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fuori dai dentiopinioni a confronto

11/09/2023

"Se dico scuola, scansati"

di Mario Ambel

“Se dico treno, scansati”, l’agghiacciante avvertimento del caposquadra al gruppo di operai destinati di lì a poco a morire travolti da un treno, mentre eseguivano lavori senza adeguate misura di sicurezza, dovrebbe rimanere a simbolo e mònito, come le scarpette rosse delle donne violentate nella notte per altre questioni, della facilità con cui si muore ogni giorno di lavoro. Ancora oggi, nell’era in cui il Piano Scuola 4.0 vorrebbe riempire le scuole di soluzioni tecnocratiche, che spesso appaiono o rischiano di essere orientate più alle regole e alle procedure del neocapitalismo algoritmico, che all’emancipazione culturale e sociale delle persone.

Ma che c’entra la scuola? Potrebbe obiettare qualcuno, per esempio fra le schiere di coloro che pensano anche che la scuola e il capitalismo non c’entrino neppure con la progressiva distruzione del pianeta in nome del benessere di pochi e a danno della salvaguardia di tutti.
La scuola, c’entra, eccome. La scuola c’entra perché la regola aurea della scuola del Novecento, per noi si potrebbe dire della scuola di impianto gentiliano, che avremmo dovuto approfittare del centenario (1923 - 2023) per rinnegarne l’impianto, è che la scuola serve ad alcuni per esserne cacciati senza prospettive di lavoro, ad altri per uscirne presto alla ricerca di un mestiere, ad altri ancora per uscirne dopo un po’ alla ricerca di un lavoro e ad alcuni, infine, dopo assai più tempo, alla ricerca di una professione. O della disoccupazione intellettuale (si fa per dire).

Questo impianto a canne d’organo stonate regge la scuola da quando il liberalismo ha capito che andare a scuola poteva servire a condizionare e determinare il tipo di collocazione nel mondo (ma anche la capacità di capire e giudicare il mondo) e si è quindi premurato di evitare che troppe braccia “sottratte all’agricoltura” finissero col sottrarsi a qualcuna delle forme di sfruttamento del lavoro e a far sì che la società potesse continuare a essere suddivisa in classi, anche dopo la fine delle classi sociali stesse e soprattutto la sconfitta delle ideologie che si facevano paladine di quelle dette “subalterne”.

Ammesso che qualcuno accetti l’improntitudine di queste connessioni, di certo troverà di pessimo gusto il parallelo con le morti sul lavoro. Non è così inopportuno, in realtà. Se non altro perché una delle differenze fondamentali fra chi trova un mestiere o un lavoro, o chi non li trova e finisce a fare la manovalanza del crimine organizzato (possibilità occupazionale non censita dalla Previdenza sociale, ma discretamente diffusa) e chi riesce a fare una “professione” è che quando va storto qualcosa per chi è manovalanza criminale o fa un mestiere o un lavoro muore lui o lei (ancor più per chi fa “il” mestiere, che è un’altra storia suboccupazionale, ancor più triste), mentre quando va storto qualcosa per chi fa una professione di solito muore qualcun altro. E spesso, anche se inquisito e processato, chi faceva una professione ed era coinvolto viene assolto.
E di fatto il rapporto stretto fra scuola e destini futuri continua ad essere in auge e confermato, per quanto in crisi di credibilità, almeno da quando non funziona più da ascensore sociale, come dicono i sociologi fiduciosi che andare a scuola serva ai figli di classi sociali che stanno più in basso nella gerarchia dei salari a salire qualche gradino e credono i meritocratici, convinti che se uno ha merito “anche se privo di mezzi” ed è figlio di un operaio può anche diventare medico, se lo Stato ti aiuta, se tu ti aiuti.
Quel rapporto dis/funziona ed è oggetto di attenzione e di fervore riformatore anche da parte di quest’ultimo Ministero, non a caso autoproclamatosi del Merito, nonostante il modo patetico con cui continua a organizzare e gestire, al suo interno, l’accesso alla professione di insegnante. O è una missione? Come quella dell’educatore del Terzo Settore, come pensa uno sparuto ma resistente nucleo di anime belle sparse sul territorio.

