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25/02/2023

A proposito dei fatti di Firenze

di Maurizio Muraglia

Se a proposito dei fatti di Firenze (l’aggressione neofascista perpetrata nei confronti di alcuni studenti e la lettera agli studenti della Dirigente scolastica Savino), il ministro Valditara ha potuto parlare di “politicizzazione” con tutto quel che ne segue sui media e sui social, è perché la scuola italiana, a dispetto di quel che sostiene qualche opinionista come Nicola Porro (“basta scuola politicizzata”), è scarsamente politicizzata. 
Quel che dovrebbe essere il luogo principe della costruzione della polis, cioè la scuola, finisce infatti per essere talmente poco attraversata dal discorso politico che quando qualcuno, per così dire, mette i piedi nel piatto chiamando le cose col loro nome - qualche anno fa una prof di Palermo, sospesa e poi riabilitata e in questi giorni la dirigente di Firenze, e pochi altri in questi anni - è gioco facile per chi in quel momento storico gestisce il potere evocare richiami disciplinari o reprimende che siano. Il gioco è facile proprio per la rarità della circostanza. E la circostanza è rara perché permane l’equivoco sul rapporto tra scuola e politica, rimasto, dopo il Sessantotto, al capolinea concettuale del “non si fa politica a scuola”.

L’equivoco va affrontato invece. E non nel senso, piuttosto annacquato, della liceità di fare “qualche riferimento” alla politica nelle aule scolastiche, ma in un senso molto più profondo e decisivo, ovvero nel senso di una presa in carico, all’interno dei curricoli, di quanto l’attualità pone all’attenzione dei nostri studenti. Proprio il riferimento all’attualità, o meglio la modalità del riferimento all’attualità, costituisce il nodo decisivo dell’equivoco che sta alla base delle reiterate periodiche schermaglie tra chi prende sul serio l’attualità (che in quanto tale è politica per definizione) e chi, da una posizione di malinteso potere, si sente in dovere di redarguire o censurare. Come sta avvenendo a proposito dei fatti di Firenze.

Diventa pertanto decisivo interrogarsi sulle ragioni che fanno della scuola italiana un luogo in cui il riferimento all’attualità - e quindi alla vita della polis - appare così sporadico se non imbarazzante, come si rileva da una recente indagine Eurobarometro riportata dal Corriere della Sera del 18 febbraio scorso, in cui risulta che “meno del 15% degli intervistati dice di ricevere stimoli e informazioni su questioni di interesse pubblico dai professori, pur tenuti per legge ad ‘educare alla cittadinanza’”. Quali sono, in altri termini, le ragioni del permanere di quell’antico slogan che raccomanda ai docenti di “non fare politica a scuola”?. Cosa intendono i docenti per “politica”? Che è anche un modo per chiedersi: come intendono i docenti il loro ruolo culturale, nella relazione con gli studenti ed in quella, forse più impegnativa per certi versi, dei saperi che insegnano?

La nostra Costituzione parla di libertà d’insegnamento, ed è noto che quell’articolo trasuda di memoria. In democrazia dovrebbe quindi essere possibile riferirsi all’attualità, con tutta evidenza al di fuori di ideologie e faziosità, con la libertà di avviare percorsi di comprensione, riflessione e discussione nel doveroso conflitto delle interpretazioni che rende la classe, come dice Romano Luperini, una comunità ermeneutica. Le classi devono sempre essere comunità ermeneutiche. Perché è nella misura in cui un fatto di attualità ha la possibilità di essere letto e discusso in classe da una figura colta e dai suoi allievi che lo spessore dei saperi disciplinari - lingua, storia, scienza, arte, filosofia, tecnologia, diritto ecc. - può rivelarsi davvero formativo.

Non si insisterà mai abbastanza su questo aspetto relativo ai saperi. La scuola italiana vive una forma di scissione - e qui probabilmente sta l’equivoco di fondo di cui discuto - tra l’impianto trasmissivo e accademico dei saperi disciplinari, foraggiato dalla manualistica e dalle attese delle famiglie (degli alunni bravi), e la retorica sulla cittadinanza e sull’educazione civica. La buggeratura delle trentatré ore annue di educazione civica è un esempio lampante della deresponsabilizzazione complessiva della scuola italiana rispetto all’incandescenza dell’attualità, che rimane sui giornali e sui social mentre in classe si “studia” l’educazione civica. L’ossimoro è palese: l’educazione civica non si studia perché è un processo civico e culturale che si avvale di conoscenze ma anche di prassi discorsive e riflessive in cui si mette al centro della scena l’attualità in modo che chiunque possa prendere posizione.

Trovo del tutto naturale che, in un Paese in cui la libertà d’insegnamento è sancita dalla Costituzione perché ogni forma di censura è… censurata, possa e debba verificarsi che in un’aula scolastica si discuta di tutto quel che riguarda l’interesse comune, ed un governo di una Repubblica democratica deve considerare un successo anche la circostanza che una dirigente scolastica possa esercitare il suo ruolo educativo attraverso una lettera in cui ribadisce i valori a cui quel governo deve riferirsi senza se e senza ma. Ma finché la lettera della dirigente Savino costituirà un evento raro e finché la “politicizzazione” della scuola - nei termini in cui qui è stata risemantizzata - non sarà un fatto diffuso e scontato, perché richiesto dal mandato costituzionale, non mancherà mai il ministro di turno che interpreterà il proprio ruolo in senso censorio e sostanzialmente illiberale.

 

 

Scrive...

Maurizio Muraglia Docente di Lettere nei licei, formatore, già Presidente del Cidi Palermo

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