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24/05/2019

La dimensione letteraria dei testi delle canzoni

di Paolo Talanca

I testi per canzone fanno parte della letteratura? E, se sì, è giusto insegnarli a scuola durante le ore di Italiano? Sono decenni che ci si interroga su questi quesiti, soprattutto per quella che in Italia viene chiamata “canzone d’autore”, un genere nato negli anni Cinquanta/Sessanta del Novecento. 

Il Premio Nobel per la Letteratura consegnato a Bob Dylan nel 2016 ha rappresentato un momento importante per chi è favorevole a tale inserimento. Nel discorso di ringraziamento, il cantautore statunitense ci ha tenuto a far presente un sillogismo di cui sembra difficile negare la validità. Cerco di riassumerlo in poche parole, traslando alla situazione italiana: il principale argomento di chi non riconosce lo status letterario alle parole di una canzone risiede nel fatto che queste non restano sul foglio ma hanno bisogno della musica per completare il proprio segno artistico. La canzone però, per alcuni precisi aspetti, funziona allo stesso modo del teatro; sia l’una che l’altro, per esistere devono succedere, le parole non si fermano sul foglio; sia l’una che l’altro, dunque, hanno bisogno di intonazione veicolare. Ma chi, oggi, potrebbe negare che Shakespeare faccia parte della letteratura? Se è così per Shakespeare, lo sarà anche per De André.
Oggi la storia della canzone d’autore italiana comprende esempi che riescono a rappresentare istanze sociali fondamentali almeno dal secondo Dopoguerra ai giorni nostri. Introdurre l’ascolto di cantautori scelti e canzoni esemplari nelle ore di italiano della scuola secondaria può senz’altro dimostrarsi uno strumento importante per l’insegnante. La canzone ha un linguaggio familiare per gli studenti, e spesso riesce a fornire un punto di vista su certi argomenti che ne facilitano l’assimilazione. Direi che sono due le principali direzioni in cui può risultare proficuo l’uso e lo studio delle canzoni in classe, soffermandomi sulle ore di Italiano e Storia della scuola secondaria di I grado.
Nella prima direzione, consigliata principalmente per le classi prima e seconda (o in terza per le ore di Storia), la canzone è usata come linguaggio immediatamente comprensibile dall’alunno per avvicinarsi e digerire certi argomenti, alunno che di conseguenza acquisirà maggiore familiarità e dimestichezza con essi; si chiamerà questa facoltà della canzone uso imitativo.
Nella seconda direzione, consigliata principalmente per le classi terze, questa volta in maniera inevitabilmente letteraria, ci si concentrerà maggiormente sulla poetica di determinati artisti, così da esaltarne temi ricorrenti, immaginario artistico che plasma e riflette il mondo circostante; si chiamerà questa facoltà della canzone uso analitico.
Un cospicuo uso imitativo della canzone nel biennio favorirà più avanti, nella carriera scolastica del discente, un maggior apprezzamento di un uso analitico. Vediamo da vicino, in due distinti paragrafi, queste due differenti modalità a cui la canzone si presta utilmente ai risultati prefissi.

1. La canzone come esempio contenutistico: uso imitativo

Grazie alla sua capacità di esprimere concetti in maniera sintetica e d’impatto, e facendolo in un linguaggio molto familiare, la canzone riesce a esemplificare contenuti universali o specifici. Si può ricorrere a una canzone per stimolare la concentrazione degli studenti riguardo ad argomenti tecnici o a temi universali, oppure per via della vicinanza con opere letterarie (e non solo), oggetto di studio in un determinato punto del programma annuale.
Facciamo alcuni esempi.

a) Antologia
Argomento: Differenza tra descrizione soggettiva e descrizione oggettiva.
Canzone di riferimento: Nel sole, nel sale, nel sud, di Claudio Baglioni, 1977.

