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29/10/2016

Il giusto tempo

di M. Gloria Calì

“Diario”, “doposcuola”, “stanchezza”, “ripasso”, “gruppo Whatsapp”… Che cosa hanno in comune queste parole? Scimmiottando impunemente un noto gioco televisivo dall’inquietante nome mortifero e dittatoriale, riusciamo a capire quale parola è da inserire tra tutte queste? Un aiutino? Va bene, ve lo do attingendo al lessico neo-digital-didattico: flipped classroom.
Niente? Allora ve lo svelo: stiamo parlando di “compiti a casa”.

Il tema è molto molto discusso sul web, soprattutto da quando ha rimbalzato la lettera di un genitore, pubblicata sul "Corriere della Sera" on line il 14 settembre scorso, che rivendicava al figlio il diritto a “vivere”, piuttosto che fare i compiti per le vacanze, e a se stesso il tempo (tre mesi su dodici) di goderselo, mentre tutto il resto dell’anno questo ragazzino sarebbe stato affidato integralmente agli insegnanti. Povero orfano a singhiozzo, stritolato da un papà che, a giudicare dalla durata delle sue ferie, probabilmente è anche lui insegnante (si sa, “loro hanno tre mesi di ferie…”) e dagli insegnanti che ne fagocitano la maggior parte del tempo e delle energie in attività che non irrobistiscono e/o dilettano il giovane virgulto.

Qualcuno ha pensato bene di pareggiare la partita, facendo uscire, sullo stesso mare magnum e spesso luridum del web una battutaccia, con l’immancabile turpiloquio (tipico del mondo adulto che educa, no?) sulla rivendicazione del docente rispetto al suo tempo libero, al suo “diritto a vivere” e quindi a garantire ai fanciulli una mattinata scolastica a zero contenuto di sapere.
Mi auguro che si tratti di una tipica esasperazione da... social e mi viene subito da dire che un/una docente del genere, con siffatta articolazione di pensiero, anche se dedicasse del tempo a preparare “qualcosa”, difficilmente sposterebbe un qualcosa nella costruzione culturale dei suoi alunni, quindi tanto vale che vada a raccogliere olive tutti i pomeriggi.

Altro cospicuo settore dello spazio web è occupato da un ulteriore dibattito di essenziale importanza: quello dell’opportunità o meno di tenere gruppi Whatsapp di genitori, per scambiare i succitati compiti o per spettegolare sugli insegnanti, o per darsi il buongiorno [1].
E allora tutti a dire la propria, agevolati dal solito network, su cui la libertà e la gratuità degli strumenti social trasformano i Chiunque in Uno che si crede Qualcuno. E poi, oggi bisogna che si parli di scuola: è così trendy…, persino gli insegnanti ne parlano tanto…

La prima cosa che mi viene da chiedermi è: ma dove trovano tutto questo tempo per “dire la propria?”. Io impiego già molte ore a capire, figuriamoci se riesco anche a “dire”!
Tra il genitore “vacanziero”, l’insegnante “olivicoltore” e le rispettive fazioni, ci sta Franco Lorenzoni, maestro vero di bambini veri, nella sua scuola umbra, e di adulti, in tutto il resto d’Italia; in una intervista a Radio 3 il 15 settembre  ha evidenziato uno dei punti essenziali della questione: la lettera del genitore esprime un senso comune in cui vige la separazione tra scuola e “vita”, tra “sapere reale” e “sapere scolastico”; quest’ultimo, inoltre, è subordinato, rispetto a quello reale, è un adempimento, ma la vera crescita si attua in altri luoghi e in altri modi.

Il papà di cui sopra, in realtà, denuncia in modo maldestro una debolezza ancora troppo diffusa nella scuola, che spesso si limita a erogare conoscenze, magari in forme accattivanti e coinvolgenti, ma non ascolta i bisogni di crescita e, tanto meno, cerca di soddisfarli attraverso la cultura di cui gli insegnanti sono portatori e operatori. Da qui lo scollamento tra scuola, come luogo e tempo per “imparare” solo delle informazioni, e la vita, in cui si impara “sul serio” a interagire con il mondo. Questa distanza provoca pericolose distorsioni: genitori che assumono il ruolo di maestri, maestri che si sentono conferenzieri e giudici.
Non dovrebbe esistere un tempo per studiare a scuola distinto da un tempo per studiare a casa, distinto, ancora, da un tempo per non studiare. La vita entra dentro le aule nelle forme e colori delle discipline, spesso anche del gioco, e la cultura esce dalle aule sulle gambe di coloro che, lentamente e con i giusti accompagnatori, la usano per decifrare, comprendere, e criticare la realtà.

Altro elemento importante è che i compiti a casa, peggio ancora quelli “delle vacanze”, sono un agente potentissimo di discriminazione, nelle classi reali, dove, talvolta, ad alcuni alunni mancano persino i libri. Valutando gli alunni anche attraverso i compiti a casa, abbiamo coperto un’operazione ingiusta con il manto del successo formativo, che non arriverà mai, tra l’altro, e lascerà ciascuno al punto di partenza.
Per non parlare poi della flipped classroom e di analoghe pratiche didattiche hi-tech, che hanno indubbi pregi pedagogici e didattici, ma che si possono attuare solo quando l’accessibilità degli strumenti digitali a casa e a scuola è pari. 
Il processo di insegnamento-apprendimento per definizione si svolge in un ambiente in cui tutti gli attori, docente e alunni, sono compresenti e non in altro modo o in altro luogo; delegare a un tempo “senza docente” una parte cospicua dei processi cosgnitivi significa privare il tempo trascorso insieme della pienezza di senso che deriva in buona misura dalla costruzione del sapere in un contesto collettivo, sociale, del tutto simile a quello della cosiddetta “vita reale” [2].
Così come non devono essere un fattore determinante nel processo di insegnamento/ apprendimento, le attività per casa non possono entrare nella valutazione degli apprendimenti disciplinari. Ciò non significa che, pur volendo assegnare un compito per casa, tra poco vedremo di che genere intendo, non ne vada poi discusso  l’effettivo svolgimento: significa che va valutato insieme con l’alunno, per chiarire quali sono stati i passaggi del lavoro individuale, le soddisfazioni, e le piste da battere per migliorare [3].

