La maestra Gisella Galassi inizia ad insegnare nel 1940 in una scuola rurale dell’Appennino romagnolo; successivamente, dalle scuole della campagna romagnola negli anni ‘60 raggiunge Forlimpopoli, paese in cui abitava, dove incontra Francesca Rossi, insieme a lei pioniera della medesima esperienza didattica. Andrea Canevaro, da attento pedagogista, riconobbe il valore del loro lavoro, spronandole a lasciare traccia della loro ricerca pedagogica e didattica. Da questo incontro ebbe vita la pubblicazione del manuale “Più fatti che parole” – “La linea” editrice.
Un filo rosso lega Gisella ad un altro nome della migliore ricerca pedagogica degli anni’70, Mario Lodi. I due avevano intessuto un carteggio da cui si coglie sintonia per un fare scuola che rendeva protagonista l’alunno, e la concezione della classe come ambiente privilegiato, spazio del gioco, della costruzione di relazioni, di scoperte e dialogo, che sviluppa ricerca e consapevolezza dell’apprendimento. Si aprivano nuovi scenari educativi e didattici, in cui Gisella si distingueva dal modello di maestra come severa educatrice, ancora presente negli anni Sessanta, sostanziale espressione di una rassicurante retorica di matrice gentiliana. Fin dall’inizio della sua carriera Galassi coglie le questioni pedagogiche stringenti, perché aveva l’urgenza di dare risposte a bisogni concreti, e si avvicina alla pedagogia attiva. Cerca i suoi maestri per un confronto con chi aveva operato nella medesima direzione.
La relazione educativa, la comunicazione e il conversare in classe, che ne sono il canale privilegiato, focalizzano l’uso del parlato in una comunità di bambini per cui l’italiano è da conquistare come voce di un’esperienza comunitaria. Il cuore della sua lezione pedagogica sta in un uso della parola sempre agganciato alla realtà. Nella conversazione in classe, nel silenzio rispettoso dell’ascolto, così come nell’invito ad approfondire e a chiarire il senso dei termini usati, i bambini, soggetti attivi, si appropriavano del significato e dell’uso pertinente di quanto esprimevano. La guida della maestra aveva sempre un taglio critico, sostenuta anche da sagace ironia, attraverso un’analisi priva di preconcetti e di giudizi a priori, dove anche l’errore era stimolo, punto di partenza per spiegare dubbi, percorsi incerti e per sostenere una nuova ricerca. Ogni fase dell’apprendimento non presupponeva una meta stabilita, era l’avventura della mente ma anche dell’emozione che la guidava.
Oltre a collocare storicamente il lavoro di Gisella, ci guida oggi l’esigenza di capire quanto quella esperienza abbia ancora una forte valenza didattica innovativa. Allora la ricerca era sul campo. C’era un’idea di formazione e di sviluppo del bambino vòlta a realizzare già allora un progetto di cittadinanza attiva, dove individuo e società interagivano (così insegnava Don Milani seguendo i dettami costituzionali dell’art.3).
Per chi aveva conosciuto e vissuto il fascismo e la guerra, c’era il desiderio di un libero pensiero in un paese divenuto democratico. In quel contesto, interpretare la funzione docente significava offrire una risposta attiva e responsabile, costruire un progetto che portasse ogni alunno verso la consapevolezza del proprio apprendimento e della cooperazione. Oggi i progetti spesso vengono calati dall’alto nella scuola attraverso bandi, e concorsi, inibendo l’iniziativa del docente che difficilmente si sente ricercatore, rincorrendo una modernità elaborata in luoghi lontani dalla classe. A quella idea di formazione si è aggiunto oggi un modello sociale ed economico tratteggiato dalla logica del profitto, dell’utile e dell’efficienza che ha orientato la scuola a definire il profilo di un alunno privilegiando parametri del tutto diversi, come competizione, velocità, efficienza, capacità di resilienza. Se un bambino ha tempi e modalità diversi di apprendimento, rischia di essere tagliato fuori dai processi ordinari, e solo le certificazioni lo rimettono in pista, magari nella corsia di emergenza. L’esperienza educativa di Gisella può dare voce e far conoscere un lavoro di grande professionalità e ricerca di una donna che non ha avuto le stesse opportunità di essere conosciuta come Lodi o Rodari, ma che ha lasciato una traccia pedagogica altrettanto significativa. Allora Gisella si dovette confrontare con diverse stagioni: il fascismo, la guerra, gli inizi della sua carriera in montagna in un ambiente di povertà e privazioni, consapevole di lavorare in quelle realtà di frontiera, con la convinzione di dover colmare un debito che la società aveva nei confronti di quei bambini, ben sapendo che solo fornendo loro conoscenza e consapevolezza potevano riscattarsi. I suoi alunni vivevano un’età in cui le competenze del tessuto di provenienza, la domanda di istruzione, i bisogni esistenziali e la necessità di acquisire strumenti di lettura e di interpretazione della realtà erano il volano di quel processo di insegnamento apprendimento che aveva come suo fulcro la