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08/03/2019

Le rubriche: un ostacolo per la scuola delle competenze?

a cura di E. Aquilini, M. Berni, S. Sacchini, C. Testi

Il testo qui proposto è la sintesi del lavoro di un Gruppo di riflessione nell'ambito del seminario "Come sviluppare una scuola inclusiva per competenze?", che  si è  svolto presso il cidi di Firenze il 27 gennaio 2019. Vedi qui le sintesi degli altri gruppi di lavoro.

Per affrontare il problema delle “rubriche” in relazione al loro valore didattico, ci siamo basati sul libro di Mario Castoldi, Costruire Unità di apprendimento, Carocci 2017, che ne teorizza la necessità, per mettere al centro del fare scuola il concetto di competenza.  Quest’ultima è vista come l’emblema della complessità in quanto non è il risultato aritmetico di una somma di aspetti (conoscenze, capacità, atteggiamenti) che pur la connotano, ma un modo esperto di affrontare i problemi e risolverli.
In rapporto al concetto di competenza vengono riportate, a partire da ricerche internazionali ed europee degli ultimi anni, alcune delle componenti che caratterizzano il concetto di ambiente di apprendimento.

Viene quindi proposta una sintesi di alcuni principi guida per un ripensamento degli ambienti di apprendimento allo scopo di permettere un lavoro formativo fortemente legato con la realtà, la costruzione piuttosto che la riproduzione delle conoscenze, la possibilità di affrontare compiti autentici con una varietà di strumenti informativi e di risorse, in collaborazione tra pari, attivando riflessione e metacognizione in attività di apprendimento guidato o di problem solving. Sia i modelli di ambiente di apprendimento sia i principi guida per un ripensamento dell’aula riconfermano la variabilità delle relazioni e delle interazioni che si possono realizzare tra le componenti del concetto di ambiente di apprendimento che viene proposto di gestire attraverso i due dispositivi per la progettazione di unità di apprendimento: la progettazione a ritroso e la flipped classroom (FC). In entrambi i casi, molti dei principi su cui si basano i due dispositivi sono condivisibili.
In particolare, per quanto riguarda la FC, per esempio, sono condivisibili: la ricerca del superamento della tripletta ciclica della didattica scolastica: spiegazione, assimilazione, valutazione; il superamento del libro di testo come mediatore privilegiato e quasi unico tra quanto fatto in classe e il da fare a casa; la necessità della rielaborazione e comprensione profonda della disciplina e della personalizzazione dei percorsi;  la maggiore importanza data alla valutazione formativa per l’apprendimento. Allo stesso tempo, però, c’è il forte rischio di applicazioni meccaniche dell’inversione temporale tra il momento di acquisizione dei contenuti (da fare a casa) e il lavoro di rielaborazione dei contenuti stessi (anche questo da fare a casa) e di un approccio sostanzialmente enciclopedico proprio a partire dalle prime fasi dei percorsi di apprendimento. Crea inoltre dubbi la possibilità di attivazione della FC con studenti dai livelli scolari più bassi o con bisogni educativi speciali.

Condividiamo con Castoldi l’idea che la “logica della complessità” richieda un differente approccio rispetto a quella del “rapporto lineare tra i momenti del progettare, dell’agire e del valutare”, e che è certamente fondamentale la “conversazione riflessiva” con l’esperienza professionale. La locuzione “razionalità tecnica”, intesa come lo strumento idoneo ad affrontare quel rapporto lineare di cui sopra, tipico del comportamentismo e della “programmazione per obiettivi”, stile anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, viene quindi contrapposta (una dicotomia tutta da dimostrare) alla logica della “complessità”. Sembra quindi che l’utilizzo di una razionalità tecnica, secondo il senso letterale del termine, escluda la presa d’atto della complessità, e, viceversa, la presa d’atto della complessità escluda l’utilizzo di un atteggiamento di razionalità tecnica.
Nei documenti proposti (esempi di schemi di progettazione di UdA e di rubriche di valutazione) tuttavia sembra che si re-introducano proprio quei criteri di “razionalità tecnica” (che si volevano contrapporre alla “logica della complessità”) proprio per “dominare” la complessità stessa!  È condivisibile l’idea di affrontare la complessità con una molteplicità di strumenti tra i quali una componente di razionalità tecnica ma non per coltivare l’illusione di “dominare” la complessità, quanto piuttosto per orientarsi all’interno di essa, insieme ad altri strumenti, che coinvolgono anche altri fattori (per esempio empatici ed emotivi), talvolta di natura più qualitativa che quantitativa, e sicuramente con una forte componente riflessiva.

L’autore, citando Massimo Baldacci, propone tre tipologie progettuali:

  • le unità didattiche
  • i moduli
  • i progetti didattici (UdA)

preferendo gli ultimi (UdA) alle prime due.  Tuttavia, anche qui, emerge una ulteriore contraddizione, perché dopo aver parlato di “circolarità” tra i momenti del progettare, dell’agire e del valutare, caratteristici della logica della complessità, contrapposta alla sequenza cronologica e logica di tipo lineare tra questi momenti, propone una “progettazione a ritroso”, “capovolta”, in quanto le questioni valutative sono anteposte alla strutturazione del percorso progettuale in modo che quest’ultimo sia “traguardato” in relazione a un’idea di apprendimento definito e articolato. D’altro canto, a fronte di questa idea di “progettazione a ritroso” ci sono gli studenti ognuno con i propri bisogni, il proprio stile e i propri tempi di apprendimento e pensare che l’insegnante determini a priori le evidenze di accettabilità che consentano di identificare il livello di comprensione profonda raggiunto dagli studenti, appare contrastare appieno con l’idea di una “valutazione e di un percorso didattico formativi”.
Le rubriche valutative proposte, infatti, scandiscono analiticamente i livelli di prestazione attesi rispetto ai diversi aspetti di una comprensione “profonda e raffinata”. Tale scomposizione, esemplificata negli innumerevoli livelli delle rubriche, ha l’ambizione di pianificare e, in un certo senso “dirigere”, anche gli aspetti imponderabili, gli atteggiamenti verso se stessi e verso gli altri. Questo aspetto risulta particolarmente inquietante, perché costruito a prescindere dagli studenti, dal loro rapporto con i contenuti di sapere, perché è l’insegnante che sceglie le attività e le esperienze attraverso le quali “preparare gli allievi a quelle manifestazioni della comprensione profonda che sono state ipotizzate”. Al centro dell’apprendimento/ insegnamento resta dunque l’insegnante e non lo studente. Rimane inoltre intatto lo schema della scomposizione della competenza in conoscenze e abilità, solo che si costruisce la tabella  partendo dalla fine, cioè da quello che si vuole ottenere in termini dei fattori che caratterizzano la  competenza .

La progettazione a ritroso, quindi, seguendo il significato letterale dei termini, non è altro che il permanere su una logica lineare, percorsa in senso inverso. Caratteristica della complessità non è infatti l’inversione dell’ordine di una sequenza lineare, e forse neanche la circolarità, ma il ricorso a modelli di riferimento più adeguati (io scriverei: aperti e provvisori); in passato si è parlato di “apprendimento a spirale”, che sembra essere qualcosa che integra il modello lineare con quello circolare, ma forse neanche questa immagine geometrica è sufficiente; forse è più opportuno pensare a delle reti, con dei nodi A, B, C,…  strade diverse per percorrere i cammini che portano da A a B…; forse modelli per i quali una rappresentazione unidimensionale non è neanche sufficiente, forse ne occorre una di tipo frattale, unidimensionale per certi aspetti, multidimensionale per altri, di dimensione incerta per altri ancora.
Il problema  poi sorge laddove si parla di “[…] esplorazione del costrutto della competenza in chiave formativa e dei modi con cui manifestare la competenza, attraverso compiti autentici/situazioni problema che richiedono la mobilitazione dei propri apprendimenti per essere affrontati”.
È proprio questo il nocciolo del problema: quali apprendimenti, e in che modo appresi, per poter essere mobilitati? Immaginiamo che anch’essi debbano essere stati appresi attraverso la “esplorazione del costrutto della competenza...” ecc.).
E se questo non è avvenuto? E se quelli che si dovrebbero mobilitare fossero “apprendimenti inerti”, a causa del modo in cui sono stati affrontati? Crolla tutto il presupposto! Si badi bene al pericolo che incombe in sede di valutazione: se lo studente non è in grado di affrontare il “compito di realtà” saremmo portati a certificare il mancato raggiungimento della “competenza focus” a base dell’Unità di Apprendimento; quando invece questo insuccesso potrebbe darci, se bene interpretato, l’importante informazione di una misura dell’“inerzia” dei contenuti disciplinari, in conseguenza del metodo utilizzato per affrontarli.

Queste considerazioni fanno nascere l’esigenza che si lavori sulle discipline proprio con lo stesso metodo, ovvero occorre allargare la gamma dei “compiti autentici” (per loro natura interdisciplinari) a “situazioni problema” anche internamente alla disciplina, in cui l’approccio logico-sequenziale, di tipo accademico, sia rivisto in funzione didattica, come sviluppo “complesso” di reti concettuali adeguate all’età, al livello e alle caratteristiche cognitive degli studenti e delle studentesse, con una continua “conversazione riflessiva” tra i contenuti disciplinari, la costruzione delle competenze di cittadinanza e, in secondo luogo, anche di quelle professionali, e infine il contesto di riferimento.

Per esemplificare il nocciolo della questione,  si può considerare l’esempio del quesito OCSE-PISA di pag. 19 e seguenti: si chiede dove posizionare un lampione per illuminare un’aiuola triangolare, e ci si aspetta che gli studenti attivino le loro conoscenze di geometria, arrivando a capire che si tratta di trovare un punto equidistante dai tre vertici di un triangolo, cioè il circocentro. Il successivo passaggio è capire che nella realtà questo può portare, nel caso del triangolo ottusangolo, a dover posizionare il lampione fuori dall’aiuola.
Ma c’è una zona oscura in tutto questo: in che modo gli studenti hanno “immagazzinato” la conoscenza del circocentro, e se non riescono ad attivarla per risolvere il problema dobbiamo concludere che non è posseduta… quale competenza? Il terreno scivoloso della valutazione, è quello dell’assunzione di responsabilità di successi e insuccessi.
Riprendiamo l’esempio del lampione: in coerenza con l’idea di poter ”andare a ritroso” (ma non come unica opzione possibile!) sarebbe interessante proporre il quesito del lampione senza avere come prerequisito la conoscenza del circocentro. Potremmo avere come scopo quello di arrivare proprio alla scoperta di questo punto notevole, ma in ragione della complessità dei processi messi in atto da una vera situazione-problema resta un certo grado di imprevedibilità del corso d’azione; per gestirlo occorre una profonda conoscenza della disciplina, in modo da adattare le proprie conoscenze personali alle tante strade percorse dagli studenti (appunto, la struttura complessa e tortuosa del percorso didattico, e non solo “lineare in senso inverso”…) abbassando, con la competenza di base dell’insegnante che viene via via arricchita dall’esperienza riflessiva, il rischio di mortificare le intuizioni corrette che non vengono riconosciute come tali a causa di una conoscenza rigida e limitata della disciplina (appunto, sequenziale, lineare).

E anche questo attiene alla valutazione, al di là dell’ avere rubriche efficienti di valutazione di singole prove; perché una competenza argomentativa, ad esempio, non viene fuori soltanto da protocolli scritti in forma definitiva, che si possono esaminare con calma a posteriori confrontandoli con una rubrica ben strutturata, ma anche da una discussione in cui l’insegnante ha il compito di stimolare, regolare, anche correggere (con tatto e professionalità)  e contemporaneamente deve assolvere il compito difficilissimo di mettere al vaglio di correttezza e fondatezza in tempi ridottissimi, a volte anche pochissimi secondi, le ipotesi e i ragionamenti fatti dagli studenti.
E quando la discussione prende altre strade, bisogna tenere traccia e ricordare le intuizioni e i contributi positivi magari proprio di quello studente che non riesce mai a prendere la sufficienza ad una verifica.  Perché c’è una competenza che forse non posso certificare, ma che posso intravvedere e valorizzare, perché si espliciti meglio, innescando circoli virtuosi. Ecco, questa è davvero la complessità, che non può essere racchiusa in una progettazione o nell’elaborazione di rubriche; il che non significa che non si debba progettare o che si debba valutare “a occhio”, ma che questi strumenti, che possono essere comunque utili, fanno sempre parte, inevitabilmente, proprio di quella “razionalità tecnica”, che sembrava dovesse essere bandita, e che invece è elemento di supporto alla vera complessità che si crea nella gestione dell’azione didattica, caratterizzata da una ricchezza e contemporaneità di eventi e di processi di difficilissima gestione, e prima ancora, a volte, di non facile individuazione.

Per concludere: ogni forma di progettazione, in quanto strutturata, attiene alla dimensione della razionalità tecnica; la vera complessità dell’esperienza didattica (sia per l’insegnante che per gli allievi) consiste nella gestione e nell’attuazione di quanto progettato, con un sapiente equilibrio tra il rimanervi fedeli e il discostarsene, il saper seguire un filo conduttore e il saper cogliere le occasioni che, digradando un poco, lo arricchiscono di contenuti rendendo ogni percorso didattico un po’ come un’opera sinfonica, un alternarsi di canoni, di regole da conoscere e seguire, e di competente creatività.

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