Nel brano il cantautore romano descrive un episodio in un taxi di Rio De Janeiro. L’io poetico (il cliente del taxi) descrive in maniera oggettiva le luci, gli odori e lo scenario che gli si para di fronte e, alternativamente, immagina anche la vita del tassista, con il quale non scambia nemmeno una parola. La descrizione oggettiva e le immagini soggettive si intrecciano e da un certo punto in poi non hanno soluzione di continuità. Dopo aver spiegato teoricamente, col supporto del testo scolastico, la differenza tra descrizione soggettiva e oggettiva, si dà in ascolto la canzone e si assegna come compito a casa la ricerca delle due diverse modalità descrittive all’interno del brano di Baglioni.

b) Letteratura
Argomento: Giovanni Boccaccio, la novella di Federigo degli Alberighi.
Canzone di riferimento: La ballata dell’amore cieco, di Fabrizio De André, 1966.

Nella canzone De André descrive, come fa Boccaccio, in maniera cinica e fatale ma mai cupa, l’amore incondizionato di un uomo verso una donna: l’amore non è corrisposto ma questa particolarità non fa perdere d’animo l’innamorato. Nella novella, Giovanna ottiene, suo malgrado, un enorme pegno d’amore da Federigo, che quindi si dimostra davvero disposto a tutto pur di accontentarla. La figura di Federigo rappresenta l’amore assoluto, inarrivabile ma per il quale si è disposti a tutto. La figura di Federigo è positiva, autentica, chiara, sincera: Federigo è un "vincitore"; al contrario, quella della donna è opportunistica, triste e sconsolata: lei risulta essere la vera sconfitta .
La canzone di De André parla di una donna crudele di cui “un uomo onesto/un uomo probo” è innamorato. Lei chiede a lui diverse prove d’amore, fino a chiedergli in dono la vita: lui le dona anche la sua vita, morendo contento. La vera sconfitta è lei, come nella novella di Boccaccio, perché, a dispetto della sua idea di voler far disperare l’uomo, inspiegabilmente lo vide “morir contento e innamorato/ quando a lei nulla era restato,/non il suo amore, non il suo bene/ ma solo il sangue secco delle sue vene”.
Per ripetuta esperienza personale, ai ragazzi colpiscono subito il ritmo vivace della canzone e la vicinanza concettuale con l’opera di Boccaccio. Un proficuo compito per casa può essere quello di chiedere ai ragazzi di descrivere i caratteri delle due donne e dei due uomini: quali sono le figure positive e che insegnamento lasciano le due opere, oltre a chiedere di evidenziare le differenze.

c) Storia
Argomento: Napoleone.
Canzone di riferimento: Il cielo di Austerlitz, di Roberto Vecchioni, 2007.

Il riferimento storico è il periodo di Napoleone, in particolare la Battaglia di Austerlitz, o “dei tre imperatori”. Nella canzone si descrive un celebre passo di Guerra e pace, di Tolstoj, in cui il principe russo Andrej giace morente sul campo di battaglia, con i francesi e Napoleone vincitori e ignari dell’epilogo. Ci si può limitare a richiamarne alcuni temi: un principe morente, superbo per tutta la sua vita, che di fronte alla morte si accorge che il cielo ha un’armonia che a lui non spetta, non spetta raggiungere da uomo: «com’è lontano Dio/ lontano il cielo/ da tutto quello che ho creduto vero». Si descrive anche la piccolezza umana, terrena di Napoleone a dispetto delle sue grandi imprese, rilevabile in diversi manuali di Storia di secondaria di primo grado rispetto alla sua doppiezza di carattere: per esempio in occasione delle aspettative del popolo nella campagna d’Italia (dunque del trattato di Campoformio) o delle notizie arrivate in Francia nei giorni immediatamente successivi alla campagna d’Egitto, oppure, ancora, alle incongruenze delle riforme presenti nel suo codice civile, per ciò che riguarda le questioni di meritocrazia e l’affidamento ai suoi parenti stretti dei territori conquistati.
La canzone riesce plasticamente a contestualizzare per immagini l’evento storico, cosa sempre difficile da fare durante le lezioni a scuola. I ragazzi attraverso l’ascolto capiscono come quelle pagine parlino di uomini e donne, con le loro debolezze e i grandi atti.
Questo rende loro la Storia più vicina, li fa partecipi.

