Ho iniziato a leggere Fausta Cialente quattro anni fa. Non la conoscevo. Neanche il suo nome mi suonava noto, nonostante i miei anni triestini. Cercavo scrittrici da inserire nelle mie letture per il triennio, nel “controcanone “, come definisco quelle opere che propongo in classe per ovviare alla mancanza di voci alternative agli scrittori “bianchi, morti, occidentali” che costituiscono oltre il 90% del corpus letterario della manualistica scolastica.
Ho notato il suo nome per il luogo di nascita: Cagliari, la città dove vivo e insegno da 16 anni. Da quel momento ho iniziato a leggere tutto quello che potevo e a cercare le trasmissioni radiofoniche alle quali aveva partecipato. Scrivere di lei mi costringe a tenere sotto controllo i toni agiografici: capita quando la biografia di una scrittrice ci sembra così forte e importante da rischiare di surclassare l’esperienza estetica della lettura. Ma nel caso di Fausta Cialente sono certa di non correre alcun rischio di sopravvalutazione: vita e arte hanno raggiunto altezze e profondità ugualmente straordinarie.
Lo scorso anno, poi, a Novembre, in occasione dei 30 anni dalla morte, ho pensato che farla conoscere ad altre insegnanti che avrebbero potuto proporne la lettura in classe fosse il modo migliore per farne riaffiorare l’opera. Così è nato il gruppo di lettura “Leggere insieme Fausta Cialente” avviato con le filosofe femministe del collettivo “Pensare in presenza”. L’esperienza è ancora in corso e si è tramutata in “Leggere insieme Fausta Cialente e le altre”. L’intento è di continuare la lettura di altre voci femminili delle quali si sono perse le tracce. Ci siamo dette: perché aspettare che l’editoria scolastica apra il canone alle scrittrici e ne pubblichi i testi? Le insegnanti in quasi tutti gli ordini scolastici sono la maggioranza: il canone lo possiamo aprire noi.
Veniamo allora alla nostra prima “ri-scoperta”.
Nel suo memoir, Le quattro ragazze Wiselberger, con il quale vince lo Strega nel 1976 (dopo essere arrivata seconda una volta con Ballata levantina e essere entrata in cinquina un’altra con Un inverno freddissimo), Fausta Cialente riflette sulla sua traiettoria di intellettuale e scrive che quando si era impegnata nella lotta antifascista aveva messo da parte la scrittura. Le sembrava di perdere tempo con delle storielle. È per questa frase che ho iniziato ad ammirarla, ma le sono stata profondamente grata per quella che aggiunge subito dopo: “ora (a 76 anni, quando scriveva il memoir) so che mi sbagliavo, ma allora era così”.
In quel momento mi è venuta in mente, Ananke, la Dea greca della necessità che Platone rappresenta con le Parche che filano il destino degli umani sulle sue ginocchia. Tutta la densissima vita di Fausta Cialente è stata sotto il segno di Ananke, nel segno di un agire frutto della necessità, come sinonimo di fare etico. E giusto. Si fa quello che è giusto, quello che si deve per gli altri e le altre, prima di fare quello che è giusto per sé stessi. Non è moralismo, niente di più lontano dalla sua scrittura le tirate moralistiche: è, ripeto, senso dell’etica. Una frase che condensa la sua poetica potrebbe essere questa: “un’opera letteraria non dovrebbe mai essere un’evasione soltanto, una specie di caldo cuscino da mettere sotto i piedi infreddoliti in una cattiva stagione”.
Fausta Cialente è cagliaritana solo per nascita. Nasce a Cagliari nel 1898 e muore a Panbourne, in Gran Bretagna, nel 1994: vive perciò la condizione di “straniera ovunque” fin dall’infanzia. In quanto figlia di un ufficiale di carriera è costretta a continui cambiamenti di residenza. A 23 anni sposa Enrico Terni, musicologo, compositore ma anche agente di cambio e con lui va a vivere ad Alessandria d’Egitto che a quel tempo era una città internazionale e cosmopolita, un miscuglio di lingue e di culture: greci, siriani, italiani, francesi, inglesi vivevano all’insegna della multicultura. Era anche una città connotata da una cosa che Fausta Cialente nota subito: la grande frattura del mondo coloniale europeo con quello degli egiziani poveri e ferocemente sfruttati dagli europei. Due mondi in uno, profondamente separati nel segno dell’alterità completa che sarà il sostrato dei suoi romanzi levantini: Cortile a Cleopatra e Ballata levantina. Lei e il marito saranno i brillanti, intelligenti e coltissimi animatori della vita intellettuale di questa Alessandria cosmopolita; ma la cosa per la quale si sentiva di dover ringraziare la sorte era l’aver potuto evitare di vivere in Italia durante il periodo fascista. Per lei era disgustosa, anche a distanza, quella paccottiglia nazionalistica e violenta che infarciva la retorica del Regime, dalla quale si sentiva antropologicamente, prima che politicamente, lontana.
L’esordio letterario sarà però con un romanzo ambientato a Trieste, la città della odiata e amata madre. Natalia, uscito nel 1930, attirerà l’attenzione di Massimo Bontempelli, presidente del premio dei 10 che la Cialente, al suo esordio, vince. Ma la censura fascista le impedì di ricevere il premio e impedì la circolazione dell’opera e non tanto, come potremmo credere, perché in quel romanzo c’era un episodio di amore lesbico, ma perché il padre della protagonista, ufficiale di carriera, esprime aspre critiche nei confronti dei comandi delle forze armate responsabili della disfatta di Caporetto. I fascisti le intimano di cancellare quelle pagine. Fausta rifiuta e il romanzo cade nell’oblio fino agli Anni Ottanta. (Ananke, ricordiamoci: si fa quello che si deve, non quello che conviene).
