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05/05/2022

Il decreto legge n. 36/22 in Gazzetta ufficiale

di Caterina Gammaldi

Mentre si avvia in Parlamento la discussione sul decreto legge  avente per oggetto "Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza"   (Al capo VIII, gli articoli dal 44 al 47 si riferiscono all’istruzione)   leggo   dichiarazioni, comunicati stampa,  documenti, vedo iniziative di mobilitazione di numerosi  soggetti che, a vario titolo, sono o non sono coinvolti nel processo di riforma di sistema che introduce, tra l’altro,  nuove norme per regolare i percorsi  di "formazione iniziale e continua" degli insegnanti. Le osservazioni che seguono rappresentano il punto di vista di una ex insegnante (40 anni di  servizio, ora  in quiescenza), per 16 lunghi anni componente dell’allora CNPI (presidente del COSME e dell’ufficio di presidenza), eletta in una lista congiunta del sindacato e di una associazione professionale a rappresentare gli insegnanti della secondaria di primo grado.

I futuri insegnanti

Meriterebbe ricostruire le scelte che sono intervenute negli anni a modificare l’accesso all’insegnamento dopo un percorso di laurea quadriennale o quinquennale. Mi limito ad osservare che, mentre cambiava il modello, i percorsi di laurea rimanevano gli stessi, fondati sulle discipline di riferimento perché, si sa, il sapere disciplinare è a fondamento di tutti i  profili professionali.
Negli anni, anche a causa dei cambiamenti intervenuti nel sistema di istruzione (gli ordinamenti didattici) e dei contributi degli studi sull’apprendimento, sono stati proposti percorsi universitari  (crediti formativi, corsi di perfezionamento) finalizzati a fornire ai futuri insegnanti approcci metodologico-didattici che potessero accompagnarli nella progettazione curricolare e nella valutazione o nella conoscenza delle problematiche dell’apprendere in contesti formali, a scuola. Il fabbisogno di insegnanti è stato colmato con concorsi non regolari alimentando il precariato. Ricordo che per una supplenza il titolo di accesso è la laurea. Il concorso interviene dopo anni a sanare l’impiego di laureati nel difficile mestiere dell’insegnare.

Questa premessa mi sembra utile per commentare il decreto legge considerando alcuni aspetti  prefigurati nel testo di legge. La formazione iniziale  spetterà  all’università e all’AFAM, ai centri didattici di ateneo con l’obiettivo di “sviluppare e valutare il nuovo profilo culturale e professionale dei futuri insegnanti” fino all’abilitazione all’insegnamento, tutte azioni  di competenza dell’Università, che può avvalersi del contributo della scuola (tutor). I criteri di selezione degli “insegnanti”, le azioni di tirocinio diretto e indiretto andranno definiti in una norma successiva. Il fabbisogno di insegnanti sarà comunicato annualmente  dal ministero dell’istruzione a quello dell’Università e della Ricerca.  

Decisivo sarà dunque  il ruolo delle Università e dell’ AFAM nei percorsi di formazione iniziale, determinante potrà essere anche quello delle scuole se saranno messe in condizione di essere, anche in rete,  laboratori di ricerca didattica, utili per alimentare il  sapere professionale.
Ma … i curricoli universitari non sono in discussione e quelli scolastici a cui peraltro si fa riferimento,  si ritrovano in norme emanate fra il 2007 e il 2012  con approcci disciplinari diversi, esito di stagioni politiche che hanno influenzato le scelte.  Una palese contraddizione emersa anche nei recenti concorsi,  i cui Programmi hanno a fondamento la dicitura “conoscenze e competenze disciplinari per ambiti tematici” non tutti riconducibili agli ordinamenti didattici vigenti. Il profilo culturale e professionale degli insegnanti della secondaria di primo e secondo grado  è implicito. Si ricava dall’alleato A, un elenco di  “requisiti culturali e professionali” deducibili dalla normativa di riferimento e dagli studi in materia di progettazione curricolare e valutazione e apprendimento. Di tali aspetti non c’è traccia nelle recenti prove a scelta multipla di tipo nozionistico.  Tanto per sottolineare la riscrittura discutibile  del profilo culturale e professionale, ad oggi descritto all’art. 27 del CCNL.
Esprimo dubbi che il modello possa funzionare senza considerare la separatezza fra sapere accademico e professionale, che segnalo da anni.

La manutenzione del profilo, ovvero la formazione continua incentivata

L’antica questione se la formazione continua sia un obbligo o un diritto – dovere torna immutata. Si profila un conflitto di competenza sul terreno della contrattazione su detto profilo, sulla facoltatività - obbligatorietà della formazione , sulla valorizzazione degli insegnanti con relativo incentivo, sugli sviluppi professionali (tutor e menthor), sulle  figure di sistema, di staff, ivi comprese le  e funzioni sostegno delle azioni progettuali, di valutazione e  miglioramento, tirocinio (PTOF -RAV- PdM – PON – progetti europei).

Sostenere che la formazione sia un istituto contrattuale non è in discussione, ma altrettanto sarebbe importante riconoscere che la cura del sé professionale dovrebbe privilegiare l’attenzione al contesto. Vanno discussi, monitorati e superati  i modelli diffusi (prevalentemente lezioni frontali con esperti). La formazione continua, in servizio, merita cura dei processi di insegnamento – apprendimento. Il cuore rimane il cosa e il come insegnare alle diverse età, la riflessività, la collegialità degli interventi.

Le scuole, le associazioni professionali (attualmente soggetti qualificati in futuro … enti accreditati) sono, dal mio punto di vista,  gli unici  contesti riconoscibili  come luoghi deputati alla riflessione sulle problematiche educative e alla ricerca didattica applicata. Una scelta di questo tipo avrebbe il merito di guardare non ai singoli insegnanti ma al corpo professionale nel suo insieme, rafforzando la progettualità  delle scelte nei consigli di classe e nei dipartimenti disciplinari.

L’individuazione per decreto di alcune  competenze trasversali che si riferiscono alle “ metodologie didattiche innovative, alle competenze linguistiche e digitali” alimenta di fatto  le scelte individuali , come si può dedurre dall’elenco dei temi a cui i singoli insegnanti potranno fare riferimento durante tutto  il percorso professionale.
Nulla si dice sul superamento di un approccio trasmissivo, sulla interconnessione  fra i saperi disciplinari per l’educazione alla cittadinanza. A meno che non si pensi che basta fornire alcune indicazioni di metodo per allestire ambienti di apprendimento inclusivi e lezioni efficaci.

 Eppure la funzione docente, che discende dall’art. 33 della Costituzione,  si fonda “sull’autonomia culturale e professionale dei docenti e si esplica nelle attività individuali e collegiali e nella partecipazione alle attività di aggiornamento e formazione in servizio” (CCNL).
Sono discutibili scelte centralistiche in capo alla costituenda  "Scuola di alta formazione", i cui componenti sono di nomina ministeriale, con compiti di indirizzo, di individuazione dei temi, di operazioni di riaccreditamento degli enti, di individuazione standard professionali definiti nel confronto con i sistemi educativi europei, che sull’insegnamento, sui curricoli  hanno storie diverse,  non in discussione.

Inoltre,  dopo il tentativo maldestro di allocare risorse per la formazione sul territorio, dopo aver introdotto la card e un sistema di accreditamento (piattaforma SOFIA) che nessuno ha monitorato si decide di tornare a operazioni  gestite del centro con la pretesa di formare un numero esteso di insegnanti,  incentivandone solo la metà sulla base di una richiesta individuale  di valutazione e di relazioni in itinere e finali sul percorso formativo svolto.
Avremmo preferito una formazione continua capace di fornire strumenti  sul curricolo di scuola, sui problemi reali di chi apprende.

Gli incentivi

Se si legge il decreto con attenzione si scopre che gli incentivi, sia nella fase transitoria che a regime, privilegiano una tesi che guarda esclusivamente o quasi alle competenze professionali riferite ad aspetti organizzativi, progettuali, di sostegno alle azioni delle attività di direzione e coordinamento del dirigente scolastico.
I riferimenti al Collegio docenti appaiono in controtendenza rispetto al principio che lo individua come organo tecnico che fa crescere la  come comunità professionale. Sembra non esserci spazio per un riconoscimento della qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, del lavoro in classe. La mia preoccupazione è alimentata dai compiti burocratici amministrativi,  che gravano sulla professionalità insegnante.

Vorremmo ricondurre il merito, non la meritocrazia, ai “capaci e meritevoli” che la Costituzione sceglie per il diritto allo studio  perché credo di poter dire che gli studenti, tutti, meritano docenti competenti, capaci di creare le condizioni per apprendimenti significativi.
Riconoscerne una parte dovrebbe portare non a nuove gerarchie. I bravi insegnanti devono poter essere leva per il miglioramento delle istituzioni scolastiche in cui lavorano, riconosciuti dai colleghi. Il riconoscimento e la valorizzazione funzionano se fanno  perno sulle attività che assumono lo studio, la ricerca, l’esperienza per far vivere una scuola,  in cui il diritto all’istruzione è meta per ciascuno, nessuno escluso, ivi compresi gli insegnanti.

Utopia? Forse sì, ma non (im)possibile.

 

 

 

Scrive...

Caterina Gammaldi A lungo docente di scuola media; già componente del CSPI

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