2. La canzone come letteratura: La poetica e l’uso analitico

L’uso imitativo non implica l’accettazione dell’esistenza di una letteratura della canzone. La canzone come forma letteraria andrebbe contestualizzata e inserita nei programmi scolastici di Letteratura delle classi terze, assieme allo studio dei poeti e scrittori della seconda metà del Novecento. Solo così avrebbe senso parlare di uso analitico della canzone: cioè studiare la poetica dei migliori cantautori italiani, che hanno rappresentato uno snodo importante e un radar per descrivere e comprendere meglio il proprio tempo, proseguendo il lavoro letterario dei predecessori, spesso proprio dei poeti già studiati perché inseriti nel programma.

In questo paragrafo, a differenza del precedente, come esempio inserirò solo una proposta di lavoro sulla poetica di Francesco Guccini. È importante dire che l’uso analitico – a differenza di quello imitativo – non si presenterà come occasionale ma strutturato in una storia della canzone d’autore italiana di riferimento, dunque non può prescindere da un canone riconosciuto. Sarà importante far presente che l’uso analitico della canzone d’autore nelle ore di italiano vedrebbe la sua piena applicazione nella scuola secondaria di secondo grado, ove però il discente fosse stato adeguatamente preparato, durante la secondaria di primo grado, col curricolo suggerito in questo scritto.

a) Francesco Guccini
La poetica della crisi, i riferimenti a Gozzano e alla parola inquieta del Novecento.

Il periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento ha visto in Italia la nascita della canzone d’autore, cioè un modo differente di intendere la canzone rispetto a quella del Festival di Sanremo: un modo per dire cose importanti con la canzone, in forma artisticamente valida, senza che la destinazione mercantile determini la forma dei brani; brani che peraltro non saranno necessariamente incompatibili con essa. I cantautori prendevano molto dalla Francia, soprattutto un certo alone esistenzialista e antiborghese nei contenuti. Dall’America arrivava nei ritmi del beat e ciò che legava le due correnti era uno spirito in certo senso decadente, di “rallentamento umanista” rispetto al boom economico.

Proposta d’ascoltoDio è morto, di Francesco Guccini, 1967.

In questo senso, la più volte esplicitamente dichiarata vicinanza tra Guccini e Gozzano può nascere proprio da qui. Si può supporre che le sirene del beat negli anni Sessanta avessero attirato Guccini per quel sentore di sconfitta e di sfumatura esistenzialista di una generazione che in tal senso, solo e solamente sotto questo punto di vista, può presentare una certa vicinanza con i sentimenti crepuscolari.
In Guccini l’ambientazione crepuscolare, inoltre, viene fuori già in una canzone del 1962 dal titolo Venerdì santo, compresa nel primo album. Più verosimilmente, si può rintracciare un anno fondamentale nel 1969, quando il cantautore – è lui stesso a dirlo – attraversa un periodo di profonda crisi, andando anche negli Stati Uniti per seguire un amore che non avrà buon esito. Così, una serie di fattori concorrono a creare una profonda crisi interiore, come l’amore finito e la disillusione nei confronti del mito americano, prima tanto limpido e indiscutibile dalla Liberazione – vissuta da Guccini a Pavana, paese d’origine della sua famiglia – ai libri di Hemingway, fino a Kennedy, ai fatti di Berkeley e a Bob Dylan:

“Pochi giorni dopo il mio arrivo in Pennsylvania, il mio mito era già andato in pezzi. Lo avevano rotto cose serie come le discussioni sull’intervento in Vietnam e altre cose più banali ma comunque fastidiose. […] Le cose, tra me ed Eloise, erano difficoltose, soprattutto per la differenza di mentalità che c’era tra un italiano e una tipica famiglia americana un po’ borghese e bigotta!” [1]

La crisi, dunque. La crisi è indagata da Guccini nell’album L’isola non trovata del 1970. Da qui nascono effettivamente alcuni temi che poi l’autore svilupperà nelle opere successive, come l’inesorabilità del tempo che passa, che trasforma «i tanti io saranno diventati per sempre io ero» (Autunno, in Stagioni, EMI, 2000) o l’inevitabilità della persistenza del dubbio dietro ogni tipo di ricerca filosofica, fino a definire «dubbio assiduo l’unica ragione» (Canzone della triste rinuncia, in Stanze di vita quotidiana, EMI, 1974).

