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29/12/2023

La filiera delle vanità

di Maurizio Muraglia

A leggere le  misure che si accingono a riformare per l’ennesima volta l’istruzione tecnica e professionale viene da pensare che quanto prodotto dal ministero Valditara non nasce dal nulla, ma è l’ennesimo tassello di un’altra filiera, che viene da lontano e che ha fatto le sue prove generali già almeno venti anni fa col celebre doppio canale Bertagna - non andato a buon fine -, ai tempi del ministero Moratti. Non va dimenticato poi, qualche anno dopo, l’obbligo di istruzione (non scolastico) assolvibile anche nella formazione professionale col ministero Fioroni, fino ad approdare al riordino Gelmini che ha separato i destini dei tre canali, licei, tecnici e professionali.

A un certo punto, evidentemente, il Paese si è convinto che la Repubblica gli ostacoli non può rimuoverli: gli ostacoli rimangono, e se rimangono occorre una vita a misura di quegli ostacoli insormontabili. Si delinea la necessità di un approccio adattivo, narrato come unico e irrinunciabile.   L’antica novecentesca battaglia per una scuola di massa di qualità, alla luce di tale rinuncia generalizzata di sistema, pare non abbia sortito i frutti sperati.

Tornando alla filiera tecnologico-professionale, che sta compiendo il suo cammino in Parlamento, si può dire che essa contenga tutti gli ingredienti della pietanza gradita a questo governo e a gran parte dell’opinione pubblica, esterna e anche interna alla scuola, che si può semplificare con l’antico assunto, mai sopito: chi non è portato per studiare deve andare a lavorare. La necessaria saldatura con le misure sull’orientamento porta a riformulare l’assunto, in forma politicamente corretta, in questo modo: deve essere orientato ad una modalità di studio adatta ad una possibile dimensione lavorativa.

Il linguaggio ministeriale è seduttivo in modo apparentemente innocente perché consapevole dell’esistenza di un’opposizione culturale a questo schema di pensiero, opposizione,  di cui fa parte chi qui scrive, convinta che basti la scuola pubblica per rimuovere gli ostacoli, che basti la scuola pubblica per creare cittadini, che basti la scuola pubblica persino per insegnare la cultura del lavoro. Insomma c’è ancora chi pensa che il curricolo pubblico, gestito da docenti pubblici, sia in grado di preparare i discenti ad affrontare le sfide della vita.
Una simile impostazione in questa fase è perdente. La “filiera” infatti rappresenta il manifesto di un sistema di pensiero più articolato, che va oltre se stessa, perché comprende anche le già evocate linee guida sull’orientamento, ma se vogliamo anche le celebri competenze non cognitive, i PCTO che abilmente mascherano la parola lavoro, le varie educazioni affettive e sentimentali, insomma tutto ciò che sposta l’attenzione sulla non-scuola o, più tecnicamente, sull’extra-curricolo. Per meglio dire, tutto ciò che fa andare i saperi curricolari in soffitta perché incapaci di produrre inclusione, e inclusione di qualità.
Il curricolo, infatti, resta il convitato di pietra. Che fine fa il curricolo, inteso come progressiva formazione integrale della persona e del cittadino attraverso i saperi disciplinari?  La nostra filiera ci propone il curricolo compresso (da cinque a quattro anni con lo stesso numero di ore), il curricolo esternalizzato (con l’apporto di aziende e di docenti aziendali contrattualizzati), il curricolo orientato (cioè piegato in virtù delle esigenze occupazionali regionali), il curricolo, in ultima analisi, autonomamente differenziato. Chi va a scuola in questa filiera sentirà il sapore di extrascuola in ogni dove, vedrà circolare docenti aziendali, sentirà parlare di profitti e magari sarà anche contento che italiano, storia, matematica e scienze siano solo una spruzzatina rapida, un ornamento. Insomma, entra in scena prioritariamente la formazione del produttore. Consideriamo che le ore di cinque anni compresse in quattro anni non potranno che diventare una paccottiglia culturale curvata verso una professione. O meglio, verso un’auspicabile professione. La qualità culturale del curricolo non potrà restare tale, giacché, con evidenza chiara a chiunque, la compressione in quattro anni ha un evidente costo in termini di abbassamento del livello degli apprendimenti.