“In arrivo in Consiglio dei ministri la riforma dell’istruzione tecnico-professionale, predisposta dal ministro Valditara, che fa nascere in Italia la nuova filiera formativa, destinata a coinvolgere istituti tecnici, professionali, percorsi ifts, le Fp professionali regionali e Its Accademy”, annuncia (o minaccia?) il Sole 24 Ore di stamane, 6 settembre 2023. Insomma una grande revisione di tutte le risorse e opportunità formative che gentilianamente continueranno a costituire l’alternativa professionalizzante a quella terra di transumanza quinquennale (per alcuni ne basterebbero quattro) per far transitare le carovane di “liceali” dalla palude della scuola dell’obbligo alle prode tormentose e spesso scarsamente utili dell’Università.
Mi astengo dal commentare l’uso del concetto di “filiera”, ampiamente diffuso fra i cultori della materia e giustamente insopportabile per chi, come Domenico Chiesa, continua onestamente a credere che sia possibile (e a combattere perché si realizzi, ancorché nella società capitalistica e un sistema scolastico sempre più a impronta neoliberista), un qualche rapporto virtuoso fra percorso scolastico e (dignità del) lavoro.

E allora? Non saremmo dunque favorevoli all’ennesimo tentativo di dar corpo e senso alla filiera tecnico-professionale? Terreno che è stato esercizio defatigante di solerti iniziative riformatrici, almeno dai tempi in cui il rilancio industriale postbellico ha cominciato a mostrare la corda e  il sistema occupazionale a mostrare le sue prime crepe, fino al recente crollo del Ponte Morandi, a proposito di morti altrui dovute alla solerzia dei “professionisti” (del guadagno).
Ebbene, sì. Non sono favorevole, anzi guardo a queste prospettive come a una ulteriore oscura minaccia sul progresso del sistema scolastico italiano.
L’alternativa? Una sola, che non si ha il coraggio e l’intelligenza (umana, sociale e politica) di adottare, attraverso alcune drastiche inversioni di tendenza:

  • abolire il mix, attivo solo per alcuni, fra percorso scolastico e futuro mestiere-lavoro, compresa la versione aberrante, di moda nell’ultimo ventennio, della scuola come acquisizione delle competenze flessibili e “trasversali”, per farsi da sé un destino di resilienza nel caso (probabile) di cacciate plurime dal sistema produttivo;
  • realizzare un reale, efficace e non selettivo percorso di assolvimento dell’ “obbligo”, in quanto esercizio effettivo del diritto/dovere all’istruzione scolastica (senza e…) : percorso pubblico e istituzionale (se fino a 16 o 18 anni è ormai usurata e non risolta quaestio) unitario e senza scelte e predeterminazioni dei destini occupazionali futuri, finalizzato alla formazione della cittadinanza consapevole;
  • aprire, solo dopo, per tutte e per tutti i diversi percorsi di scelta e preparazione alle possibili (e di più o meno lunga percorrenza) soluzioni professionalizzanti e occupazionali, organizzate, finanziate e gestite dal sistema istituzionale (centrale e locale) in regime di relativa corresponsabilità (e non di sfruttamento) con quello economico.

Utopia? È  probabile, quasi come sperare che si smetta di morire di mestiere o di lavoro, almeno fino a quando il mondo non sarà regolato da algoritmi che abbiano previsto e messo in atto tutte le possibili modalità di avvertire: “Se dico treno, scansati”. Che è in fondo l’idea, altrettanto utopica, degli esegeti del Piano Scuola 4.0., che diverrà realtà, visto che nessuno ha avuto la lungimiranza e la forza di contrastarne l’attuazione.

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".

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