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scuola e cittadinanza

22/01/2024

Le retoriche dell’inclusione: quali differenze tra la realtà e le sue narrazioni

di Annamaria Palmieri

Viene da chiedersi come mai ogni volta che Ernesto Galli della Loggia  si esprime sulle (secondo lui)  disastrate condizioni della scuola italiana, le sue asserzioni sollevino tante reazioni, nonostante il fatto che ormai da molti anni la scuola pubblica sia messa quotidianamente in discussione da più parti, e da molteplici voci più o meno autorevoli: pensiamo alle numerose pubblicazioni, degli ultimi vent'anni, da titoli inequivocabili come “Di scuola si muore” (G. Pacchiano, Feltrinelli 1998) “La scuola si è rotta” (F. Antinucci, Laterza 2001), “La scuola non serve a niente”(A. Bajani, Laterza 2014), “La scuola bloccata” (A. Gavosto, Laterza 2022).
Ognuno di questi saggi, con le diverse prospettive e il taglio critico molto differente, ha avuto il pregio di suscitare un grido di allarme o richieste di aiuto, e si è accompagnata negli anni a numerosi cahiers de doléances provenienti dall’interno delle comunità scolastiche,  nonché all’attivismo a volte nocivo dei Ministri e dei Governi che si sono succeduti con i loro interventi a volte strutturali (si pensi alla Buona scuola di Renzi), più spesso episodici e frammentari.
Di certo, però,  le affermazioni di Galli della Loggia fanno più male: e sebbene sia noto ai più avvertiti in quale visione della scuola (conservatrice,  classista e/o meritocratica in senso selettivo) le uscite del professore affondino le radici, il clamore è sempre alto. le reazioni di sdegno sempre numerose.

Dopo l'uscita sui "BES, disabili e stranieri", del 12 Gennaio, a cui ha risposto l'editoriale di questa rivista con ben altra competenza e profondità della frettolosa semplificazione dello storico, le numerose reazioni di sdegno lo hanno costretto a  spiegarsi meglio, se non altro per non essere accusato di volere il ritorno alle classi differenziali per i disabili (cosa che in realtà non rinnega fino in fondo).
Bisogna dargli atto che nei suoi interventi  egli non le manda a dire: usando un linguaggio a tratti violento e dispregiativo, come quando ha sostenuto che i ragazzi stranieri sono “incapaci di spiccicare una parola d’italiano”(per questo colpevoli?),  o che la scuola italiana è “il regno della menzogna”,  Galli della Loggia costringe tutti noi che operiamo in campo educativo  ( e/o didattico-pedagogico)  partendo da premesse e visioni diametralmente opposte alle sue,  a ragionare di quella che Machiavelli avrebbe definito la “realtà effettuale”: cosa non funziona nelle strategie di inclusione messe in campo da 50 anni a questa parte? Ed è lecito, laddove le retoriche mostrano tutti i loro limiti, buttare il bambino con l’acqua sporca? Perché, inutile girarci intorno, i problemi ci sono e sono tanti: ma le difficoltà dipendono  dalla “mitizzazione” di principi sbagliati, come lascia intendere il professore,  o  piuttosto dagli errori commessi negli ultimi decenni  decostruendo e smantellando le conquiste faticose della stagione riformatrice dei decenni precedenti?
Ecco, forse bisognerebbe (lo consigliamo non tanto a Galli della Loggia ma a chi lo applaude)  fare un passo indietro e in primis rilevare un limite generale delle politiche scolastiche del ventennio che va dalla legge Moratti ad oggi: come suggeriva con grande intelligenza e non poca delusione Giulio Ferroni (altro titolo da riprendere, il suo, “La scuola impossibile”, Laterza 2015) , “tutti cercano la scuola del futuro e credono di trovarla in una visione del futuro,  che è però solo il riflesso dell’immagine del presente: non il presente reale, ma quello sognato(…)”: oramai tra strascichi, riprese, contraddizioni, negazioni, ripensamenti, il momento di grande rinnovamento della scuola ipotizzato a partire dal 1997 con l’autonomia scolastica è precipitato, scriveva Ferroni, in una “illusione riformistica”, che  - sommandosi alle derive neoliberiste della più recente  contemporaneità -  ha spento la passione e l’entusiasmo di quanti  pure avevano sperato in quel cambiamento."
In altre parole, chiedendo scusa per  le semplificazioni, possiamo affermare che dopo la stagione degli anni Sessanta e Settanta, che con la scuola media unica nel 1962, la liberalizzazione dell’accesso all’Università nel 1969, l’istituzione della scuola materna (1968), i decreti delegati del 1974 e la Legge 517 del 1977 sulla valutazione, sul diritto allo studio e l’integrazione degli studenti “portatori di handicap” aveva individuato una chiara direzione  per il nostro  sistema formativo pubblico, ovvero l’ampliamento dell’offerta di istruzione in senso democratico e con strumenti profondamente innovativi,  nei decenni successivi , in Italia come in Europa ( anche  per il tramite degli orientamenti dell’UNESCO  e dell’OCSE )  ci si è  progressivamente rimangiati il senso di quelle riforme, attraverso ambiguità e  contraddizioni  che ne hanno profondamente pregiudicato il successo.

Si può realizzare la scuola di massa attraverso insegnanti di massa? Ovvero puntando poco o nulla sulla classe docente, sulla sua formazione , passione e preparazione? Si può realizzare un decentramento che miri alla sussidiarietà col territorio e all’orizzontalità delle relazioni abbandonando poi  le scuole a se stesse o costringendole ad una rincorsa competitiva tra loro?

