La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi (Einaudi 2022) è un saggio rigoroso e documentato, ma ha la forza narrativa di un grande romanzo corale. E' un meraviglioso scrigno traboccante di storie vere.
Racconta la Tobagi che questo libro è nato da una curiosità e da un'occasione. Studiando gli anni Settanta, aveva lavorato sulle biografie di donne che in quegli anni non senza fatica sperimentavano la forza dirompente del femminismo nella propria vita quotidiana. Quando l'Istituto Storico della Resistenza di Torino le ha offerto di studiare un cospicuo fondo di fotografie scattate fra il 1943 e il 1945, ha accolto con entusiasmo l'opportunità di ampliare l'indagine verso la generazione delle loro madri, per tracciare una sorta di genealogia dell' emancipazione.
La partecipazione di migliaia di donne alla Resistenza è un dato emerso alla coscienza storiografica con grande ritardo: sia perché a lungo è stata privilegiata la dimensione prettamente militare della guerra partigiana, sia, soprattutto, per la forte sottovalutazione del loro apporto e per una sorta di imbarazzo intellettuale nel valutare un fenomeno inedito. E' stata la generazione di storiche segnate dalle esperienze di lotta politica degli anni Settanta a scoprire le voci delle donne partigiane. Ne sono nati libri importanti (anzitutto, Anna Maria Bruzzone, "In guerra senz'armi. Storie di donne. 1940-45", Laterza1995), accompagnati da un grande lavoro di documentazione, di registrazione di testimonianze e di interviste, di pubblicazione di autobiografie. A questo vasto patrimonio conservato dagli archivi storici attinge Benedetta Tobagi con insuperabile maestria per tessere il suo romanzo-saggio corale.
Le testimonianze delle partigiane (in gran parte giovanissime) vengono da lei montate e rifuse in una griglia tematica che dà conto dei diversi aspetti della lotta: la scelta, le armi, la paura, la tortura, la morte, ma anche l'amore e il sesso, l'incanto e il carnevale, la gioia di vivere, e infine il rientro nei ranghi. Le loro voci si intrecciano, ognuna col suo timbro (alcune più malinconiche, altre più politiche, altre ancora ironiche e irriverenti: penso a Trottolina, vitalissima e schietta), a comporre un'epica straordinaria, che a tratti si colora di venature picaresche. Parte integrante del discorso storico, fonte e documentazione, le fotografie sono l'ossatura del saggio, che da loro parte e a loro ritorna, raccontando, contestualizzando, analizzando. Sono circa 130 scatti in bianco e nero, quasi tutti in esterno. Gruppi misti di giovani sorridono; la famigliarità con cui i loro corpi posano intrecciati, vicini, confidenti, racconta qualcosa di inedito. Ragazze sole vanno in bicicletta su lunghe e vuote strade di campagna; partigiane giovanissime sfoggiano impeccabili capelli ondulati, ma portano spavaldamente i pantaloni, o imbracciano con orgoglio le proprie armi, lo sguardo dritto verso l'obiettivo.
Ognuna di queste immagini documenta una cesura di straordinaria importanza, di cui gli sguardi fieri di tutte le donne ritratte sono acutamente consapevoli: la conquista di una autonomia femminile completamente nuova. L'irruzione nello spazio pubblico. Persino in quello più gelosamente ed esclusivamente maschile: la guerra. Le ragazze che si gettano nella lotta partigiana sono, paradossalmente, le uniche vere volontarie della Resistenza italiana. Su di loro non grava la coscrizione obbligatoria: potrebbero starsene a casa ad aspettare la fine della guerra. Invece decidono di combattere. Sanno che potrebbero essere arrestate, torturate, uccise: vanno ugualmente. I compiti loro affidati sono di primaria importanza. Anche se vengono chiamate semplicemente staffette, termine che le sminuisce e svaluta, svolgono ruoli da ufficiale di collegamento: trasportano armi e munizioni, stampa clandestina, ordini; garantiscono la sopravvivenza delle bande rifornendole con medicine, viveri, abiti. Affrontano i posti di blocco – sole, inermi, a fronteggiare soldati nemici - con sorprendente freddezza. Ad alcune vengono affidate delicate operazioni di sabotaggio. Altre osano il grande salto: prendono le armi, combattono; le più determinate e sicure, conquistandosi addirittura il comando militare. E mentre assumono su di sé rischi immensi, imparano qualcosa di imprevisto e potentissimo. Ciò che accade alle donne partigiane nei venti mesi della resistenza italiana ha una tale densità storica ed esistenziale che si fa fatica a districarne tutti i fili.
