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05/05/2024

Le Indicazioni Nazionali: il racconto e il progetto della scuola italiana.

di M. Gloria Calì

Le Indicazioni Nazionali sono un documento rifondativo per la scuola italiana la cui portata, a nostro parere, va oltre il Primo Ciclo d’Istruzione, a cui è direttamente destinata: sono state scritte con una base pedagogica che assegna alla scuola, in forme esplicite e stabilite ex lege, il compito di determinare un atteggiamento civico proficuo per lo Stato intero e per le singole comunità. Il concetto di competenza intesa come approccio ai saperi in quanto agenti di significato, il concetto di conoscenza come azione costruttiva, l’idea che la scuola sia un continuum educativo e culturale che dialoghi con se stessa e con il territorio… sono tratti distintivi delle Indicazioni che dovrebbero stare a fondamento di tutto il sistema d’istruzione, se esso è vòlto ad un* studente che va al mondo con una patrimonio personale intellettuale che gli permette di essere liber*, solidale, emancipat*. Il sapere, infatti, non è un orpello personale, non è erudizione ammirevole ma sterile: è garanzia di crescita individuale democratica e moderna, e insieme collettiva. Questa è la ragione per cui il seminario nazionale del CIDI del 2024 è stato intitolato “Le Indicazioni Nazionali: una bussola per la scuola”, avendo scelto di attribuire al documento un ruolo di guida per la scuola intera[1].

Cercheremo, qui di seguito, di capire, anche attraverso le riflessioni condivise in quel seminario, quanto le Indicazioni siano significative per rileggere la situazione della scuola tutta.

Le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo di istruzione sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 16 Novembre del 2012, come parte integrante del Decreto ministeriale n. 254. Il testo del decreto, che consta di 5 articoli, porta la firma del ministro Profumo, e, subito prima di questa firma, è scritto, con austera solennità: “Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella  Raccolta  ufficiale  degli  atti  normativi  della  Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare”.

Ripartiamo, quindi, dalla domanda, resa legittima dal fatto che le Indicazioni hanno compiuto e superato i dieci anni di vita: il decreto è stato osservato e fatto osservare? Il che, tradotto in termini culturalmente più significativi, vuol dire: “la scuola pubblica di base italiana ha letto, analizzato e fatto proprie le trasformazioni dalle Indicazioni”? Se si procede a ritroso nella lettura delle norme che hanno preceduto e, in qualche misura, preparato l’avvento delle Indicazioni del 2012, comprendiamo che l’obiettivo fondamentale di questa riforma della scuola di base era il suo miglioramento, sia in termini organizzativi, sia in termini di relazione con i territori, sia in termini di funzione formativa ed educativa generale.

Quale direzione dovesse essere impressa a questo miglioramento, lo leggiamo nel primo paragrafo delle Indicazioni, quello intitolato programmaticamente “Cultura, scuola, persona”, in cui si delinea un paesaggio sociale caratterizzato da elementi storicamente molto diversi da quelli in cui è nata la scuola della Repubblica, decenni prima: è chiaramente definita la complessità del sistema di accesso alla conoscenza in cui la scuola è immersa, l’attenuarsi “della capacità adulta di presidio delle regole e del senso del limite”, l’allargarsi del rapporto tra “scuola” e “Mondo”. Queste considerazioni sul contesto riguardano certamente tutto il sistema d’istruzione, giacchè in comune tra tutti gli ordini di scuola è la società, il contesto da cui provengono alunne e alunni.

Nonostante questi elementi esterni di potenziale indebolimento del ruolo costruttivo della scuola, nelle Indicazioni si riafferma chiaramente il legame tra la funzione della scuola e i principi della Costituzione: “La piena attuazione del riconoscimento e della garanzia della libertà e dell’ugua­glianza (articoli 2 e 3 della Costituzione), nel rispetto delle differenze di tutti e dell’identità di ciascuno, richiede oggi, in modo ancor più attento e mirato, l’impegno dei docenti e di tutti gli operatori della scuola, con particolare attenzione alle disabilità e ad ogni fragilità, ma richiede altresì la collaborazione delle formazioni sociali, in una nuova dimensione di integrazione fra scuola e territorio, per far sì che ognuno possa “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società” (articolo 4 della Costituzione).”

