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28/10/2017

Un sostegno privo ancora di spessore e di reali azioni inclusive

di Samanta Vanni

Non è sicuramente una novità l’uso diffuso nella nostra cultura della parola “inclusione”, che rimanda a obiettivi e azioni soprattutto riguardanti la scuola. Già dalla Legge 181/71, si parlava di integrazione, con l'introduzione dei bambini con disabilità nelle classi comuni, eliminando quelle che fino ad allora erano state le “classi speciali”. 
Termini e aggettivi questi che hanno fatto eco nelle scuole, molte volte in questi anni, e di cui si è discusso fin troppo appartato nelle stanze del Ministero.

Il concetto di “scuola inclusiva”, quindi, avendo avuto un'evoluzione storico-culturale, ha subito cambiamenti notevoli di significato, in base alle diverse società che negli anni si sono delineate, ma oggi più che mai riveste un ruolo basilare: ritengo che sia un valore fondamentale e fondante, che sia l'identità stessa delle singole istituzioni scolastiche.

La disabilità è parte integrante della scuola e credo non si possa parlare di disabilità, senza citare l'inclusione. Gli articoli del Decreto Legge ne ribadiscono sicuramente l'importanza, sottolineando pure l'abbandono della vecchia concezione del PEI (Piano Educativo Individualizzato), rivalutandolo con un Progetto di vita degli studenti con disabilità molto più ampio, dove esiste l’azione di condivisione, che non riguarda solo l'insegnante di sostegno, ma ogni componente scolastica (dall'insegnante curricolare al personale ATA, dalle istituzioni del territorio al Dirigente Scolastico).

Ma, nonostante la mia approvazione delle novità importanti del Decreto, spesso gli “addetti ai lavori” si scontrano con le realtà di fatto. È risaputo infatti, che se da un lato le parole e le intenzioni sono da encomio, le ricadute sulla scuola, sul fare scuola, possono essere negative: le realtà scolastiche oggi si scontrano con le buonissime intenzioni. Ogni anno assisto nella scuola a fenomeni di docenti di sostegno nominati per tre giorni, supplenti che vanno e vengono, ore di sostegno sempre più esigue, strumenti mancanti, risorse materiali e soprattutto umane ridotte, che non possono dare alla scuola quello che richiederebbe. Per di più esiste ancora una mentalità che vede l'insegnante di sostegno in una funzione esclusiva, separata dalla didattica curricolare degli altri docenti della classe; questa mentalità non va di pari passo con la disabilità intesa come parte integrante della popolazione della scuola e soprattutto come parte integrante delle relazioni di vita.

Non solo sono favorevole all'inclusione scolastica, intesa come progetto di vita dello studente con disabilità nella scuola, ma sono una  insegnante di sostegno e  ne sono stata fautrice e portatrice in tutte le realtà in cui ho insegnato. Ma credo che per lavorare in questa direzione ci sia bisogno di maggiori strumenti materiali e umani e soprattutto di un cambiamento totale di visione della disabilità.

 

 

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