Le motivazioni strettamente politiche (un antifascismo che ha radici estremamente eterogenee: per alcune è l'eredità di lotte famigliari, per altre è una scoperta quasi casuale, nata da incontri e sdegni recentissimi) si intrecciano con un groviglio di scoperte e di conquiste di cui le stesse resistenti si rendono conto soltanto a poco a poco. La lotta per la libertà di tutti genera infatti, per sua stessa logica interna, un secondo fronte di lotta. Alla coscienza di queste ragazze affiora – limpido, autoevidente – il bisogno di lottare anche per la propria libertà di donne. Non previsto – le voci magistralmente montate dalla Tobagi lo registrano con stupore – ma irresistibile. La rivolta contro la dittatura si amplia, si approfondisce, investe l'altra gerarchia 'naturale' cui sono sottoposte, quella maschile e familiare. Con la stessa ineluttabile forza di un seme che diventa frutto, la lotta contro il fascismo diventa anche, necessariamente, lotta contro il patriarcato. Le partigiane vengono da una società clericale, contadina, conservatrice. Il fascismo vi aveva aggiunto, oltre al rozzo machismo mussoliniano, il disprezzo del ministro e filosofo Gentile verso la mente femminile, incapace di astrazione perché appesantita dalla materialità del corpo-matrice: ne è emblema non si sa se più volgare o ottuso il divieto alle donne di insegnare filosofia nel triennio del liceo. Ma in quei pochi, brucianti mesi, le giovani resistenti si liberano della gabbia del 'femminile' patriarcale e sperimentano, per la prima volta nella storia italiana, tutte le possibilità dell'umano, fino ad allora declinabili solo al maschile. Nell'assunzione di responsabilità in prima persona, nel rischio costante della vita, nella necessità di prendere decisioni irrevocabili in cui è in gioco la salvezza propria e altrui, sperimentano la pienezza dell'essere soggetti pensanti e autonomi. E' un meraviglioso, euforico apprendistato alla libertà. Uscire di casa, agire, scegliere, conquistare una voce autorevole; imparare a pensare, scoprirsi intelligenti; decidere autonomamente su di sé; persino, per molte, spezzare la rigidità della segregazione sessuale, sentirsi libere di disporre del proprio corpo anche nell'amore. Essere persone, essere uguali: in dignità, in autonomia, in autorevolezza. Ne diventano consapevoli gradualmente; ma una volta gustata la gioia della libertà, nessuna è disposta a tornare indietro. Sono mesi di scoperte esaltanti. Tobagi dedica molto spazio alla nascita di questa nuova consapevolezza. In due capitoli divertiti e deliziosi, alcune ragazze raccontano come l'ebbrezza di scoprirsi forti si nutra anche dell'ironia sugli stereotipi, che loro imparano a volgere a proprio favore, recitando perfettamente – con le bombe in borsetta e i documenti stipati nel reggiseno - la svenevolezza e la fragilità che i soldati si aspettano da loro: “L'unica volta che ho messo il rossetto in vita mia è stato per mettere una bomba” (Teresa Mattei), “Affrontavo i posti di blocco con molta serenità (...) mi fermavano, mi facevano delle domande e io sviavo queste domande con delle risposte che potevano essere 'vuoi una sigaretta?', oppure 'mi hanno regalato del pane bianco, ne vuoi un pezzo?' Sotto avevo alto così di documenti, i piani di liberazione, tutte quelle cose lì che mi davano da portare” (Lucia Boetto Testori), “ciò che una