Se non fosse chiaro quanto la scuola sia organo costituzionale, il paragrafo “Scuola, Costituzione, Europa”, chiarisce ulteriormente l’interdipendenza tra società democratica e scuola democratica, ribadendo che “La scuola italiana, statale e paritaria, svolge l’insostituibile funzione pubblica assegnatale dalla Costituzione della Repubblica, per la formazione di ogni persona e la crescita civile e sociale del Paese”. Se fosse necessario, si ribadisce che l’impostazione delle Indicazioni sta bene alla base tutta la scuola, prima e dopo il Primo Ciclo.

Abbiamo quindi già una traccia per rispondere alla domanda iniziale, indotta dalla formula di chiusura del decreto in Gazzetta: la scuola può ancora assumere il ruolo che l’impianto delle Indicazioni le hanno assegnato, riscrivendo la propria funzione di costruzione di apprendimenti che garantiscano libertà e uguaglianza, mettendo ciascun* nelle condizioni di leggere, comprendere la realtà e partecipare alla vita associata secondo le proprie possibilità e la propria scelta?

Il seminario nazionale del CIDI si è svolto il 19 Aprile a Forlì; il giorno e il luogo sono frutto del desiderio, rinnovato per il secondo anno, di tenere aperto uno spazio di studio e riflessione in continuità con il pensiero di Giancarlo Cerini, che il 19 Aprile era nato e a Forlì viveva.

Le Indicazioni Nazionali per il primo Ciclo, nella sua formulazione del 2012, ma anche il “prima” e il “dopo”, sono stati dei campi di lavoro per l’Ispettore Cerini in cui egli ha speso energie fisiche, intellettuali, relazionali, per dare alle scuole di base italiane quella consapevolezza necessaria per essere “le scuole delle Indicazioni”.
Il presupposto di questa consapevolezza, oggi come dieci anni fa, è che le Indicazioni non sono un programma ma una mappa (metafora che integra quella di “bussola”) per disegnare un paesaggio in cui i saperi siano elementi di un unico organismo culturale per l’istruzione di base, mappa che va letta ma anche interpretata alla luce delle varianti umane che nelle classi prendono vita. “Ogni persona, a scuola come nella vita, impara infatti attingendo liberamente dalla sua esperienza, dalle conoscenze o dalle discipline, elaborandole con un’attività continua e autonoma.”

A distanza di oltre 10 anni, possiamo dire senz’altro che la mappa è stata disegnata bene, ma la scuola, talvolta si perde. Allora forse le Indicazioni sono inattuali? Sono ancora utili per muoversi in una società che formula richieste nuove, che si apre a spazi di interazione con codici comunicativi ancora non perfettamente definiti da grammatiche normate e insegnabili?
Saranno ancora utili per istruire bambine e bambini, poi adolescenti che non sono più uguali a com’erano oltre 10 anni fa? 

Le Indicazioni sono nate, già nella prima edizione del 2007, come un documento "aperto", da sottoporre a revisione periodica, ed è stato fatto: dopo il documento del 2012 ci sono stati i "nuovi scenari" del 2018. 
Rileggere un documento che è la struttura portante della scuola di base, che è stato il frutto di una commissione articolata composta da esperti di scuola, di didattiche disciplinari, significa fare un'analisi limpida su quanto è stato fatto e quanto va aggiornato, nell'ottica del miglioramento della qualità dell'istruzione. Non significa certo che il documento sia da demolire: s'è già scritto sopra che esso nasce dalla necessità di applicare e rendere operativo il dettato costituzionale, e vedremo in seguito, esso è basato su concezioni di insegnamento/apprendimento proiettate al futuro, ad una scuola sempre più adatta alla complessità del presente, per la (ri)costruzione della società contemporanea.
Per riprendere a leggere quella mappa, e riprendere il cammino verso il futuro prossimo del fare scuola, per il seminario di Forlì sono state individuate alcune parole-guida, ciascuna delle quali ha trovato esplicitazione negli interventi di ciascuno dei relatori [2].

Si proverà adesso a riassumere il senso di un percorso di riflessione che nasce da una preoccupazione, quel “perdersi” che la scuola talvolta mostra: le Indicazioni sono ancora utili per muoversi in una società che formula richieste nuove, che si apre a spazi di interazione con codici comunicativi ancora non perfettamente definiti da grammatiche normate e insegnabili?
Saranno ancora utili per istruire bambine e bambini, poi adolescenti che non sono più uguali a com’erano oltre 10 anni fa?


Il documento, come abbiamo sentito dalla stessa voce di Cerini nel video proiettato all’inizio dell’incontro, realizzato da Ermanno Morello, è orientato in modo da realizzare le discipline come campi di esperienza, non come repertori di informazioni; già in questo, un’impostazione fondamentale proiettata verso il futuro: le Indicazioni realizzano e rendono obbligatorio il passaggio dal programma, come elenco di contenuti, al curricolo, come processo di crescita. Il cambiamento non è solo un ammodernamento terminologico, ma un nuovo impianto strutturale: dalla scuola come istituzione che custodisce e trasmette un sapere elaborato altrove, cioè nell’area accademica, alla scuola che costruisce il proprio sapere in relazione al sistema “classe”, cioè comunità di apprendenti. Le discipline, in questo sistema, sono esperienze di apprendimento che si evolvono verso la formalizzazione senza perdere il legame con la vita degli studenti e delle studentesse.

Come è stato sottolineato nell’intervento di Muraglia e Fasoli, l’elemento fondamentale per costruire questo genere di impianto scolastico è la costante dialettica tra continuità e discontinuità, da intendersi sia secondo un orientamento “orizzontale”, cioè tra le discipline, sia secondo l’orientamento verticale, cioè secondo lo sviluppo dall’infanzia alla secondaria di primo grado.
Superata la logica lineare del programma, resi superabili gli steccati disciplinari, le Indicazioni sono pronte per affrontare la ridefinizione delle epistemologie dei saperi, per indurre gli insegnanti ad esplorare le zone di contatto e commistione, laddove si possono costruire contesti di apprendimento determinanti per la crescita di alunni e alunne che vivono una contemporaneità diversa da quella delle “origini”.

Sì, ma verso dove dobbiamo orientare questa crescita? Chi sono “alunni e alunne”?

La lettura del profilo di uscita delle Indicazioni Nazionali chiarisce benissimo che la bussola e la mappa non servono per trovare un forziere, ma per dare senso al viaggio, che non ha un punto di fine: la mèta è… il mondo intero. Il profilo non chiarisce quanta matematica, o quanta arte debba conoscere chi finisce la terza media, ma spiega come lo studente che ha seguito un percorso scolare dev’essere consapevole di se stesso, di come può proseguire il proprio apprendimento, di come può partecipare alla vita associata in modi e forme appropriate alla propria età.
Se guardiamo bambini, bambine e adolescenti di oggi, indubbiamente diversi da quelli di oltre 10 anni fa, possiamo però riconoscerli nello sguardo delle Indicazioni che, non sono state scritte in funzione di un accumulo di informazioni categorizzate per discipline, ma hanno assunto la prospettiva culturale della consapevolezza e dell’autonomia del conoscere, che si realizza non solo quando “so” e “so fare”, ma anche quando mi trovo davanti un limite. Sono, quindi, ancora una volta, pronte per costruire una scuola per bambini, bambine e adolescenti, che sono in condizioni di crescere secondo le loro caratteristiche specifiche, senza puntare ad un/una studente pieno di “cose sapute”, ma alla definizione di una persona che sta al mondo in modo autonomo, sa leggere e comprendere la realtà, per quanto complessa e fragile, non si disorienta difronte alle scelte, sa imparare ancora, anche fuori dalla scuola.

Per saperi continuamente sottoposti a ridefinizione rispetto al loro valore formativo, le didattiche delineate nelle Indicazioni si presentano con un impianto coerente con quel valore. Il perno è il concetto di laboratorio come ambiente di apprendimento, in cui contenuti, strumenti, materiali sono scelti in funzione di un processo, progettato dal docente, ma realizzato dall’apprendente che, come ha detto Morello in termini chiarissimi, è “autore” del suo stesso sapere. Significa che è l’operaio della propria costruzione e insieme colui che abiterà la casa.
E’ la pedagogia dell’artigianato culturale, in cui il fare si consolida attraverso il tempo e l’esperienza e si affina attraverso la riflessione. Il sapere è un’azione, anzi, una costruzione collettiva, cioè della classe, in cui i singoli abbiano agio di esprimere loro stessi nell’apprendere.


Il codice comunicativo che mette in dialogo i saperi, gli studenti, gli insegnanti è la valutazione. Nel sistema complesso che le Indicazioni rappresentano non c’è posto per una valutazione sanzionatoria e misurativa: quella va bene per il programma, dove è sufficiente misurare le quantità, senza preoccuparsi della fluidità, della stabilità, della potenzialità generativa dei saperi. La valutazione significativa accompagna i processi e considera i risultati “la rappresentazione dei processi” stessi, secondo una felicissima espressione che abbiamo potuto ascoltare nel video introduttivo.
Nell’”Atlante delle riforme (im)possibili, che raccoglie appunti scritti inediti di Cerini, la scheda 14 è intitolata “Una valutazione mite”, titolo che, al seminario, è stato ripreso da Gammaldi [3]. In questo scritto, le posizioni sulla valutazione formativa sono chiare: la valutazione "è una mossa riflessiva e ricorsiva”, che richiede molti strumenti per descrivere la progressiva acquisizione di conoscenze, abilità, competenze, non solo misurarle, rafforzando la partecipazione degli allievi al processo di autovalutazione.” Cerini denuncia le pratiche che “nei fatti impoveriscono la dimensione vera della valutazione (voti, pagella, test standardizzati). Potremmo forse dire che queste pratiche annullano del tutto ogni funzione proattiva della valutazione, aumentando le disuguaglianze tra “chi può” e “chi non può”, schiacciando la prospettiva della persona in apprendimento unicamente sulla prestazione, generando competitività di stampo mercantilistico. Cerini nella scheda propone come “obiettivi possibili”: "l’abolizione della valutazione numerica in tutto il primo ciclo, in favore di una scala a cinque livelli con descrittori chiari" e, soprattutto, l’abolizione delle bocciature, vera scure che si abbatte sui processi di crescita umana e culturale, colpendo soprattutto alunne e alunni che hanno maggior bisogno di una scuola forte nei suoi principi di equità, non di una scuola rigida nelle sue pretese di selettività.
La valutazione significativa accompagna i processi e considera i risultati “la rappresentazione dei processi” stessi, secondo una felice espressione che abbiamo potuto ascoltare nel video introduttivo.

Poiché, citando ancora una volta Cerini, “nessuna scuola è migliore dei suoi insegnanti” occorre ridefinire la professionalità docente che si muove con la mappa delle Indicazioni, ma che va oltre il primo ciclo, giacchè riguarda una professionalità che sa di essere responsabile verso la collettività. Questo movimento dell’insegnare è spinto dallo stesso apprendere: se si legge il profilo di uscita, è chiaro come i traguardi che dovrebbero orientare l’insegnamento/apprendimento siano i saperi in prospettiva di apprendimento permanente e di cittadinanza intenzionale. Poiché, inoltre, il lavoro di ogni insegnante in ogni scuola è parte di un sistema d’istruzione nazionale, per quel traguardo formativo generale, ovvero l’alunna e l’alunno che sanno stare al mondo, l’insegnante contemporaneamente a costruire l’istituzione, in senso locale e, attraverso essa, l’istituzione in senso nazionale.  
Aggiungeremmo anche che, così procedendo nella sua professionalità, l’insegnante contribuisce a costruire se stesso: la “rispettabilità” e la considerazione sociale degli insegnanti è un fatto complesso, ma che non prescinde in nessun caso da come il singolo insegnante interpreta la propria professione, dalla cura che mette nella gestione delle esperienze didattiche che genera in classe. Nessuna burocrazia (o nessun indirizzo dirigenziale…) è peggiore dei docenti a cui è imposta, potremmo dire.

Una professionalità che, invece, consideri se stessa solo con approccio impiegatizio, nella convinzione che il proprio compito, da retribuzione, consista nell’erogare informazioni e misurarne la quantità che resta in chi le dovrebbe recepire, se osservata nelle sue conseguenze sociali, non è un elemento neutro, come si potrebbe pensare. Questa postura contribuisce ad aumentare le diseguaglianze: se non si fa scuola costruendo competenze per il pieno sviluppo della persona, i Pierino e i Gianni crescono nelle rispettive bolle economico-sociali, senza alcuna possibilità di attingere ad una dimensione diversa da quella determinata dalla condizione culturale di partenza.
Entrano in gioco, in questa prospettiva, elementi delicati come l’esemplarità (uso una parola che Giancarlo riferiva agli insegnanti della primaria, ma che possiamo estendere facilmente), la motivazione e la cura del proprio sapere esperto, l’accesso alla professione, la collegialità, delicatissimo aspetto delle relazioni professionali che troppo facilmente è trascurato o mortificato.

Di tutti questi aspetti si è parlato nello spazio della tavola rotonda del seminario, in cui si sono ritrovate le associazioni (MCE, AIMC, ANDIS, Proteo e CIDI, ovviamente) che, in questi anni, hanno lavorato nell’orizzonte delle Indicazioni Nazionali anche facendosi affiancare da Cerini per la riflessione e la formazione di docenti e dirigenti.

Dal confronto sono emerse con chiarezza tutte le manifestazioni reali di quel “perdersi” della scuola di cui si è detto sopra: gli ostacoli che rendono inespresso, ancora oggi, il pieno potenziale delle Indicazioni sono molteplici, e vanno dalla formazione che non è stata sufficientemente ampia e profonda, nelle scuole, all’insufficiente supporto che alle scuole è dato dalla struttura ministeriale, all’impoverimento del ruolo pedagogico e culturale del dirigente scolastico, solo per citare alcune criticità più evidenti. Rendere operative le Indicazioni è un’impresa che non è stata ancora avviata con la necessaria convinzione e diffusione, nonostante la loro grande forza culturale, la loro proiezione verso il futuro.

Se fosse stato facile seguire la mappa delle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo, sarebbe stato fatto, come ha detto Margherita D’Onofrio in apertura del seminario, ma il ritrovarsi a ragionare con profondità su di esse apre la possibilità di una nuova stagione di ricerca su di esse, nelle scuole del primo ciclo, che devono superare sia la paura della burocrazia sia, più profondamente, la paura di una reale innovazione pedagogica. Le Indicazioni Nazionali non sono “prolisse”, ma ricche di spunti culturali da cui partire per costruire i curricoli delle scuole; non sono “burocrazia” proprio perché non sono un programma; non sono “complicate”, ma pronte ad affrontare la complessità crescente del presente.
Il documento prospetta la promozione di una scuola in cui il sapere contribuisce in modo determinante a sviluppare le individualità nell’arricchimento tra diversità. Le categorizzazioni (dei saperi, delle persone), che sentiamo sempre più spesso affiorare nel discorso pubblico come temi, addirittura “valori”, che orientano le scelte politiche, diseducano alla dimensione collettiva del fare e dell’imparare, come ha argomentato Fiorin nel suo intervento iniziale al seminario di Forlì, chiarendo che l’’individualità di ciascuno non si realizza “contro” le altre, o nonostante le altre, ma “con” le altre.  E questo fa la scuola: costruisce apprendimenti comunitari, per le comunità, ed è il suo carattere specifico e insostituibile. Una scuola che non educhi al saper stare al mondo è un addestramento destinato a far fallire se stessa e lo stesso Paese che la concepisce in quel modo.

La scuola di base intreccia la sua storia con la costruzione dell’Italia repubblicana, esplicitando, attraverso la formazione di bambini, bambine e adolescenti, i principi di equità e partecipazione che l’Assemblea Costituente, alla conclusione di una stagione storica segnata dalla disumanità del fascismo e della guerra, ha scelto di mettere a fondamento di uno stato nuovo, inedito, che si costituisse tenendo presente la consapevolezza di ciò che andava evitato e di ciò che andava costruito, per garantire un futuro di progresso e stabilità al Paese.
La scuola che le Indicazioni delineano è “la” scuola, cioè una comunità di soggetti diversi per età, ruoli, condizioni personali e sociali che cooperano, ognuno per la propria dimensione, per la realizzazione di un’impresa collettiva: una Polis fondata sulla libertà e sulla conoscenza.

Abbiamo letto oggi che le Indicazioni sarebbero da "alleggerire e sburocratizzare": senz'altro applicate in forme troppo poco incisive, a noi sembrano da rileggere e da rilanciare, proprio perchè non sono pesante burocrazia, ma contengono in sè già tutti gli elementi della leggera, profonda, insostituibile cultura per la cittadinanza. 

 

Note

[1]  La registrazione dell'intero convegno è pubblicata a questo indirizzo

[2] Su Scuola7, alcuni interventi del seminario. 

[3] Un approfondimento sulla valutazione in prospettiva storica, si articola in questo contributo della stessa Caterina Gammaldi. 

 

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".

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