Natalia descrive un personaggio femminile che in qualche modo ritornerà anche negli altri romanzi: è un personaggio di donna che compie un percorso di consapevolezza, caratteristica che ritornerà in tutti i personaggi femminili della Cialente, la cui opera potrebbe essere sommariamente etichettata come un grimaldello teso a distruggere “il sogno d’amore” (copyright Lea Melandri) e anche lo stereotipo della maternità che potremmo definire “mediterranea”, con la madre che sacrifica la sua vita per i figli. A questa idea preferisce semmai quella di genitorialità, come già aveva scritto Sibilla Aleramo in Una donna. Del resto Sibilla e Fausta, nonostante la differenza generazionale, saranno molto legate e si scriveranno per anni.
Comunque, le sue, sono donne prismatiche, che devono evolvere per diventare “madri a se stesse”. Solo allora possono stare in un rapporto. Sono un po’ tutte il contraltare di Emma Bovary. In generale, per le donne - ma anche per gli uomini - sembra esistere uno stampo sociale nel quale vengono irrimediabilmente colate le identità individuali e Fausta Cialente combatte, con la sua scrittura, questi stampi sociali che mettono ai margini quei tratti che si discostano dagli stereotipi, soprattutto di genere. Solo attraverso la scelta libera e l’evoluzione personale c’è la vita e, forse, anche l’amore. Questa, secondo me, è la cifra narrativa del suo lavoro e il motivo per cui lei è così importante.
Altra costante della sua opera è il ripudio per ogni forma di retorica nazionalista che già si legge nella figura del padre di Natalia, ufficiale disfattista, e che tornerà in altri personaggi. Ne Le quattro ragazze Wieselberger, Cialente, lancia un terribile j’accuse anche contro l’irredentismo e la retorica interventista nel primo conflitto mondiale e la borghesia che s’infervorava per la guerra, nascondendo sotto l’entusiasmo ideologico, logiche d’interesse finanziario. Il nazionalismo per Fausta Cialente è una sorta di laboratorio del Fascismo che ne sarebbe seguito. Così viene annunciata alla famiglia Cialente la morte dell’amato cugino Fabio, irredentista e interventista, da parte di un maggiore dell’esercito, suo commilitone: “Guardandoci in viso finì quindi il suo racconto: li aveva sbarrati a un tratto quegli occhi che forse non vedevano più nulla, e con la voce di un bambino angosciato in preda a un grande spavento l’aveva sentito gemere: “O mamma mia, la cacca, la cacca, la cacca!” e dopo qualche singulto era stata la fine. “Spesso tocca ai morenti, lo sappiamo”, precisò il maggiore lisciandosi i baffi e guardò a terra”.
Non credo di aver mai letto nulla di più lapidario riguardo alla guerra: è così che finiscono gli slanci bellicisti e le esaltazioni patriottiche.
E di fatti questa insofferenza per le retoriche nazionaliste e il Fascismo di natura prepolitica, maturerà in un’attività politica vera nel 1940 quando interrompe la scrittura dei romanzi e si trasferisce al Cairo dove tiene una rubrica quotidiana e poi dirige fino al 1943 una radio, Radio Cairo, sovvenzionata dagli inglesi con i quali ben presto entrerà in conflitto per il loro (sono parole sue) “razzismo imperialista” ma con i quali in forza di Ananke collabora per un’attività di contropropaganda antifascista per le truppe italiane in Medioriente. La sua trasmissione e il suo stesso nome furono messi all’indice dal Regime: era proibito ascoltare Fausta Cialente come era proibito ascoltare Radio Londra.
Dopo la liberazione, lascia il marito e torna in Italia dove alterna decenni di scrittura giornalistica per Rinascita, per l’Unità e per Noi donne, di scrittura per il cinema e di attività di traduttrice dall’inglese, a decenni nei quali si dedica prevalentemente alla letteratura: le due attività non si sovrapporranno mai nella sua vita.
I suoi reportage e le sue inchieste degli Anni Cinquanta sullo sfruttamento del lavoro delle donne - delle retare che costruivano le reti da pesca per i pescatori toscani per poche lire al pezzo o delle mondine che lavoravano fino al nono mese di gravidanza - sono testimonianza di un femminismo militante d’avanguardia.
Dopo tutto questo possiamo lecitamente chiederci come sia stato possibile che Fausta Cialente sia scomparsa dai radar della cultura italiana. I motivi sono molti. Intanto questo imporre una voce sempre critica ma molto in anticipo sui tempi: Fausta Cialente è stata un’intellettuale engagé mentre molti (non tutti) quelli che lo saranno negli Anni Cinquanta e Sessanta, furono convintamente o per opportunismo Fascisti; poi la sua critica per la morale borghese di qualsiasi schieramento politico (una cosa che non ti rende simpatica a nessuno), la rivendicazione ostinata della sua autonomia intellettuale poco incline ai settarismi, alle “cricche” della nostra classe intellettuale, sempre e per sempre piuttosto provinciale (basti pensare che la stampa, quando a 78 anni vinse lo Strega, la definì “la nonna della letteratura italiana” e la sua opera fu etichettata come “la Storia all’uncinetto”); infine il grande deterrente: il suo essere una scrittrice donna.
La somma di tutti questi motivi non le ha riservato la notorietà che avrebbe meritato. E questo secondo me è un danno per la nostra cultura che, anche con questo breve ricordo, speriamo di iniziare a risarcire.