Il contesto sociale e culturale che attraversiamo come cittadini, come docenti, come intera istituzione “Scuola” è permeato da una ideologia mercatistica finalizzata ad attribuire un valore economico-finanziario ad ogni aspetto dell’esistenza, delle relazioni, dei valori di riferimento. Per questo motivo nessuno si è scandalizzato nell’apprendere che una riforma significativa del nostro sistema scolastico avrebbe preso il nome di “filiera”. Filiera come la filiera produttiva o la filiera commerciale o la filiera agricola… secondo quella semplicistica idea che, mettendo “in fila” delle fasi successive, alla fine viene fuori un “prodotto”. Il prodotto, neanche a dirlo, rientra ancora nella metafora mercatistica, è la “risorsa umana” o il “capitale umano”. Dovremmo cominciare a riflettere sul fatto che oggi, anche nell’ambito delle scienze sociali, queste parole non sono solo una metafora, ma vengono utilizzate in senso pieno e con significato condiviso. Nessuna meraviglia se le nostre alunne e i nostri alunni sono considerati risorsa o capitale: rientra in una logica complessiva, e ripeto condivisa, secondo la quale il processo economico deve procedere inesorabile, animato da precise logiche finanziarie, e lungo il suo cammino nessun’altra esigenza può essere considerata, a meno che non si tratti di elementi che è possibile misurare proprio in termini finanziari.
Se assumiamo questa prospettiva, così come avviene comunemente sulle principali testate giornalistiche o televisive, così come i più autorevoli commentatori politici ed economici fanno ormai quotidianamente nei talk show che animano le nostre serate, se la metafora economico finanziaria ha ormai totalmente trasformato gli orizzonti culturali che viviamo, allora la Filiera tecnologico professionale elaborata dal ministro Valditara rappresenta il giusto compimento della scuola italiana.
Infatti, in questa visione, il “mismatch scolastico” correttamente indica la mancata corrispondenza tra le competenze richieste dalle aziende e quelle effettivamente in possesso da parte dei giovani diplomati delle nostre scuole. Il principale corollario del teorema così assunto è che la scuola non è adeguata, i saperi trasmessi nelle aule sono obsoleti e, quindi, il sistema di istruzione va innovato, trasformato, messo al passo con le esigenze del mercato, con i “bisogni formativi delle imprese”. La scuola, quella italiana in particolare, è vecchia, sbagliata e poco flessibile.
Insomma, la filiera è la ricetta migliore, la riforma giusta anche e soprattutto per prevenire la dispersione scolastica e fermare l’emorragia di ragazze e ragazzi che lasciano la scuola.
Eppure, un’altra visione è possibile.
In primo luogo, è indispensabile guardare al mondo del lavoro, al mondo produttivo in termini olistici. Il sistema economico globale non può che essere vissuto nella complessità delle sue interconnessioni con il tempo e con la natura. Pensare che il sistema produttivo di un paese sia circoscritto allo sviluppo di alcuni grandi colossi imprenditoriali presenti in alcune parti del territorio nazionale, magari legato alla presenza di specifiche maestranze capaci di lavorare un prodotto in funzione delle caratteristiche che lo fanno competitivo oggi, in questo contesto, appare evidentemente una narrazione fuori dalla realtà. È necessario immaginare, anche acquisendo la logica del mismatch, che il mondo produttivo si “alimenti” della capacità innovativa di lavoratori in grado di confrontarsi criticamente con le attività che sono chiamati a svolgere: il lavoro per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. Questo, a mio parere, il primo equivoco da cui parte il progetto culturale che è sotteso alla filiera tecnologico professionale. Infatti, il Ddl 924/2023 che delinea l’intera proposta prevede che le imprese, insieme a tutti i soggetti della rete detta “campus”, siano chiamate a “definire le modalità di coprogettazione dell’offerta formativa”. Di fatto, in evidente conflitto con l’esclusiva responsabilità di progettazione degli organi collegiali, la territorialità, l’esigenza formativa della singola azienda viene elevata a curriculo. Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere utile a un paese che sia determinato a tracciare, attraverso il sistema nazionale di istruzione, il disegno di un piano industriale (necessariamente sostenibile) che possa indirizzare lo sviluppo economico dell’intera comunità nazionale: conoscenze articolate da indicazioni generali, anche aggiornate, meglio definite per costruire nella scuola, in laboratori e in aule adeguate, non solo competenze tecniche e professionali (che raccolgano la sfida del green e dell’intelligenza artificiale), ma anche culturali e sociali. Solo a partire da una idea chiara delle conoscenze necessarie allo sviluppo di professionisti completi, si può cercare di sperimentare in azienda quanto si è appreso a scuola. Ciò che realizza la filiera è, invece, la formazione e l’addestramento mediante l’apprendistato di primo livello a 15 anni, mediante i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) potenziati e ampliati, insomma la scuola si adatta al modello richiesto dall’impresa, mentre dovrebbe fornire a quest’ultima le intelligenze capaci di innovarla e renderla adatta alla complessità del mercato globale.
