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08/01/2023

Una torsione del concetto di inclusione

di Maurizio Muraglia

In questo contributo vorrei riflettere, dal lato dell’insegnamento, sulla progressiva strisciante opacizzazione del confine tra inclusione scolastica e medicalizzazione del disagio, a partire dalla constatazione dell’aumento esponenziale di diagnosi che “certificano” svariate forme di svantaggio, dalla disabilità vera e propria al disturbo specifico di apprendimento al bisogno educativo speciale. Negli ultimi anni le scuole hanno familiarizzato con acronimi quali dsa, bes, pdp, che categorizzano la casistica dello svantaggio e dell’annessa progettualità dispensativa e compensativa.

“Stiamo assistendo ad un fenomeno di medicalizzazione che pesa nell’immaginario delle famiglie e degli insegnanti. Forse il fenomeno ha a che fare con una lettura  ansiosa del dolore umano o magari è una moda legata al mito del ben-essere come perfezione”. È quanto afferma Raffaele Iosa [1], ex dirigente tecnico ed esperto di inclusione e disabilità, che non da adesso coglie la pericolosa deriva di cui qui si tratta, ovvero la subordinazione burocratizzata dell’intervento pedagogico e didattico alla diagnostica che perviene quotidianamente sul tavolo dei consigli di classe.

Considero questa deriva una vera e propria torsione indebita del concetto di inclusione, che dovrebbe responsabilizzare tutti gli insegnanti e la progettualità didattica di ogni scuola nella direzione di una decisa flessibilità e adattabilità alle differenze che si presentano nelle aule scolastiche. Quel che invece si verifica ogni giorno di più, a fronte dell’esercito di piani didattici personalizzati che si stilano nelle scuole, è una forma di deresponsabilizzazione pedagogica dei docenti, che finiscono per agire inclusivamente - si fa per dire - piuttosto in virtù delle carte prodotte da personale medico che del loro mandato costituzionale.

Occorre denunciare l’estrema varietà di situazioni che vengono categorizzate quali bisogni educativi speciali e finiscono per generare tra i docenti l’idea perversa che si debba fare una scuola speciale per alcuni a fronte di una scuola normale per altri. Le cose non stanno così. Non esistono alunni per i quali l’intervento educativo e didattico non debba interrogarsi sul quadro socioemotivo che caratterizza le loro esistenze. Ogni alunno da questo punto di vista è speciale. È forte il rischio di creare una nicchia pietistica in cui l’alunno BES finisce per essere rinchiuso alimentando la propria percezione di estraneità dal resto della classe e la propria transizione dal disagio sociale al disagio scolastico. Escluso dalla normalità scolastica.

Giustamente Anna Grazia Stammati, presidente del CESP di Padova, rileva che “gli stessi insegnanti rischiano di leggere i comportamenti degli studenti e delle studentesse con la lente deformante della diagnosi clinica mettendo l’accento sui sintomi, le incapacità e i problemi, senza vedere le potenzialità, le capacità e gli interessi degli alunni, abdicando così al proprio ruolo, in nome di una delega ad un “esperto” ed etichettando difficoltà che dovrebbero essere gestite pedagogicamente”[2].

L’allarme non è da poco. Riguarda la specifica identità professionale dei docenti, che rischia ogni giorno di più di essere colonizzata da neuropsichiatri e operatori del sociale. È in pericolo il confine tra chi deve segnalare il disagio e chi ha il compito di favorire l’apprendimento. I docenti ormai tendono a non mettere in discussione quanto perviene loro dall’esterno per timore di eventuali ricorsi in caso di bocciature. Ed è invalsa ormai tra gli insegnanti l’opinione che le famiglie considerino i piani didattici individualizzati veri e propri salvacondotti per la promozione. Si tratta di un approccio inaccettabile alla questione del disagio, che di inclusivo ha ben poco e confonde le acque a tutti i livelli, sia a livello del rapporto scuola-famiglia, sia a livello del rapporto scuola-sanità, sia, purtroppo, a livello del rapporto docenti-studenti.  

Ormai non c’è classe in cui non siano presenti soggetti per i quali è predisposto un piano didattico differenziato: per i quali in altri termini l’inclusione si configura quale dovere burocratico. La coesistenza delle differenze, sancita dalla migliore pedagogia, si traduce tristemente in un’unica differenza: quella tra alunni con disagio ed alunni senza disagio. O forse tra famiglie con ansia da certificazione (o diffidenza verso le capacità inclusive della scuola) e famiglie che non hanno interesse a certificare alcunché.

Quel che sconcerta è constatare il sempre crescente numero di alunni che hanno il solo problema di un’ansia smisurata. Un’ansia che li paralizza in tutto. Appare surreale soltanto pensare che un simile dato debba essere certificato e che pertanto richieda non so quali protocolli specifici di intervento. Nella mia carriera ho incontrato tanti allievi certificati come BES che a fronte di una relazionalità accogliente e di una valutazione non burocratica e sdrammatizzata hanno mostrato tutto il loro valore. Lo stesso potrebbe dirsi per il cosiddetto disagio sociofamiliare. Basterebbe fare una scuola normale per non aver bisogno di ulteriori proliferazioni cartacee.

Ancora con le parole di Stammati: “È necessario aiutare i docenti a comprendere che si sta cercando di deprivarli della loro identità professionale e di renderli subalterni a psicologi e neuropsichiatri, mentre l’insegnante deve essere l’attore consapevole del processo di apprendimento dei propri studenti, permettendo l’accesso ai saperi e alle conoscenze dei giovani a lui/lei affidati. Bisogna indurre un cambio di passo nell’approccio educativo, per impedire che la scuola trasformi le differenze in diseguaglianze e che risposte mediche e clinico-terapeutiche a problematiche di ordine sociale prevalgano sui presupposti pedagogici del fare scuola, il cui compito è formare cittadini critici e consapevoli, soggetti attivi della comunità e del suo funzionamento democratico” [3].

Non si vuole negare qui la necessità che determinate disfunzionalità debbano trovare la giusta diagnostica e l’altrettanto giusta presa in carico da parte della scuola. Ma è difficile sfuggire al sospetto che sul terreno dell’inclusione qualcosa stia andando storto e che al compito di rimozione degli ostacoli sancito dalla Costituzione si sia sostituita la paralisi pedagogica di fronte alla medicalizzazione ormai inarrestabile degli stessi ostacoli.

 

Note

1. R. Palermo, "Alunni con disabilità in aumento. Raffaele Iosa: 'E’ in atto un processo di medicalizzazione di qualunque forma di disagio' ", in "Tecnica della Scuola", 10.09.2022.
2. A.G. Stammati, "il Laboratorio scuola-società sulla medicalizzazione del disagio scolastico", CESP Padova, 13.04.2021.
3. Ibid.
 

Per approfondire


M. Montanari, Emergenza bio-sociale e medicalizzazione a scuola: quali rischi?, "L'integrazione Scolastica e Sociale", Volume 19, Numero 4, Novembre 2020.

 

Scrive...

Maurizio Muraglia Docente di Lettere nei licei, formatore, già Presidente del Cidi Palermo

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