Inizierei con la cosa più noiosa e per certi versi dolorosa che sono i dati delle prove Invalsi. Da quando le prove nazionali vengono effettuate, si è spalancata agli occhi degli insegnanti nella sua concretezza e nella sua dimensione allargata, una realtà che probabilmente già percepivano o conoscevano nella dimensione e prospettiva limitata della loro esperienza: i dati ci dicono che più del 30% degli studenti italiani che frequenta il terzo anno della scuola superiore di primo grado non raggiunge un livello sufficiente di competenza alfabetica funzionale. Cambia poco se si analizzano i dati relativi ai ragazzi del secondo anno della scuola secondaria di secondo grado.
Allargando, tuttavia, il campo di osservazione al rapporto degli italiani con la lettura, per esempio usando i recenti dati ISTAT, scopriamo che forse quello descritto dall’INVALSI non è un problema generazionale, se solo il 40,1 % dichiara di leggere almeno un libro all’anno per motivi non strettamente scolastici o professionali. Nella categoria “libro” ovviamente è compreso anche un libro di ricette, non necessariamente un romanzo, un saggio o una raccolta di poesie.
Questo significa che le centinaia di ore di lettura e di studio della letteratura, in dieci o più anni di scuola, non producono nessuna affezione negli studenti e nelle studentesse italiane all’esperienza letteraria. E questo non è certo un fenomeno recente (i dati riguardano la popolazione italiana dai 6 anni in su) [1].
Per quanta cura, passione, impegno, competenza si possa profondere nelle cose che insegniamo, manchiamo il nostro bersaglio fondamentale: in-segnare, lasciare un segno nei nostri studenti. La maggior parte di quelli a cui avremmo dovuto passare il desiderio della lettura, ci saluteranno senza tanti rimpianti per le ore di letteratura.
Forse il comune approccio al sapere, fatto di una ricognizione sempre più approfondita, dalla primaria all’università, di questo campo dello scibile non è il modo più adatto per formare un vero lettore o una vera lettrice. Sarà un modo perfetto per altre attività dell’ingegno, ma la mente che legge ha bisogno di altro.
Sarebbe facile, a questo punto, dare la colpa ai social, al cellulare, tra qualche tempo, c’è da giurarci si porterà sul banco degli imputati l’IA. Spesso lo facciamo. Strano, però, ai miei tempi, per lo stesso problema si incolpava la TV.
Della mia esperienza a scuola, non ricordo che mi sia nata lì la fame di storie, ma ricordo perfettamente che l’esercizio di analisi spinto fino alla vivisezione dei testi; ben fatto certo, ma mi sembrava sempre inutile e decisamente noioso.
Forse abbiamo avuto un approccio alla lettura e al letterario che non è funzionale allo scopo per il quale queste attività d’invenzione sono state concepite dalla mente umana.
Quello che facciamo (da ormai troppo tempo) a scuola, assomiglia ad una pratica un po’ bislacca di uno che compra un orologio, va a casa, lo ferma e lo apre per studiarne tutti gli ingranaggi senza mai o solo di rado guardare l’ora. Ma l’orologio serve soprattutto a sapere che ora è. Così come la bussola a indicare la direzione. Sapere come funziona l’orologio è compito dell’esperto, dell’orologiaio, anche per ripararlo quando si ferma, non di chi vuole sapere l’ora. L’osservazione degli ingranaggi potrebbe essere, semmai, un’operazione ulteriore, ma non il principale oggetto d’interesse di chi legge.
A scuola, invece facciamo esattamente questo: vivisezioniamo i testi, anzi più spesso una parte di essi, per capire da un’ala come funziona il volo di un uccello.
Così facendo ci perdiamo e facciamo perdere ai nostri studenti e alle nostre studentesse (che forse solo a scuola potrebbero avere la possibilità di farlo) l’esperienza di quello straordinario dispositivo di connessione che si istaura tra chi scrive e chi legge: due persone che vedono la stessa cosa ma in due modi completamente diversi. Stephen King nel suo manuale di scrittura [2] faceva questo esempio: immaginate una gabbia, in questa gabbia c’è un coniglio. Girate attorno alla gabbia, questo coniglio ha un numero otto sulla schiena. Quando un lettore o una lettrice legge queste parole il suo cervello avvia grazie alla lettura un processo d’immaginazione che lo porterà a dare il colore che preferisce al pelo del coniglio, a dare una forma alla gabbia, forse a dare una spiegazione al mistero del simbolo dell’infinito sulla schiena del coniglio. E nessuno immaginerà lo stesso coniglio di un altro: sarebbe come fare il sogno di un’altra persona.