Proposta d’ascolto: Incontro, di Francesco Guccini, 1972

Sotto questo aspetto, Guccini sembra rientrare di diritto nel novero degli artisti che caratterizzano la tensione poetica novecentesca e che, secondo Giancarlo Quiriconi, non smettono la ricerca:

“La difficile opera di ricostruzione di una identità soggettiva e di un rapporto aperto con il mondo […] è sottoposta di continuo all’opera corrosiva di quanto esplicitamente o implicitamente vi si oppone: la perdita di centralità, la messa in crisi del concetto stesso di verità e di univocità della conoscenza, se da una parte aprono spazi impensabili alla gnosi […], dall’altro costringono l’immaginario contemporaneo a muoversi su di un terreno instabile, irto di asperità e insieme magmatico.” [2]

Gozzano opera in un periodo in cui l’artista, in generale, si trova a far fronte a una parcellizzazione dell’io, introdotta dalle teorie di Freud e Einstein, nonostante la certezza durata secoli sul significato, anche etimologico, del termine ‘individuo’. Dietro il termine ‘crepuscolare’ si è voluto, con il contributo critico di Giuseppe Antonio Borgese, indicare una zona poetica ‘d’ombra’, non più sorretta né dal lirismo di fine Ottocento del ‘poeta vate’, né da un approdo al nuovo e alla peculiarità della parola poetica novecentesca.
Per Guccini, il periodo di crisi appare come personale ma, comunque, arriva alla fine di un ciclo di produzione artistica – per inciso, il beat –, per via di esigenze interne che portano l’autore a sentire il bisogno di interrogarsi e cercare una strada e un perché alle disillusioni quotidiane. Da qui, le influenze del tanto amato Gozzano si mostrano come un unisono sentore di esperienze, muovendosi però Guccini in un ambiente già fortemente novecentesco, per cercare la verità, pur sapendo – ma è una peculiarità, non una sconfitta– che non si riuscirà a trovarla.

Proposta d’ascolto: Shomèr ma mi llailah, di Francesco Guccini, 1983.

In altre parole, Guccini si presenta come un artista perfettamente calato nella temperie culturale del Novecento, che però indaga le proprie inquietudini con gli strumenti di una letterarietà  protonovecentesca.

L’isola non trovata del 1970 è un disco intriso di riferimenti letterari, che ben rappresenta le potenzialità culturali del Guccini di quel periodo ed è molto importante anche come dichiarazione d’intenti. Il brano che dà il titolo al disco è ispirato alla poesia La più bella di Gozzano del 1913: canta la disillusione, nonostante la reale esistenza de “l’isola incantata”, che però mai nessuno ha visto.
C’è dunque un rapporto preciso che lega Gozzano e i crepuscolari alla condizione di crisi e inserisce Guccini nel pieno della temperie letteraria del Novecento. Letto in questo modo, il fatto di aver citato Gozzano in un disco così importante e per un brano che gli dà il titolo è una dichiarazione d’appartenenza a un certo filone, ovviamente non solo crepuscolare, che occupa il Novecento poetico italiano. In particolare, Guccini cita in questo senso come libro di riferimento un volume di Luciano Anceschi, di certo ha letto in maniera appassionata negli anni dell’università: “Per quello che riguarda l’appartenenza alla temperie culturale del Novecento, è stato molto importante il libro di Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia. Lì Anceschi esamina proprio il Novecento e quindi esamina queste poetiche e da lì ho preso”.
Di fronte ai sentimenti già citati della frammentazione dell’io, alla perdita della centralità e al conseguente smarrimento bellico, atomico e filosofico di codesto secolo, cioè a “ogni impresa di questo secolo trionfante” (come lo definisce lo stesso Guccini in Addio) la poesia del Novecento oppone quella che per esempio Giancarlo Quiriconi chiama «la resistenza della sua parola inquieta, da opporre allo sfaldamento di civiltà dei nostri giorni» [3].

È la poetica della decenza quotidiana, che in questo senso lega Guccini anche ad alcuni dei principali poeti del secolo scorso, per esempio a Pasolini o al Montale di Visita a Fadin: «Essere sempre tra i primi a sapere, ecco ciò che conta, anche se il perché della rappresentazione ci sfugge. Chi ha avuto da te quest'alta lezione di decenza quotidiana (la più difficile della virtù) può attendere senza fretta il libro delle tue reliquie. La tua parola non era forse di quelle che si scrivono». E non possono non venire alla mente, leggendo queste parole, l’acquietamento responsabile a cui porteranno il finale dei brani di Guccini Amerigo e Van Loon, o la “pietra antica” che “non emette suono” del brano Radici, ma che «parla come il mondo e come il sole, parole troppo grandi per un uomo».
Da qui in poi ci si avvia nel pieno della ricerca di stratagemmi per opporsi a questa disillusione e a questa crisi con l’album Radici del 1972, perché prima di tutto li si cerca nel proprio passato, nelle vite di chi «era sempre vissuto in modo umano», per citare ancora il Montale di Visita a Fadin

Note

1. M. Cotto, Francesco Guccini. Un altro giorno è andato, Giunti, Firenze, 1999.
2. G. Quiriconi, Il discorso discorde. Voci e figure dell’inquietudine novecentesca, Carabba, Lanciano, 2004, pp. 7-8.
3. Ivi, p. 34.

 

"Nota a margine con proposta"

Dopo un nutrito confronto nel gruppo di lavoro che gestisce la rivista, abbiamo deciso di pubblicare questo articolo perché, con presupposti culturalmente fondati e significativi, affronta in modo interessante i nodi della letterarietà del testo della canzone, del confronto e delle osmosi tematiche e stilistiche fra testi di canzone e letteratura "alta",  del possibile utlizzo della canzone nella didattica della storia...

Avevamo (e continuiamo ad avere) un'unica (ma non marginale) perplessità: riteniamo gli esempi proposti (e le stesse argomentazioni a supporto) assai più adatti a una secondaria di II che non di I grado. In particolare il suggestivo percorso su Guccini e la sua dimensione "crepuscolare" più che a una terza "inferiore", ci sembra adatto a una quinta "superiore".
Per noi non è una diffrenza da poco, perché la graduale e coerente progressività curricolare è una delle nostre preoccupazioni educative più forti e persistenti. Noi riteniamo che si possano fare con i ragazzi solo le cose che essi possono realmente capire, perché sottoporre agli allievi tematiche, pur interessanti e significative, ma fuori dalla loro portata può diventare una mancanza di rispetto, oltre che un errore di prospettiva didattica. Se invece, come sostenuto nell'articolo, il testo della canzone ha in sé la forza motivazionale di avvicinare gli allievi a problematiche complesse, allora è importnate indagare le opportunità e i confini di una tale potenzialità.

Del resto sappiamo anche letteratura d'autore e alcuni dei problemi assai complessi che comportanto le loro poetiche e la contestualizzazione delle loro opere (la loro "storia") continuano ad avere ampia accoglienza nella secondaria di I grado. Anzi, spesso sono stati recentemente rilanciati, e supportati ampiamente dall'editoria, forse dal desiderio (certamente legittimo, ma talvolta mal riposto) di rispondere a tanta eccessiva spendibilità prosaica di altre proposte didattiche. E va detto che ciò avviene nonostante le stesse Indicazioni nazionali, nel delineare i traguardi della secondaria di I grado,  evitino accuratamente di parlare di letteratura: "Legge testi letterari di vario tipo (narrativi, poetici, teatrali) e comincia a costruirne un’interpretazione, collaborando con compagni e insegnanti." Ovviamente "leggere testi letterari" non significa "fare letteratura" e men che meno "storia della letteratura".

Ecco, per questi motivi ci piacerebbe che questo articolo di Paolo Talanca potesse avviare un confronto serio e importante, non tanto sulla legittimità letteraria del testo della canzone d'autore (tema che ci appare teoricamente limittaivo e non pertinente dal punto di vista didattico), ma sulla legittimità e gradualità di alcuni autori, temi e problematiche nei diversi ordini di scuola. Un confronto che, secondo noi, dovrebbe coinvolgere italiano, lingua straniera, arte e immagine, musica e le rispettive "testualità".  E di cui ci sarebbe, a nostro avviso, un gran bisogno.

Mario Ambel

Scrive...

Paolo Talanca insegnante di lettere nella scuola secondaria di I grado, critico musicale, collabora a "Il Fatto Quotidiano", membro della giuria del Premio Tenco.

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