Si è svolto lo scorso 11 dicembre un incontro a distanza di grande interesse, e molto partecipato, promosso da insegnare, la rivista online del Cidi: “Fate silenzio” - potere, parola, autorevolezza e relazioni nelle classi" [1]. Introdotto dalla direttrice Gloria Calì, l’appuntamento ha visto avvicendarsi gli interventi di Michele Arena (educatore e scrittore), Enrica Ena (maestra e insegnante nel CPIA) e Raffaella Corsi (insegnante alla Scuola secondaria di I grado), sapientemente coordinati da Beppe Bagni (già presidente nazionale del CIDI): ne è emerso un quadro che ha illuminato i tanti aspetti di una questione complessa quanto appassionante. Tema strutturale e più che mai attuale, in tempi di un malcelato ritorno alle politiche securitarie messe in atto da questo governo (si pensi al ddl sicurezza…), che nel versante delle politiche scolastiche assume le declinazioni dell’autoritarismo come suggello di ogni provvedimento, di ogni “discorso” sulla scuola.
Tanti sono stati gli spunti di riflessione sul pensare e fare la scuola, che mi hanno accompagnato nell’ascolto (attivo) durante l’incontro, in una sorta di “dialogo silenzioso” (sì, è questo che succede in contesti ben fatti…) con chi ha preso la parola per restituirci un punto di vista materiato di esperienze. Per questo, il mio contributo si pone in una linea ideale di proseguimento di quel dialogo, e si pensa anche adesso come un momento di confronto.Metto in fila dunque i pensieri, con la necessaria sintesi e con l’inevitabile “taglio” di prospettiva che la ricostruzione personale comporta. Raccolgo le suggestioni che mi hanno consegnato gli interventi sotto diversi “paragrafi”, che immagino in un reciproco rimando. A cominciare da un grande tema che ho sentito ricorrere nella ricca comunicazione di Michele Arena, intrisa di esperienze professionali ed echi personali che vanno in profondità, al di là di ogni contingenza presente. Lo traduco così, come mi è risuonato: c’è ancora una scuola di classe nel nostro Paese? E se sì, con quali connotazioni e quali emergenze? Dal suo racconto, che ripercorre un’attenta ricerca sul campo, materia della sua tesi di laurea, la risposta non può essere che positiva. Ma non è scontata, dal momento che un sessantennio di scuola “a larga base sociale” (per rifarmi alla definizione di Tullio De Mauro…) ci ha dato l’illusione prospettica di esserci lasciati alle spalle la scuola elitaria, la canalizzazione precoce e la vecchia scuola media ginnasiale di stampo gentiliano. Non è andata esattamente così. La selezione di classe, nel senso stretto che conosciamo dalla nostra storia, ha continuato ad agire come un fiume carsico, segnando precocemente destini sociali che apparentemente emergono solo al termine della scuola media (unica) ma che attraversano in realtà fin dall’inizio intere biografie. La dispersione scolastica, stando ai dati dell’anagrafe burocratica, è solo l’epifenomeno di questo lungo cammino dei sommersi che comincia con l’ingresso nel sistema di istruzione/educazione. Diceva acutamente Michele Arena nel suo intervento che gli esiti del percorso scolastico, nelle fasce sociali più fragili che accedono alla cosiddetta scuola della seconda opportunità approntata negli ambienti del Terzo settore, fanno da specchio alla distanza di classe che perdura tra i docenti e gli studenti, soprattutto in certi tipi di scuola superiore. Un’affermazione che mi ha fatto riflettere…E mi ha riportato una remota memoria, che altre volte era tornata ad interpellarmi, plastica rappresentazione delle “vestali della classe media” di cui parlava uno studio sociologico sui docenti a lungo dibattuto all’inizio degli anni Settanta [2].