La verità, che Galli della Loggia non sottopone all’attenzione dei suoi lettori,  è che dagli anni 80 in poi  in Italia si sono alternati  negli interventi normativi  due modelli contrapposti sui compiti assegnati  all’istruzione nelle società contemporanee: uno che puntava allo sviluppo dei sistemi formativi in senso emancipatorio ed inclusivo, ex art. 3 comma 2 della Costituzione,  per rompere il muro della disuguaglianza di partenza e di arrivo, l’altro  che invece, enfatizzando concetti come “capitale umano”e competizione  (a livello globale e individuale), riprendeva dal neocapitalismo liberistico ormai  imperante una lettura economicistica delle finalità dell’istruzione. 
Una visione “umanistica” ed un’altra utilitaristica si sono mescolate e confuse generando avanzamenti e retromarce  nei processi di riforma,  resi  per questo sempre più ambigui e  zeppi di contraddizioni, come quelle che Galli della Loggia malamente denuncia.
Si guardi ad un esempio fra tutti:  la mancata discussione e il mancato completamento degli interventi sul curricolo, sui saperi, che sono cuore pulsante del sistema formativo, e sul quale si è agito in modo convulso e confuso:  a farne le spese negli ultimi venti anni è stata proprio quell’”autonomia di ricerca sperimentazione e sviluppo”, che doveva essere il volano di un maggiore protagonismo delle comunità scolastiche ed educanti nei processi di rinnovamento. La presenza di culture “altre” nella scuola, con l’ingresso degli studenti con background immigratorio, avrebbe potuto, anzi può tuttora rappresentare un’ enorme opportunità  di  arricchimento culturale  per il curricolo della scuola: se solo lo si interpretasse con strumenti adeguati, invece di lamentare le difficoltà di insegnamento e apprendimento della lingua italiana (peraltro diffuse anche per e tra gli studenti italofoni) tutte connesse a difficoltà di tipo burocratico-organizzativo oltre che culturale.

Ancora, eclatante l’esempio dell’affastellarsi di riforme sulla  valutazione, con il sovrapporsi anche qui di due culture, drammaticamente in conflitto tra loro: quella che enfatizza il ruolo del voto numerico  per classificare, premiare e punire, e quella che viceversa vuole  investire sul valore formativo e processuale del momento valutativo, che spesso viene messa alla berlina dai fautori del cosiddetto (finto) merito. Appare davvero miope addebitare questa crisi  di senso al fatto  che la scuola,  se prova ad  integrare stranieri e disabili,  diventa indulgente coi voti e con le classifiche di merito.

C’è confusione, questa è la verità. Quando l’illustre editorialista descrive aule piene di BES,  stranieri  e disabili, ci si chiede di quale scuola stia ragionando: scuola dell’obbligo, certamente,  o forse bienni dei professionali e dei tecnici, perché non  è difficile accorgersi, e sarebbe bene che lo facesse il legislatore, che sul nostro sistema pesa ancora  come un macigno la subdola tendenza alla  canalizzazione precoce  di tipo sociale  che -  amplificando i limiti dell’orientamento nella scuola media -  ribadisce e ratifica le differenze di partenza  tra  le platee studentesche e colloca tutta la “sfiga” in alcuni indirizzi scolastici (ad esempio i professionali)  e non in altri, col risultato che essi appaiono alla borghesia dei  benpensanti come ghetti da scansare. Così, mentre con una retorica menzognera si propaganda l’ultima riforma della filiera tecnologico-professionale , che toglie un anno di scuola a chi più ne ha bisogno, può accadere, a proposito di menzogne, che in certi licei continui a valere la logica premiale e selettiva di stampo gentiliano. Sono quelli in cui le classi si riducono dopo il biennio, quelli dove  le prove INVALSI non vanno male, quelli dove l’unica “dispersione scolastica” è data dai bocciati del primo anno. Quelli in cui ( e ci sono dati inequivocabili) allievi stranieri e diversamente abili non si iscrivono.
Ancora, a quale scuola si pensa, a quale formazione dei docenti si pensa, quando ci si lamenta delle politiche di reclutamento? Su queste ultime l’andirivieni normativo è stato particolarmente insidioso, generando effetti perversi: con l’abolizione dei percorsi di formazione delle SIS, con gli algoritmi  e i concorsi-sanatoria che scorrevano paralleli a quelli ordinari, per rispondere alla piaga della precarizzazione se ne sono generate altre, di piaghe, difficilmente sanabili.
Si aggiunga che, mentre tutto intorno nel mondo si muove e i contesti cambiano fluidamente, la relazione di insegnamento/apprendimento si complica perché deve  continuamente adeguarsi al “nuovo” senza punti di riferimento certi, essendo stato  adottato ormai in modo sistematico, di governo in governo, di provvedimento  in provvedimento,  un metodo  di tipo emergenziale e additivo, che porta ad aggiungere, aggiungere, aggiungere alle programmazioni e all’impianto disciplinare ogni sorta di  “buona intenzione” sacrificando  ogni ragionamento  scientificamente fondato sui saperi della scuola.

Sono queste le ragioni, alcune delle ragioni, per cui, forse,  non è la scuola italiana il “regno della menzogna”,  ma le narrazioni costruite su di essa e intorno ad essa:  e non c’è dubbio che, ribaltando ciò che ha scritto testualmente lo stesso Galli della Loggia,  finché esse resteranno  tali “la situazione non potrà che peggiorare” (citazione testuale). 

 

Scrive...

Annamaria Palmieri Laureata in Lettere, collabora con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli, già Presidente del Cidi Napoli e successivamente per due legislature Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli; attualmente dirige un istituto professionale a Torino.

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