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16/02/2015

In nome del padre o del padrino

di Valentina Chinnici

Lezioni d’antimafia non retorica a partire da cognomi che pesano

Succede che venga eletto un Presidente della Repubblica palermitano che si chiama Mattarella. E che immediatamente l’opinione pubblica si divida fra chi lo ricorda come il fratello di Piersanti e chi, specie a Palermo, anche come il figlio di Bernardo. Poco importa che l’uomo abbia ormai superato la settantina: il cognome continua inesorabilmente a rimandarlo al suo passato, condizionando il giudizio, o meglio consolidando i pre-giudizi, positivi o negativi che siano. Succede che questo destino accomuni il nuovo capo dello Stato a centinaia di siciliani che, in un modo o nell’altro, portano un cognome “pesante” con cui devono presto o tardi fare i conti.

La situazione si presta a un’occasione preziosa: quella di fare un po’ di educazione alla cittadinanza - e quindi anche di antimafia - senza cadere nei triti luoghi comuni e nella vuota retorica che già quasi trent’anni fa Leonardo Sciascia denunciò sulle colonne del "Corriere della Sera", con quel suo anatema contro “i professionisti dell’antimafia” [1], che oggi suona molto più urgente di allora. Personalmente, da siciliana e da insegnante, ho maturato una sorta di allergia alle parate ufficiali antimafia, cui risulta quasi ineluttabile sottrarsi, pena l’accusa di perdita della Memoria, e preferisco di gran lunga ragionare senza fretta con i miei ragazzi, proprio a partire dai nomi che pesano e che, appunto, non ci mancano.

Ma più che sui cognomi di assonanza antimafiosa, l’aspetto che ultimamente ho focalizzato con i miei alunni è quello della richiesta di tranciare le proprie radici scomode che da più parti viene ingiunto proprio a chi porta cognomi di famiglie mafiose. In poche parole, per accogliere come ‘normali’ questi figli scomodi, la società civile chiede loro di abiurare il passato e disconoscere la famiglia di provenienza, specialmente i famigerati padri-padrini biologici. Facile a dirsi, complicatissimo e doloroso a farsi. Uno dei tanti episodi è accaduto qualche mese fa ed ha avuto come protagonista il figlio di uno dei boss Graviano, mandanti dell’omicidio di don Pino Puglisi, che si è visto negare dal Cardinale l’accesso nella Cattedrale di Palermo dove avrebbe dovuto ricevere la Cresima insieme ai suoi compagni di classe. L’arcivescovo ha subito chiarito che non veniva negato il sacramento in sé, ma il luogo in cui riceverlo, dal momento che proprio in Cattedrale si trova la tomba dello stesso padre Puglisi.

La discussione con i miei alunni è stata lunga e animata, e non sono mancati gli schieramenti in favore del ragazzo e del cardinale [2]. Alla fine ho chiesto loro di mettersi nei panni dei due ‘contendenti’ e di immaginare uno scambio epistolare che tenesse conto delle ragioni dell’uno e dell’altro. Mi fa piacere riportare il frutto del loro lavoro, perché mi pare significativo per la crescita del senso di ‘cittadinanza’ di un gruppo di dodicenni, chiamati a interrogarsi sul senso profondo dell’antimafia, che implica un processo di maturazione serio e radicato, che trascenda gli slogan e le scorciatoie facili.

Ecco allora che cosa avrebbe potuto scrivere il Cardinale secondo i miei dodicenni.

Nei panni del Cardinale di Palermo

Egregio M* Graviano,
ti  scrivo questa lettera in merito a quanto accaduto sabato 22 novembre 2014, giorno in cui avrebbe dovuto svolgersi la tua Santa Cresima. Tra due scelte ho preferito intraprendere quella che più rende onore alla memoria di Padre Pino Puglisi, negandoti la cresima in quanto figlio del boss Graviano, colpevole del suo assassinio e di non essersi mai pentito di ciò. Tengo comunque a precisare di non essere sicuro di aver fatto la scelta giusta, perché non ho scelto con il cuore.
Ritengo che non fosse giusto far camminare te e la tua famiglia davanti alla  tomba di Padre Puglisi, in quanto ciò avrebbe sconvolto le persone presenti in cattedrale.
Non ho voluto fare una discriminazione, ma io, Cardinale, come avrei potuto permettere ciò?
So che tu sei come tutti gli altri e non hai  le colpe di tuo padre, difatti tutto ciò non nega la tua purezza e “indipendenza” dal tuo cognome, e non cancella il percorso da te compiuto per prepararti al Ss.mo Sacramento; perciò ribadisco il fatto che tu potrai comunque cresimarti in un'altra Chiesa.
Distinti saluti,
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    
Il Cardinale

Ed ecco la risposta che avrebbe potuto dare M*.

Nei panni di un ragazzo

Illustre Cardinale,

Le scrivo in merito a quanto accaduto sabato 22 novembre, giorno in cui avrebbe dovuto svolgersi la mia Santa Cresima. 

In quanto io non ho mai ucciso nessuno, non si può infangare il mio futuro dicendo che sarà come quello di mio padre; piuttosto,  se continuerete a ribadirmi ciò che più ha segnato il mio cognome, aumenteranno le probabilità che io diventi quello che mi sono sempre rifiutato di diventare. Ciò che, tra l’altro, ha reso il mio cognome famoso riguarda il passato, mentre io sono il presente.

