In una canzone di Franco Battiato (L’oceano di silenzio) si ascoltano questi tre versi.
Cosa avrei visto del mondo
Senza questa luce che illumina
I miei pensieri neri
Sono 37 anni che lavoro nella scuola e anche a me capita di chiedermi: “Cosa avrei visto del mondo? Quale sguardo avrei rivolto alle cose? Con quale atteggiamento mi sarei posta di fronte alle situazioni, se non avessi lavorato a scuola?”, Ma poi mi accorgo che queste domande sono mal poste, che non sono le domande giuste, che non sono complete. Perché ciò che vedo del mondo, lo sguardo che rivolgo alle cose, l’atteggiamento con il quale mi pongo di fronte alle situazioni non derivano dal fatto di lavorare a scuola. O almeno, non solo da quello. La chiave che ha cambiato radicalmente il mio modo di lavorare a scuola e, nel far questo, ha modificato lentamente ma in maniera irreversibile il mio essere come persona, è stato l’incontro con il CIDI e la scoperta di una dimensione professionale fino a quel momento a me sconosciuta: la ricerca didattica. Fino a quel momento (ed erano già circa dieci anni che lavoravo) non ero contenta del mio modo di stare a scuola, cercavo ricette, soluzioni, mi affidavo di volta in volta a colleghe più esperte, a metodi innovativi, studiavo (mi ero iscritta all’Università) ma a fronte di un iniziale entusiasmo, ritornava ogni volta quell’insoddisfazione di fondo che mi spingeva a cercare ancora. Il Cidi non mi ha dato soluzioni; paradossalmente mi ha “creato” problemi che non sapevo di avere. Una giovane collega, in uno degli incontri del Gruppo di ricerca che si sono tenuti quest’anno, dopo una presentazione in plenaria, ha iniziato il suo intervento dicendo: “Ogni volta che si viene qui, si scopre di non aver capito nulla della scuola”. Ma lo ha detto sorridendo, soddisfatta. Questo è il paradosso che ho vissuto anche io: un paradosso nel quale mi sono trovata a mio agio. Fino a quel momento credevo di non sapere abbastanza, di non essere capace. L’incontro e il confronto con colleghe e colleghi mi ha fatto capire che quello che sai, quello che hai imparato, non ti mette al riparo, non ti conferma in ciò che hai sempre pensato, ma ti apre gli occhi sugli errori che hai commesso, sulle cose che avresti potuto/dovuto fare per ottenere risultati migliori. E questo (altro paradosso) non ti abbatte, non ti demoralizza. Per dirla ancora con Battiato: “Mi spinge solo ad essere migliore” in una ricerca continua e infinita che diventa l’essenza del tuo lavoro. Cos’è che fornisce stimoli invece che delusioni? È la consapevolezza di non essere da soli in questo percorso. È vedere intorno a te altri che come te, sono alla ricerca, fanno ricerca. Che l’hanno fatta da tanti anni e continuano. È la sicurezza che deriva dal sapere che i risultati di quella ricerca individuale saranno messi a disposizione di tutti, che potrai avere consigli, suggerimenti, suggestioni da parte di persone che con te condividono un linguaggio, un approccio; che insieme a te costruiscono uno sguardo sempre più profondo, sempre più aderente alla realtà della scuola, senza mai pretendere di essere esaustivo. Si dice che tutto questo gli insegnanti dovrebbero trovarlo a scuola. Ma quale scuola ha la volontà, prima ancora della capacità di affrontare un percorso di questo tipo? Le scuole sono fatte di tante componenti e la loro combinazione in senso progressivo è così rara come quelle configurazioni astrali che si verificano una volta ogni centinaia o migliaia di anni. Se ci sono docenti pronti, non è pronto il dirigente; se c’è un dirigente capace, gli insegnanti non lo seguono; se si inizia un lavoro in questo senso intervengono trasferimenti o pensionamenti che indeboliscono il gruppo. E così via in un’infinità di intrecci il cui risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Cosa ne è dei dipartimenti che pure avrebbero dovuto rappresentare i luoghi della ricerca e della sperimentazione delle scuole? Cosa ne abbiamo fatto? In cosa li abbiamo trasformati? Nella stragrande maggioranza dei casi le scuole li hanno “digeriti” come hanno imparato a fare con qualunque innovazione si presenti: li hanno resi innocui, fastidiosi e inutili, strumenti di una burocratizzazione della didattica di cui nessuno sentiva la necessità. Le conseguenze sono evidenti: una didattica tradizionalista camuffata da curricolo attraverso l’uso di parole d’ordine che hanno perso il loro significato. Ma di ricerca c’è bisogno se non vogliamo rassegnarci ad una scuola bifronte che confonde e sconcerta invece di formare. Da un lato un approccio tradizionale fatto di discipline e disciplina che si spalleggiano a vicenda sulle teste distratte dei bambini e dei ragazzi; dall’altra uno spontaneismo improvvisato che ricerca il consenso inseguendo mode spacciate per curiosità, interessi dei bambini e dei ragazzi. Ma né l’una né l’altra funzionano. Insieme poi costruiscono un mix pericoloso e nocivo. Le discipline hanno un senso quando incontrano i bisogni di conoscenza e di crescita dei bambini e dei ragazzi; la curiosità va saputa gestire a fini formativi perché altrimenti finisce per incrementare disattenzione e superficialità. Neanche il più preparato e serio degli insegnanti può farcela da solo. Per questo risulta fondamentale ancora oggi e sempre trovare spazi di condivisione, luoghi di confronto vero su ciò che di vero c’è a scuola: la didattica e la relazione. Io l’ho trovato nel CIDI di Firenze. È con loro che da quasi trent’anni discuto, rifletto, studio, progetto, metto in pratica e verifico i risultati del mio lavoro. È lì che ogni volta capisco quanto non so fare ma trovo la voglia di provare a fare meglio. In un tempo così precario, così difficile come quello che viviamo, la scuola è ricerca o non è. E proprio per la complessità del nostro tempo c’è bisogno di scuola. Ma di una scuola che riflette, che non si lascia incantare dalle meteore che attraversano il suo cielo, lucenti, brillanti ma effimere. Di una scuola che cerca e ricerca metodi, strategie, che si fa aiutare da esperti ma che è in grado di rielaborare le proposte teoriche trasformandole in percorsi didattici significativi per i bambini e i ragazzi cui sono destinati.