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26/02/2025

Per la formazione democratica: complessità, significatività del sapere, trasversalità, interdisciplinarità

di Carlo Fiorentini, Maria Piscitelli

La formazione alla cittadinanza dipende ovviamente da molti aspetti, e la scuola è uno di questi. Forse, conta meno del passato, ma può, a nostro parere, fare molto se la formazione alla cittadinanza è intrinseca effettivamente alla vita scolastica quotidiana. Se su determinate problematiche possono essere anche necessarie attività educative specifiche, pensiamo, tuttavia, che la formazione alla cittadinanza possa avvenire soltanto se le materie scolastiche sono insegnate in modo radicalmente diverso dalla scuola tradizionale. E affinché ciò accada, occorre coraggio, bisogna saper osare.

Spesso le discipline scolastiche non sono centrate sull’apprendimento dello studente, ma sulla loro struttura specialistica, enciclopedica, nozionistica, su saperi incomprensibili; saperi manualistici, formalizzati, saperi, cioè, adatti a menti già formate. Difficilmente, data la loro organizzazione in genere tradizionale, possono essere insegnati con didattiche costruttive. Possono soltanto essere trasmessi, in modo illusorio rispetto all’apprendimento degli studenti. Le discipline scolastiche "non sono coinvolgenti, sono noiose, demotivanti", dicono gli studenti, percependole in maggioranza come un muro invalicabile. In effetti esse sono talmente distanti dalle strutture cognitive degli studenti, che faticano a capirle, anche talvolta coloro che sono culturalmente e socialmente avvantaggiati o supportati. Così finisce che la scuola che dovrebbe valorizzare le potenzialità di ogni alunno, accompagnandolo nel proprio cammino di costruzione della conoscenza si trasforma in una scuola per pochi, occultando coloro che verranno selezionati. Per giunta, è, purtroppo, da tempo evidente che:
1) più istruzione, che in parecchi casi significa più formazione specialistica, non coincide con "persona più colta", e soprattutto con "cittadino consapevole";
2) la scuola è per tanti studenti sofferenza, un non senso. Non è un luogo di formazione umana.

Sul piano teorico è abbastanza diffusa la consapevolezza che la scuola potrà essere effettivamente centrata sull’apprendimento degli studenti e sul loro coinvolgimento emotivo, se le scuole e la comunità scolastica nazionale assumeranno una visione complessa e non riduzionista dei problemi dell’insegnamento-apprendimento. Ciò potrà realizzarsi se le discipline non saranno più considerate il fine ma il mezzo indispensabile per la formazione degli studenti. E questo è possibile soltanto conferendo alle discipline una struttura educativa, come J. Dewey aveva magistralmente indicato in "Come pensiamo" [1]:

Naturalmente l’istruzione intellettuale implica l’accumulo e la ritenzione di informazioni. Ma l’informazione è un peso indigesto se non è accompagnato dalla comprensione. Diventa conoscenza solo in quanto il materiale viene compreso. E l’intelligenza, la comprensione stanno a indicare che le varie parti della informazione appresa sono afferrate nella loro relazione reciproca – un risultato che è raggiunto solo allorché l’acquisizione è accompagnata dalla riflessione costante sul significato di ciò che viene studiato. Esiste una importante differenza tra la memoria verbale, meccanica e quella che gli antichi chiamavano ‘memoria giudiziosa’. Quest’ultima afferra anche le conseguenze di ciò che si ritiene e si richiama alla mente, e può quindi usare il materiale anche in situazioni nuove nelle quali invece la memoria verbale non saprebbe assolutamente cosa fare. Si ha dunque ciò che abbiamo detto ‘pensiero psicologico’ proprio quando ha luogo un processo effettivo di pensiero.