Sappiamo bene d’altro canto che spesso gli alunni non studiano “da soli”, soprattutto nel primo ciclo: se restano a scuola anche il pomeriggio, sono assistiti; se, invece, stanno a casa, attorno al tavolo di cucina o della cameretta ronzano fratelli e sorelle maggiori, genitori più o meno esperti, insegnanti di riserva, nonni, tutti soggetti che solo in alcuni casi aiutano veramente a superare la difficoltà nell’apprendere, mentre, il più delle volte, sostituiscono i bambini e i ragazzi nell’adempiere a un obbligo che si svuota totalmente di valore.
Mi si potrebbe a questo punto chiedere: “Ma tu compiti non ne lasci, allora?”; oppure: “Come si fa, con le materie che richiedono un esercizio di procedure, come per esempio la matematica?”
Lungi dal costituire un modello, la mia prassi didattica rappresenta solo un’esperienza. Essa prevede che i compiti possano essere divisi essenzialmente in due categorie: quelli “riflessivi” e quelli “di ricerca”, con una presenza minoritaria di compiti per il consolidamento delle conoscenze. Fondamentale risulta, per la prima categoria, chiarire il senso e i vantaggi del raccontare, in forme varie, la propria esperienza didattica, presente o passata: all’inizio gli alunni sono un po’ disorientati, poi ci prendono gusto, e riescono a descrivere e a valutare bene i processi e i risultati, con il risultato di consolidare un approccio di lettura a se stessi come apprendenti, di ripercorrere le esperienze di classe, e di acquisire meglio le conoscenze.

Il compiti “di ricerca” è l’esatto contrario di “fai una ricerca”, di cui sono vittima anche come mamma di un alunno di una scuola media a cui nessuno ha fornito un metodo di ricerca, per poi valutare un risultato che, così, diventa privo di senso.
Va fornito un metodo, di ricerca e selezione; l’interpretazione, poi, si fa in classe, e raramente in assetto individuale, in modo da costruire un patrimonio comune. Alla fine, in classe, costruiamo un prodotto (dal testo espositivo a quello narrativo al fumetto) in cui le conoscenze scelte, lavorate, condivise, vengano rivissute in forme personali.

Un ultimo ambito di efficacia dei compiti a casa è quello dei ragazzi e ragazze “difficili”, che vivono uno svantaggio sociale, culturale, per cui la vita di classe diventa determinante come opportunità di soluzione. Un dialogo in presenza, su strumenti e temi culturali, è irrinunciabile: approfittare dell’obbligo formativo, che li porta a scuola, per dargli una possibilità di costituirsi un bagaglio culturale e relazionale per la vita, significa per me rispettare l’essenza del lavoro di docente nella scuola pubblica. Per loro, l’attività da fare a casa e poi da condividere al ritorno in classe, significa continuare a far sentire la presenza della scuola e delle proprie potenzialità anche oltre l’orario scolastico, quando, magari sono lì in agguato negatività di tutti i generi. In questi casi, ciò che serve all’alunno non è solo l’attività didattica per il suo valore culturale, ma è l’esercizio della cittadinanza che consiste nel mantenere un impegno preso con altri, imparare a condividere le proprie eventuali difficoltà e chiedere l’alleanza del docente per risolverle. È evidente che, per ottenere questo, bisogna instaurare un clima di fiducia reciproca, una comunità di intenti che dipende da come il docente vive il proprio lavoro, e si parte sempre dalla vita della classe, che risulta, anche per questo, essenziale.

Partiamo da questo, allora, cioè dalla relazione educativa e dal dialogo culturale che riusciamo a instaurare in classe, quando siamo tutti insieme: che i genitori facciano i genitori, nel loro tempo, e che i maestri facciano i maestri, nel loro tempo.

 

Note

1. Gli articoli sul tema sono tantissimi: ne segnaliamo uno per tutti:  Mauro Munafò, Il gruppo delle mamme..., "L'Espresso on line", 11.10.2016.
2. Un contributo ricco di suggestioni ma sostanzialmente convergente è quello di Umberto Tenuta, Compiti a casa, EdScuola di qualche anno fa.  Una raccolta interessante di opinioni sul tema si trova anche in EducationDuePuntoZero; basta cercare “compiti a casa”. Il paladino dell'abolizione dei compiti a casa è Maurizio Parodi, autore di molti saggi sul tema, e che si è addirittura fatto carico di indire una petizione contro i suddetti controversi compiti.
3. Si legga, in riferimento alla scuola secondaria di secondo grado,  Maurizio Muraglia, "Suo figlio non studia", "insegnare"  on line, febbraio 2015.
 

Credits
 


L'immagine a lato è tratta da Beata ignoranza, "blog di resistenza  delle scuole pratesi", al tempo dei tagli al tempo scuola della Ministra Gelmini (2009).

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