Nel suo romanzo, un libro sapienziale per certi versi, “Insegnare al principe di Danimarca” Carla Melazzini, riflette sui danni dello strutturalismo: “La moda strutturalista è riuscita a surgelare e disattivare perfino le pagine più ricche di potenziale metaforico che sono i testi letterari. Mi veniva da piangere a vedere classi intere intente a dissezionare le pagine più belle sul tavolo anatomico. Per scoprire cosa? Non i significati che arricchiscono la vita, ma la fabula e l’intreccio, per non dire delle 31 funzioni di Propp. Come se a un bambino che non ha mai incontrato un animale si presentasse un capretto da sezionare e dissodare per capire come fanno i macellai. (…) Il testo letterario rimane il principale deposito di significati, purché non venga ucciso dalle pratiche letterarie.”
L’autrice nota sempre nelle stesse pagine che questa attività di smontaggio e rimontaggio si può rivelare utilissima per esempio per stimolare le competenze di meccanica di tanti ragazzi e ragazze ma andrebbe praticata su testi diversi da quelli letterari: analisi di discorsi politici, articoli di giornale, al limite anche testi di saggistica, per osservare i meccanismi dell’argomentazione.
Quello che dovremmo innanzitutto fare in classe, invece, è introdurre studenti e studentesse in quella realtà parallela del tutto individuale - perché frutto dell’immaginazione di ciascuno - che sospende per tutto il tempo della sua durata la nostra dimensione fisica per portarci in quello spazio metastatico dove ci trasferiamo quando leggiamo. Dovremmo cercare di far provare quell’esperienza di somma complessità e di profonda umanità somma felicità che è di chi scrive ma anche di chi legge perché la lettura è davvero un’azione altrettanto alta della scrittura, e funziona, per alcuni aspetti, allo stesso modo. Mi dà la possibilità di immaginare il coniglio che sarà la somma di tutti i conigli che ho visto in vita mia. Mi dà la possibilità di immaginare il mio coniglio. La lettura è un atto immaginativo esattamente come la scrittura.
Si fonda sull’individualità dell’essere umano, che è unico e irripetibile. Se riusciamo a far percepire questo, abbiamo agganciato i nostri lettori e le nostre lettrici. Sarà poi questione di trovare l’esca giusta per ognuno, proporre, cioè, in classe testi diversi per incontrare i gusti di tutte e tutti. L’incontro con il libro giusto è una scoperta individuale che ti dona la gioia del riconoscimento, diventa allora quasi un appuntamento col personaggio (più che con l’autore o l’autrice) che non sapevi di aver preso. L’insegnante dovrebbe essere solo (ma sarebbe già moltissimo) un buon Galeotto: dovrebbe favorire quell’incontro. Perché anche quando si tratta di una lettura condivisa (leggere ad alta voce in classe ricrea quella che è stata per secoli l’unica forma di lettura, nei convivi, nelle chiese, nei refettori dei monaci prima che la lettura individuale e silenziosa prendesse il sopravvento con il libro a stampa), essa agisce ermeneuticamente per il singolo oltre che per la comunità di lettori e sospende il solipsismo tipico dei tempi più recenti. Il confronto in classe sulle diverse recezioni della stessa opera, la scoperta che ognuno ha letto un libro diverso dall’altro anche se si è letto tutti la stessa opera, è una pratica democratica fecondissima.
Se è vero come diceva Sartre che “l’oggetto letterario è una strana trottola che non esiste se non in movimento” [3], per farla funzionare occorre un atto concreto che si chiama lettura. Sulla pagina ci sono solo segni neri: perché prendano corpo occorrono due cose: il coinvolgimento emotivo e la personificazione. I lettori reagiscono emotivamente ai personaggi dei romanzi sperimentando sentimenti analoghi a quelli suscitati da un’interazione con persone reali, nella vita reale [4].
Assumendo una prospettiva fenomenologica, si può affermare che l’esperienza della lettura di un testo letterario unisce emozioni, immaginazione e percezione in una dimensione dinamica, al contempo astratta e corporea, sensoriale e mentale. Un’esperienza storicamente e geograficamente determinata e pur tuttavia capace di attraversare spazio e tempo e di presentarsi al cospetto del lettore in un inesauribile ma personale hic et nunc.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto il motivo della radicata pratica del decostruzionismo sui banchi di scuola [5].
Questa pratica sulle opere letterarie fu introdotta con successo nella scuola italiana in quanto si riteneva, tra l’altro, che abituare il lettore a decodificare un testo complesso come quello letterario lo avrebbe reso capace di fare l’esegesi di altri testi, soprattutto di tipo pubblicitario. Era il tempo, tra gli Anni Settanta e gli Ottanta, nel quale il grande nemico era la società dei consumi. Il fine era giusto, ma come si è visto dai dati, questa pratica non ha sortito gli effetti sperati forse perché l’operazione presupponeva un approccio esclusivamente razionale al testo letterario. In anni più recenti, invece, si è assistito ad una forte rivalutazione pedagogica delle emozioni. L’interesse ha poi coinvolto la filosofia e le neuroscienze. Si attribuisce oggi al testo letterario un’importanza fondamentale per il riconoscimento e lo sviluppo delle emozioni; l’approccio allo studio dell’oggetto letterario si è perciò arricchito dell’aspetto dell’educazione all’affettività. [6]
D’altra parte, i documenti ministeriali aiutano malamente l’insegnante ad orientarsi nella selva di obiettivi in uscita alla fine del percorso liceale e dei tecnici e professionali, per le competenze di lingua e letteratura. Nel primo ambito, cioè la lingua, sembra prevalere un orientamento ancora legato ad una didattica tradizionale del letterario (enciclopedismo che mal si coniuga con la scuola delle competenze); nel secondo ambito, la letteratura, viene data enfasi alle abilità rispetto alle conoscenze. Le linee guida per i tecnici e i professionali, invece, seppure in forme ancora embrionali, offrono alcuni suggerimenti per declinare lo studio letterario in termini di competenza, sebbene anche qui l’impiego del verbo “riconoscere” sembra ancora alludere a una fruizione poco interattiva dei contenuti storico-letterari.” [7]
In ogni caso la tipologia A della prima prova dell’Esame di Stato, unica per tutti gli indirizzi di studio, prevede ancora un’analisi del testo letterario che affida al lavoro “formalistico” sul testo la parte di comprensione. Certo la didattica non dovrebbe essere finalizzata alle prove dell’Esame di Stato ma alla vita e alla persona, ma chiunque abbia insegnato nella scuola secondaria di secondo grado sa che il senso teleologico del mestiere dell’insegnante ha spesso come obiettivo primario proprio le prove d’Esame. È un modo di operare meccanicistico e utilitaristico sbagliato, ma molto difficile da estirpare. Quello che dovrebbe essere chiaro, invece, è che gli autori che noi studiamo e facciamo studiare a scuola non hanno scritto le loro opere perché venissero insegnate. La maggior parte di loro hanno scritto le storie pensando che qualcuno e le avrebbe lette, rendendole parte di sè.
Noi invece a scuola chiediamo raramente a studenti e studentesse di interrogarsi e interrogare gli altri componenti della classe sulle risonanze emotive – quindi ermeneutiche – del testo letto. Non permettiamo cioè alla narrazione di entrare nell’esperienza concreta ed epistemica di ciascuno di loro che è quella di conoscere l’Altro, il Diverso, di interpretare le menti altrui e le cose del mondo in una prospettiva individuale e sociale allo stesso tempo. [8]
Un’esperienza che mi sembra irrinunciabile anzi vitale proprio perché non solo individuale, ma sociale e prosociale. Non si tratta di diventare, attraverso la lettura e la letteratura, persone migliori. Come diceva Rilke, uno può benissimo leggere e la mattina dopo andare a lavorare ad Auschwitz; si tratta di diventare capaci di distinguere l’individuo dalla categoria nella quale spesso si tende ad inserire i “diversi da noi”: le donne, i giovani, i vecchi, i neri, gli omosessuali - pratica sia detto per inciso molto cara a tutti i totalitarismi che per passare dal diverso al nemico impiegano molto poco. E invece se c’è una cosa che si impara leggendo è che le sfumature della diversità rispetto alla mia “normalità” sono pari a tutti gli altri individui non solo esistenti, ma esistiti da quando homo è divenuto sapiens.