Mi sono sentito escluso ed etichettato solo per il fatto di chiamarmi “Graviano”. Perché, se io non ho mai fatto niente di male, devo pagare le conseguenze di ciò che ha compiuto mio padre, oltre che lui stesso? Se la chiesa dice di non emarginare nessuno in base a colore della pelle, sesso, nazionalità e altro, perché ora Lei, Cardinale di Palermo, sta emarginando un ragazzo di sedici anni vietandogli la Cresima con i suoi compagni solo per la famiglia che ha alle spalle? Il gesto da Lei compiuto non ha evitato polemiche come, forse, avrebbe voluto, bensì le ha alimentate.
I miei compagni, pur sapendo chi fossi, non mi hanno mai giudicato. Perché Lei, uomo di Chiesa, può farlo? Si è mai chiesto quanto tempo io abbia trascorso con mio padre? Se la pensavo come lui? Questo mio cognome pesa su di me come un macigno, nonostante i pesi delle colpe di un padre non debbano ricadere sui figli, perché non è detto che loro diventino come lui, ma possono anche cambiare strada e decidere di vivere una vita diversa.

Mi chiedo perché non si sia scelto di celebrare la Cresima con tutti i ragazzi del corso in un’altra parrocchia, anche se ciò non avrebbe cambiato il nostro Dio, che è sempre lo stesso secondo cui siamo tutti uguali. Non era forse questo l’insegnamento che hanno dato Padre Pino Puglisi, il mio ed il Suo Papa?

Sono stato deluso e amareggiato da quello che è successo e mi chiedo: come è possibile che il sangue della vittima, martire qual è, Don Pino Puglisi, sia schizzato sulle vesti mie e della mia famiglia?

Spero che la mia lettera l’abbia fatta riflettere…

Distinti saluti                                                                                                                                                                                                                                                                                                       M*

I miei alunni non lo sanno ancora, ma quando io ero ragazzina anche la figlia di Totò Riina, allora liceale, si trovò ad essere perentoriamente invitata dal giudice Ilda Boccassini, a dissociarsi dal padre, proprio nei giorni in cui lei, studentessa modello, veniva eletta rappresentante di Istituto. Anche lì ricordo vespai di polemiche, con la sinistra, quasi compatta a fianco della giudice, e con l’immancabile Giuliano Ferrara a denunciare i forcaioli. 
Dibattito ovviamente legittimo, ma utile a mio parere soltanto a inchiodare sempre di più la ragazza a quel nome e a quel passato, senza comprendere che il rinnegamento non si attua da un giorno all’altro e meno che mai perché te lo chiedono persone più rispettabili di te.
Il web pullula  di testimonianze come quella di Maria Concetta Riina, che aprono squarci interessanti sulla realtà di questi eredi di padri-padrini.

"Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro... Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano... Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l'ultima volta… io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto 'Sono la figlia di Riina', però se me lo domandano non ho problemi a dirlo." [3]

O ancora, degna di interesse è la storia dei figli di Bernardo Provenzano: Francesco, laureato in Lingue, ora insegna in una scuola tedesca, mentre Angelo, che ora fa il rappresentante, quando gli fu confiscata la lavanderia di famiglia, disse a un giornalista che lo intervistava: "Mettetemi nelle condizioni di lavorare onestamente”. 

Mi rendo conto del fatto che seguire le tracce di queste vite difficili possa far incorrere nel rischio di solidarizzare con i parenti dei boss, ma nei miei alunni l’unico effetto concreto che sinora ho constatato è la presa di coscienza di come la scelta di entrare in Cosa Nostra sia davvero un Male assoluto, che stravolge anche la quotidianità dei figli innocenti, ragazzi che avrebbero potuto avere una vita ‘normale’ e che invece si ritrovano prigionieri dei loro stessi padri. Concedere a questi giovani la chance  di una vita diversa, scevra da sguardi ‘deterministici’ e censori a priori, è l’unico modo per interrompere definitivamente la catena di una eredità così schiacciante. 

In questa direzione un libro illuminante che ci sta accompagnando in classe in questi giorni, e che consiglio caldamente a tutti, è Malerba, la storia del boss ergastolano Giuseppe Grassonelli, salvato da Socrate e da Platone, ma soprattutto dalla fiducia immensa di un professore che ha sempre creduto in lui. Nonostante il cognome.
 

Note

1. Ancorché nell’articolo lo scrittore si riferisse infelicemente al giudice Paolo Borsellino, la cui sobrietà e il cui spessore morale lo rendevano del tutto un bersaglio fuori luogo per lo strale di Sciascia.  L'articolo, pubblicato sul "Corriere" il 10 gennaio 1987 è òleggibile sul sito dei Radicali italiani, nell'archivio storico: vedi L. Sciascia, I professionisti  dell'antimafia.
2. Per farsi un’idea di come questo episodio abbia riaperto ferite laceranti fra i parenti dei giudici uccisi e quelli dei mafiosi, si veda la lettera della figlia del boss Vito Ciancimino, che prende le parti del ragazzo, Condannati senza colpa Ma siamo tutti figli di Dio e l’intervista a Salvatore Borsellino, solidale invece col Cardinale: Sto con Romeo. Luciana Ciancimino ha torto.
 3. Da A. Bolzoni, "La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina", da Repubblica, 28.01.2009

 

Scrive...

Valentina Chinnici Docente di italiano nella scuola secondaria di I grado e Dottore di ricerca in Filologia e cultura greco-latina, è Presidente nazionale del CIDI

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