Negli ultimi decenni sono state realizzate numerose sperimentazioni a misura dello studente via via collaudate sul campo, ottenendo ripetutamente ottimi risultati in termini di sviluppo delle competenze; purtroppo è mancata una valorizzazione istituzionale. In parallelo si è continuato a praticare il riduzionismo storico, fondato sulla centralità della struttura accademica delle discipline. La sua persistente presenza ha privilegiato l'acquisizione di una quantità di nozioni, talvolta pure obsolete, incentivando l'esecuzione meccanica dei compiti assegnati, forme di memorizzazione fini a sé stesse e comprensioni superficiali dei contenuti proposti. D'altro canto, l'elaborazione individuale e ponderata dei concetti e una loro investigazione profonda, che sono alla base dello sviluppo del pensiero riflessivo, sono rimaste in disparte.
Il principale ostacolo a una scuola "significativa" è costituito dall’illusione enciclopedica che si traduce generalmente in un insegnamento nozionistico e trasmissivo. Scriveva E. Codignola nel 1949, nell’introduzione a Esperienze e Educazione di J. Dewey[2]

 La vera originalità della pedagogia attiva è nel bando dato all’ideale enciclopedico, il vero cancro della scuola moderna, nel nuovo spirito introdotto nelle relazioni tra insegnante e alunno, nella rivoluzione copernicana che ha fatto del discente e delle sue esigenze vitali il vero centro dell’attività didattica. 

Per elaborare ipotesi appropriate per la costruzione di una scuola "significativa", le cono­scenze disciplinari rappresentano indubbiamente un prerequisito irrinunciabile. Anche se di per sé si rivelano cieche di fronte alle problematiche educative, alle difficoltà di compren­sione di chi apprende. Un punto, quest'ultimo non secondario, che meriterebbe un'accurata riflessione. Difatti, affermare che i saperi sono irrinunciabili appare superfluo, contrariamente non lo è quando invochiamo un sapere "formativo". Con questo termine, ci riferiamo al ruolo formativo delle conoscenze che si esercita se si individuano essenzialità conoscitive disciplinari pertinenti alle varie età e se si stabiliscono attraverso il sapere (adeguato, generativo e motivante), canali di comu­nicazione con colui che apprende sì da attivare forme di interiorizzazione ed elaborazio­ne personale del sapere. Gli strumenti culturali per farlo ci sono. I principali sono, ad esempio: l’epistemologia e la didattica disciplinare da una parte e le scienze dell’educazione, ed in particolare, la psicologia dell’educazione e la pedagogia, dall’altra.

Un simile orientamento implica la riconfigurazione dello statuto epistemologico della disciplina in un orizzonte non più specialistico, ma pedagogico-didattico, la cui significatività discende dal rispetto di un doppio vincolo: culturale (saperi essenziali) ed edu­cativo (psicologico, pedagogico e comunicativo-relazionale). Relativamente alla riconfigurazione dello statuto epistemologico della disciplina in un'ottica educativa abbiamo già un esempio in ambito linguistico, risalente agli anni '70. Si tratta di un documento all'avanguardia, che ha precorso i tempi e intuito il potenziale educativo della conoscenza. Stiamo parlando delle Dieci Tesi sapientemente scritte da T. De Mauro e dal Giscel: un vero e proprio manifesto dell'educazione linguistica democratica che ha informato quasi tutti i programmi e “contaminato” le “buone pratiche” e gli indirizzi successivi (1979, 1985, 1989/1991, 1997/1998, 2001, 2007, 2012), costituendo tutt'oggi un punto di riferimento. Con le Dieci Tesi si disegna, infatti, un progetto di alto spessore culturale, rigoroso e ad ampio respiro, per la creazione di una scuola democratica capace di dare a tutti strumenti linguistici di cittadinanza.  Il prezioso testo, permeato di una filosofia educativa e di una sensibilità pedagogica, ha posto sul tappeto questioni cruciali dell'insegnamento e apprendimento, offrendo indirizzi e orientamenti possibili. In esso sono racchiusi i principi portanti di un insegnamento educativo, in grado di migliorare i livelli di conoscenza di ogni apprendente nel rispetto delle sue peculiarità e bisogni (cognitivi, rappresentativi, sociali, estetici…). Principi ispirati, scrive C. Lavinio [3], da una parte "a punti fermi della ricerca sul linguaggio e sul funzionamento delle lingue", dall’altra "a un impegno e a una passione civile che abbiamo visto viva e presente nell’estensore primo delle Dieci Tesi, cioè in Tullio De Mauro"

