Gli istituti professionali non si sono ancora ripresi dalla riforma del 2017, che aveva proposto indirizzi quanto mai discutibili, come il Mady in Italy, che nuovamente ricadono nel mirino del governo di turno.
E’ dalla fine degli anni novanta che ci sentiamo ripetere lo stesso ritornello “I dati sulla dispersione scolastica sono negativi, soprattutto al sud. I risultati delle prove INVALSI sono negativi in particolare nelle regioni meridionali e soprattutto negli Istituti professionali. Dobbiamo seguire i modelli europei, Confindustria sostiene che tra le competenze in uscita dei nostri allievi e le richieste del mercato del lavoro c’è un forte divario, a cui dobbiamo porre rimedio, perché questo non facilita l’inserimento nel mondo del lavoro ecc…ecc…” Però le proposte risolutive a queste preoccupazioni, come le ultime suggerite dalla riforma Valditara, finiscono col peggiorare la situazione dei nostri istituti, come viene sottolineato anche dal CSPI. C’è forse bisogno di fare chiarezza su ciò che si sta discutendo con un ragionamento che affronti punto per punto le proposte della riforma, riportando anche esempi concreti.
Vorrei ricordare, contrariamente a quanto sostiene il ministro, che l’obiettivo primario degli Istituti di Istruzione Superiore, e questa denominazione non è stata scelta a caso, è favorire una preparazione che aiuti i ragazzi a diventare cittadini consapevoli oltre che bravi esecutori di un lavoro, ma se ogni volta riduciamo il tempo dedicato allo studio, al confronto, alla discussione e alla riflessione, la scuola perde di vista il suo compito primario. Come scriveva la nostra Presidente nazionale Valentina Chinnici “Una società per quanto sia dinamica non può fare a meno dell’intelligenza e della cultura…e ai ragazzi bisognerebbe fornire la possibilità di pensare con lentezza e tranquillità”, aggiungo attraverso tempi dilatati e non ridotti al lumicino. Temo inoltre che questa riduzione vada a differenziare in modo ancora più marcato il divario tra Licei e Istituti tecnici e professionali secondo il famoso modello di gentiliana memoria, che continua a persistere nei disegni politici dei nostri governanti.
Certo è incredibile come la scuola sia indicata da una parte come l’istituzione che ha il compito di risolvere tanti problemi sociali, per ultimo la tragedia del femminicidio, dall’altra si impoverisce sempre di più la sua azione educatrice e didattica, perché diventa prioritario il lavoro.
Forse questi esperti si porteranno dietro i loro macchinari visto che i nostri sono obsoleti e alcuni risalgono addirittura agli anni ’80! Qualcuno dovrebbe ricordare al ministro che i nostri colleghi di laboratorio sono essi stessi esperti impegnati anche all’esterno della scuola, i maestri orafi dell’indirizzo in cui ho lavorato sono conosciuti nel territorio per la loro preparazione, forse più che di esperti la scuola ha bisogno di mezzi e finanziamenti.
Il decreto sulla sperimentazione che partirà il prossimo anno, sulla carta dice di garantire l’organico in essere, ma prevedendo l’introduzione nel sistema di nuove figure di docenti, non contrattualizzate, per le quali non è ancora chiaro il monte ore rispetto ai docenti curricolari, dovranno essere le scuole con contratti annuali a farsi carico della spesa. Sarà questo sostenibile anche solo economicamente dalle scuole?
Inoltre c’è molta ambiguità sia sul carico di lavoro, sia sul rapporto studenti-docente che non è stato definito chiaramente. Poca chiarezza c’è sul numero delle ore effettive necessarie per svolgere questo ruolo, così come lascia perplessi la formazione universitaria, per lo più online anziché sul campo. Le dinamiche che si creano all’interno della classe, quando ad essere fragile e in difficoltà è la maggioranza di ragazzi (cosa che accade spesso nei professionali) difficilmente possono essere risolte dal singolo. E’ il lavoro collegiale che va recuperato sia all’interno dei consigli di classe che all’interno di collegi e dipartimenti.
Certo anche il lavoro del collegio docenti è messo a dura prova dalla politica di dimensionamento che è stata già messa in atto, in particolare nella nostra regione, per convenienza economica. Come si fa a discutere nei collegi docenti se gli istituti vengono accorpati al punto che non si trovano aule adatte ad accogliere 200 o più persone. Dove trovano il tempo e lo spazio i docenti per discutere e confrontarsi se solo per chiamare l’appello dei presenti se ne vanno i primi tre quarti d’ora? Può essere garantito a tutti il diritto a intervenire nella discussione? La soluzione potrebbe essere: accettiamo tutto e non discutiamo. Gli esempi pratici ci fanno comprendere quanto possa essere dannoso un provvedimento che non solo riduce posti di lavoro, ma corrode la democrazia all’interno della scuola.
I “campus” sono aggregazioni di scuole tecniche e professionali di un territorio, anche paritarie, che dovrebbero dar vita a un polo formativo legato alle esigenze specifiche dei territori.
Ora questi accordi fanno nascere in me un brutto presentimento, quando si va a consentire alle Regioni, che ne avranno la possibilità economica, una maggiore autonomia decisionale in fatto di organizzazione scolastica, mi viene da pensare che forse il disegno politico finale è sostenere la cosiddetta “autonomia differenziata”, infatti sarà difficile garantire un’organizzazione omogenea dei campus su tutto il territorio nazionale, viste le difficoltà di alcune regioni. C’è nuovamente il rischio che le scuole del sud avanzino con una marcia in meno rispetto alle altre.
Ogni governo in questi anni ci ha proposto la sua riforma e la scuola è stata spesso oggetto di propaganda elettorale o motivo di scontro politico, tutto questo ha generato in alcuni casi controriforme inutili, in altri atteggiamenti passivi e inerzia di fronte ai cambiamenti, che hanno danneggiato ulteriormente il nostro sistema scolastico. Non provochiamone la fine con provvedimenti che non tengono conto delle condizioni reali delle nostre scuole. Di certo non è come dice il ministro “la cultura del lavoro” l’obiettivo primario degli Istituti tecnici e professionali, bensì la cultura che si nutre di principi costituzionali e contribuisce ad alimentarli, principi che non possono essere racchiusi solo nel diritto al lavoro, a cui va certo portata attenzione attraverso la formazione, ma non deve essere prioritario.
Permettere che i ragazzi frequentino il quinto anno non è un “sequestro”, come sostiene chi non crede nella scuola, è l’occasione migliore, data l’età e una maggiore consapevolezza, per aiutarli a diventare quei cittadini responsabili che tutti auspichiamo.
Per questo motivo, associandomi a quanto sostenuto dal CSPI, ma col diritto di chi nei professionali ha lavorato per buona parte della propria carriera scolastica, anche il mio parere sulla riforma è negativo.
Immagine a fianco: Bettanier, "la tache noir" (1887)