Credo che concordiamo tutti -soprattutto vari esperti dell’educazione e utenti della scuola in quanto studenti e relativi genitori- sulla necessità di formare insegnanti adeguati, nelle conoscenze disciplinari e nelle competenze didattiche e psicopedagogiche, a una scuola capace di rispondere alle necessità formative delle nuove generazioni nella complessità del mondo moderno. Per questo, fin dall'inizio degli anni Novanta anche in Italia, si era introdotta una legge sulla specializzazione all'insegnamento presso le università (L. 341 del 19 luglio 1990), sul modello dei sistemi di formazione docenti dei maggiori Paesi europei. Si era reso ormai evidente infatti il fatto che il reclutamento degli insegnanti attraverso il solo concorso da tempo non assicurava più l’immissione nella scuola di docenti preparati professionalmente a rispondere ai bisogni diversificati dell'utenza attuale.
Con le Ssis (Scuole inter-ateneo di specializzazione per gli insegnanti, istituite in Italia a opera della suddetta L 341/1990 “Riforma degli ordinamenti didattici universitari”) si era sperimentato dal 1999 al 2009 come l'efficacia della formazione iniziale dell'insegnante dipenda dalla collaborazione che si riesce a instaurare tra università e scuola: da una parte l'insegnamento puramente accademico disciplinare e trasversale (riservato alle analisi settoriali e teoriche dei saperi scientifici e pedagogici) è sterile per il neolaureato alla ricerca di modelli traducibili nella dimensione scolastica delle conoscenze e della relazione educativa, dall'altra la cultura della scuola e il tirocinio stesso, se autoreferenziali, privi cioè del rapporto con la ricerca scientifica, insegnano ai futuri insegnanti quel bricolage pedagogico e didattico e quell'appiattimento sottoculturale dei contenuti disciplinari che deprivano, fino a vanificarla, la funzione formativa e istruttiva, culturale, della scuola. In seguito, con i governi che si sono succeduti a partire dalla chiusura delle Ssis ad opera della ministra dell’istruzione Mariastella Gelmini (IV governo Berlusconi 2008-2011), fino all’ultima riforma renziana detta della “Buona scuola”, non è stato mai abolito del tutto il tirocinio nella formazione degli insegnanti, pur minimizzandone e vanificandone i metodi.
In relazione alla "Legge di Bilancio" attualmente in discussione, le Associazioni professionali Anfis, Adi, Associazione prof.le Proteo Fare Sapere, CIDI, Clio ’92, Ddm-Go, Mce, Legambiente Scuola e Formazione, Oppi hanno rivolto un appello alle Commissioni parlamentari Bilancio e Cultura e Istruzione di Camera e Senato per sollecitare un "cambio di rotta nella formazione iniziale".
Con l’attuale “governo del cambiamento” il Miur a trazione leghista cancella i percorsi di abilitazione post-laurea, quelli che da Luigi Berlinguer fino alla L. 107/2015 (“La buona scuola”), passando per Mariastella Gelmini, erano diventati necessari per «imparare a insegnare». Dopo vent’anni di arruolamento specializzato nel presente il ministro dell’istruzione Marco Bussetti ha voluto stabilire in Legge di bilancio un più sbrigativo reclutamento dei docenti della scuola: mediante il concorso direttamente dopo la laurea, come prima del 1999, per assicurare sic et simpliciter quello svecchiamento della categoria, di cui la nostra scuola, pure innegabilmente, avrebbe bisogno. Ma il problema è che tale brutale semplificazione porta con sé un pericoloso azzeramento della formazione degli insegnanti, eliminando del tutto, in ogni sua forma e durata, il tirocinio. Così, inevitabilmente, entreranno in classe insegnanti più giovani, che si avvarranno nella didattica di insegnamenti con il vecchio metodo, basato sull’unico modello in possesso di tali nuovi docenti, cioè della lezione accademica ex cathedra, ormai ritenuta inefficace per produrre apprendimento nelle scuole di tutto il mondo.
Dal 1999 dopo il diploma di laurea (con 24 crediti in materie psico- pedagogiche, in questo caso) per formarsi alla cattedra serviva una scuola speciale (si chiamavano Siss, dal 1999 al 2010, e i suoi cicli formativi, al costo di 5000 euro, duravano due stagioni, o un Tirocinio formativo attivo lungo un anno (il Tfa, che costava in media 2.500 euro). Con la semplificazione e l’ordine di Bussetti esce di scena anche il Fit, acronimo per Formazione iniziale e tirocinio, allestito dall’ex ministra Valeria Fedeli per recuperare precari e creare un percorso che in tre anni portava il neolaureato a imparare a tenere una lezione e a relazionarsi con una classe. Oggi ogni forma di tirocinio viene cancellata, mantenendo solo un anno di valutazione del servizio, all’interno della scuola in cui si inizia l’insegnamento, come prima del 1999. L’obbligo di un certo numero di crediti relativi allo studio teorico di pedagogia e psicologica non può garantire da solo la formazione di quelle competenze didattiche e relazionali che costituiscono i requisiti indispensabili della professionalità docente. Chi vince il concorso per l’insegnamento potrà dunque scoprire solo in aula che non sa promuovere l’apprendimento della sua disciplina né gestire una classe.
Il tirocinio significava per il docente in formazione sperimentare e sperimentarsi in situazione professionale, sia nelle modalità pedagogico-didattiche di docente (stile di insegnamento) sia negli approcci metodologici al trattamento didattico del sapere disciplinare (in base alla propria concezione del relativo statuto epistemologico). La prima difficile sfida che percepisce l’insegnante novizio rispetto alle scelte didattiche della disciplina è sicuramente provocata dai vincoli imposti dai vari aspetti limitati e limitanti del tempo scolastico. Chi si misura per la prima volta con l’insegnamento, fresco di studi universitari, patisce, al primo impatto con la realtà scolastica, la difficoltà dello sproporzionato rapporto tra la vastità delle conoscenze che costituiscono la fisionomia stessa della propria disciplina e la ristrettezza inesorabile dei tempi imposti dalla scuola. Si deve parlare al plurale delle variabili temporali che vincolano l’insegnamento disciplinare in quanto oggi la generalizzazione della scuola e il riconoscimento della centralità dell’apprendimento (rispetto a quella del programma) hanno necessariamente moltiplicato le attenzioni e le azioni della didattica prendendosi appunto i propri tempi. Il tirocinio disciplinare dovrebbe essere svolto e guidato in modo da far assumere ai docenti novizi la consapevolezza di questi vincoli e qualche strumentazione per affrontarli.
Inoltre una personale attitudine comunicativa e le conoscenze pedagogiche e psicologiche soltanto teoriche non bastano a garantire a chi insegna sufficienti capacità di interazione (sia con il singolo sia con il gruppo classe) con gli studenti adolescenti in tutte le relative variabili odierne (sociologiche, psicologiche, patologiche, culturali, ecc.). Recenti fatti di cronaca, riguardanti violenze subite da insegnanti da parte di certi allievi, evidenziano ancora di più la necessità di formare sul campo, cioè sperimentalmente, le competenze relazionali che il docente deve possedere per poter affrontare con sufficiente sicurezza le varie dinamiche che possono scaturire nei rapporti con i propri studenti. Non per nulla negli ultimi giorni sono scesi in piazza gli studenti della Link con i dottorati di Adi e i lavoratori della conoscenza della Cgil con la motivazione che: «La semplificazione delle procedure non può andare a scapito della qualità dell’insegnamento».
Immagine a lato del testo: Demetrio Cosola, Il dettato (1891), Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino