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16/11/2013

Riflessioni... a freddo

di Maria Luigia Amoroso

È trascorso più di un mese dal convegno CIDI di Montesilvano: una proposta serrata e articolata che ha provocato un pieno di stimoli e riflessioni. Ne sono derivati conferme e qualche scossone oltre che una sequela di dubbi e domande.

Le espressioni chiave che mi tornano più in mente sono: “mettersi in gioco nella relazione”, “il docente allestitore di esperienze”, “l’erotizzazione del sapere”: esse spuntano con insistenza dalla memoria, quella che resta, una volta deposti gli appunti… Nella sostanza sono d’accordo su tutto e, aggiungo, sono anche affascinata dalle suggestioni di risulta. E tuttavia…

“Per fare questo, dovremmo aver risolto i nostri problemi!...” è l’espressione che ho colto dal commento di un collega seduto dietro di me mentre sul palco dei relatori si tratteggiava la figura del docente progettista e regista di dispositivi di apprendimento, una sorta di architetto dell’insegnamento duttile, automonitorato entro un cantiere vivente, instancabilmente aperto alle ristrutturazioni o alla gettata di nuove fondamenta… Nel frattempo io “partivo per la tangente”: mi venivano in mente Foucault e la sua idea di dispositivo, un’associazione sull’onda delle poche cose che so al riguardo. Mi sono detta: se, forti della consapevolezza che viviamo immersi in dispositivi le cui logiche ci sfuggono e al contempo ci controllano, noi docenti riuscissimo davvero a metterne in piedi di alternativi, scientemente ispirati all’articolo 3 della Costituzione, ciascuna classe, ciascuna scuola diventerebbe una bomba di energia, candidata alla “eversione permanente” nella direzione che sola resta a convincerci: quella appunto dell’articolo 3.

In questo frangente, però, l’obiezione del collega fungeva da doccia gelata: per quanto in odore di qualunquismo, in realtà egli toccava un problema di spessore, che mi sembra non abbia trovato spazio nei discorsi dei relatori, impegnati soprattutto a persuadere sulle motivazioni e gli obiettivi delle idee di scuola proposte, piuttosto che a soffermarsi sulle problematiche connesse alla loro realizzazione. E non mi riferisco solo ai problemi del contesto: la formazione, l’organizzazione confacente, le risorse necessarie. Io che sono convinta del valore di quelle tesi e che, con intermittente consapevolezza, sono testardamente orientata a un tentativo (quante volte fallito!) di loro realizzazione, sento l’urgenza di porre questioni da una prospettiva interna, intrinseche all’impostazione e al merito delle proposte stesse, questioni che trovano un punto di sintesi efficace proprio in quella esclamazione del collega…

Convincersi della bontà dei modelli descritti è solo la prima tappa di un cammino che cerca risposte adeguate alla sfida emergente dal degrado contemporaneo, certo un punto d’arrivo difficile da raggiungere perché “alto”, se si considera l’evidente avvenirismo che contraddistingue la proposta rispetto appunto alla realtà sussistente. Ma non è tutto: “dall’interno” di questa prospettiva nasce un intreccio di problemi ancor più difficili da districare, meritevoli quanto meno di un’ analisi accurata, un grande capitolo a parte, che mi auguro venga scritto al più presto.

Disegnando le loro proposte i relatori hanno insistito sul nuovo profilo dell’insegnante: promotore di sapere, egli dovrebbe essere in grado di elaborarne i contenuti attraverso le proprie fibre, così da riuscire a suscitare il desiderio di chi apprende. Per di più, sul piano metodologico insegnare significherebbe condurre un esercizio di inventiva e di trasformazione permanenti di cui il soggetto docente risulterebbe sia animatore sia filtro instancabile e a partire da se stesso… Dunque, in questa accezione “mettersi in gioco” non corrisponde soltanto a un atto di volontà, a una scelta che si possa compiere una volta per tutte: riguarda infatti l’intercettazione dei fondamenti stessi della propria soggettività, un’ermeneutica esistenziale che, diventando fonte e materia di investimento nel lavoro, apre un ventaglio di problemi di conoscenza, consapevolezza e modalità di controllo la cui sola immaginazione è di portata tale da far impallidire. Un docente che abbracciasse una simile prospettiva non potrebbe entrare nel consueto ordine di idee di assumere una metodologia come si indossa un cappello, insomma l’esito semplice di un addestramento: nulla di scontato, nessun assunto quando nella soggettività “esposta” di un individuo-insegnante si evidenziassero e si intrecciassero, insieme con gli entusiasmi di civiltà e le ragioni pensate della sua scelta, anche i suoi nodi, irresoluzioni, fragilità e contraddizioni.

Di qui, credo, l’obiezione del collega e di qui anche le mie domande, inevitabili e sterminate: pur volendolo, e fermamente, lo sappiamo fare? Lo possiamo fare? Come? Pur entrando nella consapevolezza e quindi accettando che un tale processo di verità e di ricerca - in una parola, di vita - comporti necessariamente un margine di incognita, ossia si sostanzi di una materia ineludibilmente variabile e sfuggente, quali le garanzie da individuare comunque e da tenere rigorosamente? Quali gli aspetti da analizzare e monitorare? Quali gli strumenti? Quali i punti di confronto? Quali le chiavi di lettura di ogni autovalutazione?

Insomma un nodo problematico di grande peso, che meriterebbe un dibattito di pareri qualificati. Pur sapendo che questa riflessione coinvolgerebbe forse pochi docenti, si tratta di un passaggio urgente: comunque ne deriverebbe un effetto più esteso, perché si rinforzerebbe il significato stesso delle proposte presentate a Montesilvano, certo indebolite da una simile mancanza.

Scrive...

Maria Luigia Amoroso docente di lettere nella scuola secondaria di II grado, membro della segreteria del cidi di Pescara

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