Una conseguenza strettamente connessa all’ingresso dell’impresa nel “campus” come protagonista della co-progettazione è certamente la frammentazione del curricolo e lo smantellamento del sistema nazionale e unitario di istruzione. Le aziende protagoniste dentro la scuola nei territori maggiormente sviluppati (diversi tra Sud e Nord, ma anche tra centri e periferie) producono interventi sul curricolo diversi da regione a regione, anticipando pericolosamente un’autonomia differenziata dal basso, negando a studentesse e studenti dei vari contesti locali quanto promesso dalla Costituzione repubblicana: stesso Paese, stessi diritti!
Infine, rispetto alla dichiarata finalità di contrastare la dispersione scolastica, la logica che anima il progetto sottende un messaggio banalmente semplificante: se non ce la fai a studiare, vai a lavorare! Semplice, chiaro: un messaggio che, insieme alla supremazia dell’impresa sulla scuola, è ampiamente condiviso dalla narrazione mainstream e dal senso comune. Nulla di più distante dal ruolo che la Costituzione repubblicana attribuisce alla scuola: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Per usare le parole di Don Milani: “Se mandate i poveri via dalla scuola non è più scuola; è un ospedale che cura i sani e manda via i malati, diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”. È il nucleo fondante della filiera: per contrastare la dispersione scolastica bisogna immaginare un modello di scuola diminuita nella durata, che canalizzi verso gli ITS e non verso l’università, che offra meno ore di formazione generale e più PCTO e apprendistato.
Eppure, quest’idea velenosa si va declinando nella nostra scuola e, tornando all’attualità che vivono i Collegi dei docenti in questi giorni di fine anno 2023, il progetto complessivo della filiera si è animato a partire da una serie di forzature, tra cui la più significativa è certamente l’aver voluto anticipare il disegno di legge con una sperimentazione proposta direttamente alle scuole. Un’esca avvelenata, ampiamente sponsorizzata da tutte le ramificazioni dell’Amministrazione con riunioni “esplicative” e rinvii delle precedenti scadenze per coinvolgere il più possibile gli scettici e gli indecisi.
Si tratta di proporre entro il 12 gennaio 2024 un progetto di sperimentazione quadriennale (lì dove i precedenti proposti nel 2018 e nel 2021 sono ampiamente falliti) con la pretesa di voler assicurare più formazione con minor tempo scuola; agli alunni viene proposto un accesso al lavoro già al biennio del secondo ciclo di istruzione, in piena età dell’obbligo, attraverso l’incremento di PCTO o di attività in apprendistato; si equipara il non equiparabile laddove vengono messi sullo stesso piano la formazione professionale regionale, il percorso quadriennale, quello quinquennale ai fini dell’accesso agli ITS. Le aziende forniranno una quota di docenti con contratto d’opera con ricadute sulla qualità della didattica e della professionalità, oltre che, come già detto, con la co-progettazione dell’offerta formativa e didattica. La determinazione ministeriale arriva a pretendere di voler avviare la sperimentazione senza alcuna attività di orientamento, già a partire dall’anno scolastico 2024-2025 quando le iscrizioni scadono il 10 febbraio 2024: si chiedono alle famiglie e agli alunni iscrizioni al buio, con scuole all’oscuro di tutto.
