) ne esce malconcia. O almeno vittima del noto paradosso studiato dalla psicologia del “doppio vincolo”, che suonerebbe così: “sii autonomo!”.  Chi desse seguito all’invito/ordine, perciò stesso lo sconfesserebbe…
Da questa impostazione discendono rilevanti effetti sulla stessa organizzazione del lavoro, per gli insegnanti e per gli operatori tutti della scuola. La scuola di Valditara, la scuola “bazar di intrattenimento estivo”, che in realtà porta acqua ad un voluto processo di svalutazione della sua funzione e della sua immagine sociale, resta dunque aperta nei mesi di “sospensione dalle lezioni”, come un servizio di supermercato “h24”. O, se volete, come un “luna park” lastricato di buoni propositi educativi, o piuttosto un “distrattore organizzato” che prepara al rientro in cui ci si dovrà misurare con i problemi di sempre: strutture inadeguate o addirittura fatiscenti, risorse impietosamente ridimensionate dai tagli lineari, vistose iniquità di partenza e di esiti  tra territori e all’interno di uno stesso territorio. Tutto questo mentre gli obiettivi di un’educazione davvero democratica ed inclusiva restano mancati, fuori dalla portata del “fare scuola”, nell’ordinario tempo scolastico e nei luoghi deputati. E’ così che la scuola  non funziona come “riparatrice di destini” (nella bellissima locuzione coniata da Paul Le Bohec, allievo di Freinet) ma come cassa di risonanza o addirittura parte attiva di vecchie e nuove diseguaglianze.

“Riparare destini sociali”, creare opportunità laddove ci sono percorsi che sembrano segnati, rimuovere gli ostacoli come afferma il comma 2 all’articolo 3 della Costituzione: un impegno solenne che è anche compito etico. Se questo è l’ordine di grandezza dei problemi, la cura Valditara è come minimo inadeguata.

Scrive...

Simonetta Fasoli Dirigente scolastica, educatrice.

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