conversazione, in cui la parola confrontata ed espressa veniva ascoltata, trovava l’accoglienza, l’attenzione, creando un processo di senso che orientava l’insegnamento in maniera mirata e concreta. La realtà diventava una cartina al tornasole dove verificare la problematicità del sapere. Da questo tessuto si riconosceva la trama e l’ordito della sua ricerca sulla lingua parlata, sulla pregnanza della parola- per quanto era analitica l’indagine, per quanto sintetico era il risultato che si doveva concretizzare nell’efficacia e nell’autenticità della comunicazione. Gisella scrive [1]: “Il fatto educativo può essere preparato e programmato ma non lo si può organizzare finchè non lo si vive e i ragazzi non portino il loro contributo.” Negli anni Settanta c’era davvero il vento in poppa per la ricerca didattica e per scuola elementare: tempo pieno, nuovi programmi, la Legge 104 che riconosceva l’inserimento e l’integrazione degli alunni portatori di handicap, l’insegnante di sostegno come docente della classe e non dell’alunno e poi nel ‘77i decreti delegati con il coinvolgimento attivo di tutte le componenti della scuola. I seminari dell’MCE e del CIDI le dettero voce, furono occasione di confronto culturale, in particolare la sua riflessione sulla lingua accolse le ricerche linguistiche di Raffaele Simone, Tullio de Mauro, Jacobson, Lentin, Parisi e la sociolinguistica, le 10 tesi del GISCEL. Rivolse precisa attenzione alla lingua parlata non formale, da cui recuperò la dimensione della memoria orale, confluita nella ricerca storica che ha dato vita ai testi di “Quei giorni al mio paese - Fascismo e antifascismo in una ricerca condotta dagli alunni della quarta elementare di Forlimpopoli" (La Linea editrice,1975) e “Controstorie di due guerre mondiali” (La linea editrice, 1977), quest'ultimo scritto dagli stessi alunni della classe quinta.
Incisiva anche l’impronta di Dewey e Freinet per un lavoro fondato sull’esperienza cooperativa, nella convinzione che l’alunno sia portatore di cultura e in grado di applicare un metodo scientifico. Il docente crea le condizioni all’interno del gruppo classe per cui gli allievi siano al centro dell’attività e si decentra per osservare, indirizzare e valorizzare il lavoro del gruppo, cosa che permette al bambino di affinare strumenti di ricerca e apprendimento. Gisella e Francesca si sono dedicate alla formazione di docenti collaborando attivamente con l’MCE e con il CIDI. Diversi sono i suoi scritti sulla lingua parlata, pubblicati da B. Mondadori e Nuova Italia documentando un’esperienza di ricerca didattica e pedagogica che, però al di là degli addetti ai lavori, pochi hanno conosciuto. Si sono incontrate due vocazioni: quella della lingua di Gisella e quella della matematica di Francesca e insieme si sono inventate già a metà degli anni ‘60 il superamento del maestro unico, la pluralità della docenza, nonché la gratuità di un tempo scuola che andava oltre il curricolo. La loro esperienza si differenziava fortemente dai programmi del ‘55 fondati ancora sull’apprendimento strumentale: leggere, scrivere e far di conto. Nel ‘71 esistevano esperienze di tempo pieno e di attività integrative come a Rho in Lombardia, che però non intaccavano il modello di base del maestro unico. Solo nei programmi dell’85 venne disegnata un’idea di scuola come ambiente di apprendimento che richiedeva tempi distesi, un metodo di lavoro condiviso tra docenti di diverse discipline e documentato e si poneva come finalità la formazione dell’uomo e del cittadino. Dietro quel lavoro vi era la migliore ricerca scientifica che si misurava con i problemi reali della pedagogia linguistica, c’era la conoscenza sistematica delle abilità che si voleva far crescere nei ragazzi e quella degli strumenti più opportuni per raggiungerla.
L’esperienza di Gisella, così come quella di Francesca, si è mossa facendo da apripista ai documenti che dal ventennio successivo fino ad oggi rappresentano struttura culturale che garantisce cittadinanza consapevole in una scuola inclusiva ed efficace.
‘Del parlare’ a scuola, Cooperazione Educativa N. 3-4/1983
‘Leggere’ il bambino ascoltando, Cooperazione Educativa N. 10/1983
G. Galassi, G. Neri ‘Guardare, dire, conversare’, Cooperazione Educativa N. 11-12/1983 (numero monografico)
'Possiamo chiamare finestra, la porta?', Cooperazione Educativa N. 5/1985
'Il testo libero', Cooperazione Educativa N. 6/1985
'Come l’acqua in gabbia' in Cooperazione Educativa N. 12/1988
G. Galassi F. Rossi "Esperienza classi terze", Quaderno di Cooperazione Educativa, N. 9 ‘LA LINGUA NELLA SCUOLA DELL’OBBLIGO’
‘Il documento storico e il suo utilizzo nella ricerca d’ambiente’, in ‘Una ricerca sulla realtà contadina’ CE agosto 1972)
G. Galassi F. Rossi ‘Quei giorni nel mio paese’ e ‘Controstorie di due guerre mondiali’
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Nel 2022 INDIRE ha dedicato un convegno alla maestra Gisella Galassi, dal titolo "Più fatti più parole". Qui le registrazioni dei lavori.