Si tratta di un disegno davvero preoccupante per il grande impatto che ha sull’intero segmento secondario; infatti, la sperimentazione della filiera è rivolta agli istituti tecnici, agli istituti professionali e alle altre istituzioni scolastiche, comprendendo l’integrazione di un percorso per il conseguimento del diploma professionale di Istruzione e Formazione Professionale regionale e di un percorso biennale di ITS Academy.
Eppure, oltre a quanto traspare dal progetto di filiera tecnologico professionale c’è un’idea ancora più ampia e complessa che riguarda la funzione stessa della scuola nel nostro paese. Lo leggiamo da altre riforme varate da questo governo: la riforma ordinamentale degli Istituti Tecnici, già presentata alle organizzazioni sindacali e al momento rinviata all’anno scolastico 2025/26 e l’istituzione del liceo del Made in Italy, varato con la Legge 206 del 27 dicembre 2023.
Da quanto presentato dai funzionari del Ministero dell’Istruzione, l’impianto dei nuovi Tecnici dovrebbe prevedere nel primo biennio una decurtazione complessiva di 99 ore sulle materie di istruzione generale: vengono sottratte le scienze integrate e si interviene sull’ambito storico che diventa ambito storico-geografico, mentre al V anno è prevista una decurtazione di 99 ore nell’area di istruzione generale, in questo caso, a scapito delle materie dell’ambito linguistico. Evidenti le conseguenze sulla formazione delle cattedre e sulla stabilità degli organici. Ad aggravare il quadro interviene anche il previsto innalzamento della quota di autonomia dei curricoli dal 20% al 25 % dell’orario complessivo. Anche qui è prevista la possibilità dell’anticipo del PCTO nelle classi seconde e la creazione di un comitato tecnico scientifico composto da soggetti esterni alla scuola con funzioni di progettazione del curricolo e di responsabilità sulla formazione dei docenti.
Già definito, invece, il percorso che ha condotto alla creazione del Liceo del Made in Italy con un complessivo spostamento dell’impianto culturale che ha determinato la soppressione del Liceo economico sociale. Infatti, da un orientamento a forte connotazione umanistica che, mediante apporti specifici e interdisciplinari anche della cultura pedagogica, psicologica e socio-antropologica, mira a valorizzare le scienze sociali, giuridiche ed economiche si passa ad un orientamento in cui prevale la logica imprenditoriale, la conoscenza delle lavorazioni industriali e artigianali finalizzata all’immediata collocazione dei giovani nel mondo della produzione con una evidente subordinazione della scuola al tessuto socioeconomico locale. Si tratta anche in questo caso del tentativo di declinare metodologie e contenuti didattici funzionali rispetto al mercato del lavoro e al sistema delle imprese. Presente ancora una volta il potenziamento dei percorsi di formazione in apprendistato che nei fatti rappresentano un inserimento lavorativo troppo precoce per essere realmente formativo.
Sarebbe necessario, su questi provvedimenti, un profondo ripensamento da parte del governo, soprattutto sugli aspetti didattici e culturali che sono alla base della tenuta della nostra scuola e del nostro Paese, per tener saldi i riferimenti valoriali della libertà di insegnamento, della collegialità, della condivisione delle scelte e della trasparenza. Un ripensamento che può e deve essere prodotto a partire dai Collegi docenti che, con grande lucidità e consapevolezza del ruolo del sistema di istruzione, attraverso delibere contrarie alla sperimentazione della filiera e all’attivazione del liceo del made in Italy, stanno dicendo di no al tentativo ormai evidente di snaturare la funzione della scuola della Repubblica con la scusa di renderla funzionale al lavoro.