Gli uomini hanno inventato le arti per rappresentare alcuni loro simili alle prese con le storie che in qualche maniera fossero sintetizzabili in uno spettacolo teatrale, in una poesia, nelle pagine di un romanzo: miniature, navi in bottiglia di quella che è la complessità della vita ma straordinarie fonti di empatia con una direzione biunivoca perché la vita nutre la letteratura e la letteratura nutre la vita e l’umano. Se, quando insegniamo, non rispettiamo questo movimento vitale, condanniamo la letteratura a fare la farfalla immobilizzata con lo spillo nella bacheca dell’entomologo.
[1] Qui i dati ISTAT pubblicati nel mese di Dicembre 2024. I dati riportati da AIE (Associazione italiana editori ) differiscono da quelli iSTAT e arrivano al 73% di lettori che nella fascia d’età dai 15 ai 73 anni hanno letto almeno un libro in un anno perché la domanda rivolta al campione è diversa da quella di ISTAT e comprende anche i libri scolastici e manuali universitari o per le professioni.
[2] King S., On writing. Autobiografia di un mestiere, ed. italiana Pickwick, 2001.
[3] Sartre J.-P. “Che cos’è la letteratura”, Il Saggiatore, Milano, 1960, p. 136
[4] Susanne Keen ha dedicato un interessante studio allo sviluppo delle reazioni affettive nel lettore del testo letterario, in particolare di quelle che gli psicologi definiscono emozioni complesse, determinate per aspetti significativi da condizioni culturalmente e socialmente marcate. Keen S., Empathy and the novel, Oxford University Press, Oxford-New York, 2007.
[5] Un’interessante e completa analisi della storia della didattica del letterario con proposte innovative si può leggere in Giusti S., Dall’analisi del testo all’autobiografia del lettore: verso una didattica della lettura letteraria, «in Opera», II, 3, dicembre 2024, pp. 45-55.
[6] Sarebbe impossibile ripercorrere la storia degli studi in questo campo. Valga per tutti citare il lavoro, un successo planetario, di Martha Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni e in Italia i contribuiti in questo campo di Luigina Mortari (La sapienza del cuore), Daniele Bruzzone (La vita emotiva) e Laura Boella (Empatie).
[7] Cfr. Sclarandis C.-Spingola C:, La ricerca di un nuovo paradigma: l’insegnamento della letteratura nella scuola delle competenze, in Tonelli N., “Per una letteratura delle competenze: il progetto Compita e l’evoluzione dell’insegnamento dell’italiano a scuola”, Quaderni della ricerca, n. 6, Loescher, 2014 “A conferma del diverso orientamento di questi documenti, per il secondo biennio e per l’ultimo anno, nei licei sono gli Obiettivi specifici di apprendimento (osa) a modulare una disciplinarità ancora tradizionalmente intesa, mentre per i tecnici e i professionali sono privilegiate le Abilità distinte dai Contenuti. Nelle Indicazioni, dunque, l’obiettivo centrale dell’insegnamento letterario sembra rimanere prevalentemente la trasmissione del patrimonio simbolico della nostra civiltà. Ne deriva un enciclopedismo non facile da conciliare con la didattica attiva. Il contributo è consultabile liberamente sul sito dell’ADI.
[8] Mi rifaccio qui alla prospettiva della narrativa cognitiva per la quale la bibliografia è ormai copiosa. Si veda, tra le tante ricerche disponibili: Bernini M.- Caracciolo M., Lettura e scienze cognitive, Carocci, Roma, 2013, p. 93.