Pur necessitando di alcuni aggiustamenti e adeguamenti ai tempi mutati, il documento resta, ancor oggi, il cardine di ogni insegnamento linguistico, oltre che una summa di principi teorici profondi a garanzia dei diritti di ogni individuo nell'essere uguale grazie alla padronanza linguistica. Difatti oltre a ritenere il linguaggio uno dei fattori decisivi per lo sviluppo dell'individuo e del cittadino, mostra un particolare interesse all'intera personalità del soggetto, non escludendo il mondo sensibile ed emozionale, quello sociale e relazionale.

 Tuttavia, dobbiamo a malincuore riconoscere che, nonostante la spinta propulsiva delle Dieci Tesi (lavoro sulle abilità linguistiche, di studio, tipologie testuali…), i riscontri nelle pratiche di classe sono stati esigui. Le ragioni dei mancati risultati che hanno causato non pochi problemi sul piano dell'apprendimento linguistico in molti studenti italiani, non possiamo analizzarle in questo contributo. Con molta probabilità, in questo insuccesso hanno inciso più fattori, dalla debole presenza di progettualità didattiche nelle scuole alla mancata volontà istituzionale di metterle a sistema e creare così le condizioni necessarie per attrezzare didatticamente i docenti (formazione permanente, istituzione di laboratori di ricerca e sperimentazione didattica nelle scuole, protocolli di collaborazione con le Università, riconoscimenti mirati ai docenti-ricercatori, monitoraggio e documentazione dei contributi di ricerca e degli esiti concretamente raggiunti dagli allievi, …). Con lo scorrere del tempo anche le passioni didattiche si sono lentamente affievolite, oscurate frequentemente da altre priorità e da una folta schiera di soggetti che hanno suggerito tendenze dirette a privilegiare aspetti a nostro avviso marginali per la scuola. All'interno di esse sono fioccate miriadi di proposte o soluzioni didattiche che di fatto hanno diffuso metodologie, tecniche, progettualità… di ogni tipo, frequentemente scollate dal fare scuola quotidiano.

Fra queste proposte spicca quella dell'interdisciplinarità, che ricorsivamente viene indicata fin dai livelli iniziali della scolarità come strategia importante per dare un senso a saperi formali disciplinari, di per sé poco motivanti e comprensibili. Le motivazioni sottese sono nobili, anche perché con questa proposta si mira a superare «la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme». Pertanto esigenze di questo tipo, che aspirano a "ricomporre nell'insegnamento i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia - in una prospettiva complessa" [4] sarebbero del tutto condivisibili, se non sorgessero tuttavia dubbi sulla possibilità di realizzazione. Ne esplicitiamo alcuni: come può l'interdisciplinarità attribuire un senso a insegnamenti disciplinari formali, incomprensibili a numeri estesi di alunni? Come possono i docenti far parlare tra loro saperi diversi, quando faticano a far dialogare le conoscenze all'interno della materia che insegnano (vedi lingua italiana: ora di grammatica, di antologia, di storia della letteratura, laboratorio di scrittura, lettura…). In classe vige frequentemente il principio di separazione e non di integrazione. Inoltre, la ricerca di convergenze, incontri o scontri che facciano parlare tra loro linguaggi e mondi culturali vicini o lontani, senza cadere nel senso comune, non è semplice.

E ancora, come si potrebbero gestire conoscenze disciplinari afferenti ad ambiti diversi, essendo ancora vivacemente radicato e condiviso l'enciclopedismo didattico? Insomma, se applicassimo l'interdisciplinarità all'esistente, probabilmente si trasformerebbe in una strategia di accumulo di ulteriori nozioni. E sappiamo bene che acquisire conoscenze non significa “affastellare informazioni”, né tanto meno rappresenta un processo di accumulazione come sovente accade nella scuola. Significa invece organizzare e integrare, in un contesto di costruzione, le conoscenze, generando competenze.

Potremmo porre altri interrogativi sulle contraddizioni che si verrebbero a creare con l'attuazione di quest'approccio culturale, ma il ragionamento di fondo da fare è che la proposta dell'interdisciplinarità evita di affrontare il problema centrale, quello di individuare un’organizzazione "educativa" di saperi disciplinari adeguati agli studenti delle varie età, sul piano motivazionale e cognitivo. L’interdisciplinarità presuppone nello studente determinate e solide conoscenze nelle discipline, altrimenti rimane su carta. Proposta diversa è la multidisciplinarità, che è la lettura di un determinato tema da più punti di vista disciplinari. Ma anch’essa rimanda al nodo precedentemente affrontato delle significatività formativa delle singole discipline per non ricadere nella banale sommatoria di vari nozionismi disciplinari.

A questo punto, riportiamo le considerazioni di H. Gardner[5] che sembrano a tal proposito illuminanti:

Ma lo studio interdisciplinare non può rappresentare il punto di partenza. Il collegamento produttivo di una pluralità di discipline è possibile solo dopo che ci si sia impadroniti di più discipline. Queste riflessioni appaiono in contrasto con la diffusa invocazione di curricoli integrati, tematici e interdisciplinari da attivare fin dalla scuola elementare o dalla scuola media. Personalmente non ho obiezioni da fare a queste proposte, che spesso sono preparate con molta cura e riescono decisamente stimolanti per i giovani. Le mie riserve riguardano la tesi che esse debbano considerarsi interdisciplinari. La mia obiezione è, in breve, la seguente: di “interdisciplinarità” si può parlare solo dopo che si sia acquisita buona padronanza di una pluralità di disciplini particolari e che si sia imparato a farle collaborare convenientemente (…) Questa sintesi interdisciplinare è assolutamente impossibile per la grande maggioranza degli studenti della scuola elementare e media come per la maggior parte dei loro insegnanti. Secondo me i cosiddetti curricoli interdisciplinari in realtà non sono altro che attività di senso comune o “protodisciplinari”.

A conclusione del nostro ragionamento, partito da lontano, e al seguito delle osservazioni emerse, vorremmo ribadire che per attuare una scuola che doti i propri studenti di conoscenze di cittadinanza, occorre prioritariamente risolvere il problema centrale, precedentemente accennato, per poi creare le condizioni di realizzazione operativa.

 

Note

[1]  J. Dewey, "Come Pensiamo", Firenze, La Nuova Italia, 1961, pp. 147-148.
[2]  E. Codignola, "Introduzione", in J. Dewey, "Esperienza e educazione", Firenze, La Nuova Italia, 1949, p. XIV.
[3] C. Lavinio, Per un rilancio dell’educazione linguistica democratica”, Trieste, Istituto Gramsci, 2015, p. 31
[4] Indicazioni Nazionali 2012.
[5] H. Gardner "Sapere per comprendere", Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 230, 231.

 

Scrivono...

Carlo Fiorentini Già insegnante di chimica nella scuola secondaria di secondo grado, svolge da molti anni attività di ricerca, di sperimentazione e di formazione in servizio sul curricolo verticale delle scienze sperimentali. Presidente del Cidi Firenze.

Maria Piscitelli Già docente di lettere nelle scuole secondarie di secondo grado, successivamente distaccata all’IRRE Toscana. Svolge attività di consulenza, ricerca, sperimentazione sul curricolo verticale di educazione linguistica nei vari livelli scolari. È vicepresidente del CIDI di Firenze.

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