La verità è che tutto corre verso una sfiducia radicale nei confronti della scuola come tanti di noi l’abbiamo frequentata. Ci sembra di sentire un rumore di fondo che così recita: questa scuola non la riduce la dispersione scolastica perché non è in grado di elevare culturalmente la sua popolazione. Tanto vale che i dispersi siano avviati al lavoro, ovviamente un lavoro dipendente e privo di autonomia creativa e progettuale.

Ma è vero?

È proprio vero che la scuola non è in grado di contenere la dispersione scolastica con gli strumenti di cui dispone costituzionalmente? È proprio vero che non esistono esperienze che hanno ridotto la dispersione scolastica senza ricorrere a docenti aziendali, a PCTO anticipati o ad aziende coprogettanti?
Credo che molte scuole siano in grado di raccontare cosa hanno elaborato negli anni, anche in collaborazione con gli Osservatori - e con eventuali agenzie formative esterne, nessuno vuole chiudersi nell’autoreferenzialità - per includere fragili, demotivati e dissipati restando scuola. C’è anche letteratura copiosa su questo. C’è voluto coraggio in queste esperienze, eccome. Scelte didattiche radicali, capacità di fare laboratorio culturale, di integrare le intelligenze, di valorizzare tutti, di valutare in modo non pedante, ma formativo. Ma si è disinvestito su queste esperienze. Si è disinvestito sulla qualificazione dei docenti, è aumentata la testificazione standardizzata degli apprendimenti e la medicalizzazione del disagio, che è un modo per deresponsabilizzare un fare scuola davvero inclusivo.
Ma non c’è da riferirsi soltanto alla didattica d’emergenza. Vorrei evidenziare anche come la didattica ordinaria possieda dispositivi che possono, devono rendere la scuola un’esperienza non scollegata dalla cultura del lavoro, dal senso del lavoro, dal gusto per il lavoro. Ne cito due: il laboratorio didattico e l’insegnamento per competenze. Due che poi sono una sola cosa. Costruire competenze a scuola è tutt’altro che strizzare l’occhio al mercato e all’azienda. Guai se la scuola non sviluppasse competenze culturali, generate da un uso formativo delle discipline, dal loro uso problematico, cooperativo, creativo. Ecco, laboratoriale, una parola che non a caso evoca il lavorare. Lavorare con i saperi vuol dire assumere anche le posture che saranno del lavoro, il rispetto dei vincoli, la capacità di fare squadra, il senso di appartenenza ad un contesto che produce, la valutazione critica e non subalterna del processo produttivo in cui ci si trova. Lavorare con i saperi vuol dire costruire cittadinanza, e cittadinanza è un concetto cui il lavoro non può e non deve essere estraneo.

In altre parole il rapporto tra la scuola e il lavoro non può essere immediato. È appunto mediato dalla cittadinanza attiva, che è un habitus teorico-pratico, fatto di conoscenze dichiarative e di prassi. Non per niente alla parola competenze l’Europa ha assegnato il connotato “di cittadinanza”. Competenze di cittadinanza. Che si costruiscono a scuola, a partire dalla scuola, con la titolarità della scuola. Della scuola pubblica.

In conclusione, credo che questa filiera rappresenti la resa: la scuola da sola non ce la fa. L’invito sindacale ai Collegi a non deliberare la sperimentazione è sacrosanto. Prima parte. Poi inizia la seconda parte. Cosa facciamo per tenerli tutti dentro? Per coinvolgerli? Per motivarli? Per attrezzarli di competenze di base che ne facciano persone pensanti, figure critiche, e quindi, perché no, potenziali bravi lavoratori? Questa è la pars construens, la sfida che ci attende tutti.

Letture utili:
M. Baldacci,  La scuola al bivio, Francoangeli 2019;
Dossier Insegnare,  Competenze culturali per la cittadinanza, Editoriale CIID 2007;
B. Martini,  Formare ai saperi, Francoangeli 2005;
C. Melazzini,  Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio 2011;
Il Mulino 4/2023,  La giovane Italia;
M. Nussbaum,  Non per profitto, Il Mulino 2010;
F. Perrenoud, Costruire competenze a partire dalla scuola, Anicia 2010.
 
 
La foto a fianco è tratta dal blog "La scuola fa notizia" 
https://lascuolafanotizia.it/2021/04/29/lo-sfruttamento-minorile-durante-la-rivoluzione-industriale/

Scrive...

Maurizio Muraglia Docente di Lettere nei licei, formatore, già Presidente del Cidi Palermo

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