staffetta deve saper fare: (…) far la faccia da scema, inventare, assaltare i camions ai posti di blocco” (Ida D'Este). E' un carnevale di libertà: la sovversione dei codici, la costruzione collettiva e quotidiana di un mondo differente. La famosa battuta di Calvino, 'quanto vi siete divertiti!' che schiettamente coglie l'intensità febbrile di quei mesi di impegno totale, per le donne deve essere moltiplicata per mille e ancora mille, perché per loro è uno stato di assoluta eccezione rispetto alla norma (alla casa, all'obbedienza, all'umiltà di chi è inferiore). Il coro delle voci lo ribadisce con unanime consapevolezza: “E' stato il periodo più bello della mia vita” (Nelia Benissone Costa),“Abbiamo passato giorni meravigliosi, con tutti i paesi intorno occupati (…) e noi laggiù a cantare!” (Tersilla Fenoglio, 'Trottolina'), , “Un'esperienza a cui nemmeno la maternità è paragonabile” (Gina Negrini), ”Per la prima volta prendevo decisioni importanti (…) e le assumevo da sola. (…). Questo sentimento siaccompagnava a una sensazione di straordinaria libertà” (Marisa Ombra).
Finito il carnevale di libertà, nel dopoguerra il ritorno alla vita quotidiana è amarissimo. La restaurazione dell'ordine comincia il giorno stesso della vittoria: in molte città, alle donne è vietato sfilare insieme con gli uomini, perché la folla le insulterebbe (il tabù patriarcale della verginità!) e la stessa onorabilità della lotta partigiana ne sarebbe compromessa. (“La gente diceva che erano delle puttane”, commenta la solita irriverenteTrottolina). Per scelta ideologica e politica, l'Italia non è pronta ad accogliere la nuova soggettività femminile. Tornate a casa, saranno di nuovo sottoposte al controllo dei padri, dei mariti, della reputazione; il loro destino tornerà a essere circoscritto alla maternità. Nonostante la Costituzione, le leggi che pesano sulla vita delle donne rimangono quelle fasciste: la contraccezione è un reato contro la stirpe, la moglie deve obbedienza al marito; a causa della loro emotività (!!), non possono diventare giudici. Il discorso pubblico si affretta a rinchiuderle nella dimensione ancillare che è l'unica cui siano legittimate. Le ventuno madri costituenti vengono tutte dalla lotta antifascista, ma scardinare il patriarcato sarà un lavoro ancora lungo, difficile, irto di ostacoli.
Aggiungo una considerazione. Il libro della Tobagi è chiarissimo nel definire che cosa sia la liberazione femminile. Pariarcato e fascismo si fondano sugli stessi elementi: gerarchia, autorità, sottomissione giuridica e sessuale delle donne. Lottare contro l'uno implica sempre necessariamente lottare contro l'altro. E' una consapevolezza tanto limpida quanto ovvia. Eppure, il femminismo si è frantumato da tempo in mille spezzoni, alcuni dei quali (quelli postcoloniali, per esempio) mettono in discussione l'universalismo dei diritti e etnicizzano il concetto stesso di libertà femminile, mettendolo in relazione con le culture e le religioni di appartenenza, e facendo proprie pratiche e tradizioni francamente oppressive. In un saggio come questo, mi conforta trovare la conferma che la strada per la libertà delle donne è una sola, logica, naturale, e che consiste in poche evidenti necessità: libertà di disporre del proprio corpo e del proprio destino; dignità di persona; autorevolezza, presa di parola; autonomia di soggetto giuridico.