In breve: anno 1972, giovane supplente in una scuola media del quartiere Nomentano a Roma, partecipai agli scrutini del I° quadrimestre, in sostituzione della collega di lettere, malata. Ebbi così accesso agli atti della scuola, e in particolare ai giudizi che, allora, venivano riportati su un registro generale ad uso “interno”, per accompagnare la pagella con i voti in decimi. Sul registro, a proposito di un’alunna, l’insegnante aveva annotato queste parole: “Di ottima famiglia […]”. A me, da poco uscita dagli studi universitari dove avevo avuto maestri come Guido Calogero e Aldo Visalberghi, quell’espressione fece un certo effetto: cosa c’entrava, nel contesto di un profilo di tipo scolastico? Soprattutto, cosa raccontava di quella scuola, di quell’insegnante e della sua idea di scuola? Di più, e in generale: quale immagine sociale veicola in un adolescente (in quel caso, un’alunna di seconda media…) che si senta percepita in quel modo? Quali relazioni tra pari possono svilupparsi in una classe in cui qualcuno/a è autorizzato/a a pensarsi “di ottima famiglia”? Che tipo di socialità svilupperà da adulto/a, se non una invincibile percezione di privilegio e, al più, un atteggiamento condiscendente o, peggio, animato da un “solidarismo” di maniera?
La scuola e il “potere” della valutazione.
Qualcuno mi dirà: ma era il 1972…! Già…ma siamo sicuri che da allora le cose siano davvero cambiate, nella profondità del tessuto sociale e delle sue rappresentazioni? Penso, per dare una prima risposta, all’uso punitivo/sanzionatorio che viene connesso alla valutazione e che, non a caso, i provvedimenti di questo governo hanno pienamente avallato. Penso alla correlazione, ahimè, ricorrente tra gli effetti negativi della valutazione, sul piano dell’autostima, e i soggetti più fragili (i cosiddetti quasi adatti) per condizione sociale, per contesto culturale, per stato personale. Se è legittimo “leggere” il sistema scolastico anche attraverso la categoria interpretativa del potere, certamente la valutazione è un momento emblematico di questa modalità pervasiva che attraversa le relazioni tra docenti e studenti. Personalmente, tendo a pensare che questa connotazione prescinda dallo strumento che si utilizza, e insomma che una modalità descrittivo/qualitativa non sia al riguardo più risolutiva, per l’ordine dei problemi che suscita, rispetto al sistema numerico/decimale. Può fare meno male, certo, per via delle formule attenuate che il giudizio descrittivo consente di usare…ma non risolve la questione di fondo, che lascio aperta e che mi introduce al grande tema, ben noto per esperienza a chi insegna, dell’asimmetria della relazione educativa. Risuonava in me questo tema, mentre ascoltavo gli interventi di Enrica Ena e di Raffaella Corsi. Nella specificità delle loro esperienze, e anche dei diversi segmenti scolastici di cui si occupano, un filo sottile mi sembrava dipanarsi, che potrei definire così: la capacità di assumere fino in fondo tale asimmetria, come un fatto strutturale e perciò non oltrepassabile, senza negarla per così dire “demagogicamente”, ma senza rinunciare a gestirla con consapevolezza pedagogica. Dalle loro parole, dai racconti che ne sono emersi, l’asimmetria era lo strumento per esercitare la regia educativa: una presenza attenta e mite. E’ quello che ci chiedono gli alunni (e gli adulti…) di ogni età. L’educatore “autorevole” è tale perché assume il senso profondo dell’etimo: lascia crescere, “tiene” ma non trat-tiene. In questa postura, arriva a toccare il limite della sua azione: quello per cui non tutto cade nella “giurisdizione” educativo-didattica, per cui c’è un resto che vi si sottrae sia nel singolo che nel microcosmo della classe. La classe, ci ha ricordato Raffaella Corsi, è un organismo vivo e cangiante, come l’età dei suoi componenti nel percorso magmatico dalla preadolescenza all’adolescenza.
La pedagogia della “soglia
Beppe Bagni, nella sua preziosa opera di “cucitura” tra un intervento e l’altro, ha tratteggiato con poche linee l’istanza che anima i ragazzi e le ragazze nell’incontro con la scuola e gli insegnanti. Alla domanda, compresa nel questionario proposto in una scuola media fiorentina, sul luogo della scuola in cui ci si sentisse più a proprio agio, un ragazzino ha risposto: “Il terzo gradino”. Di che parlava? Era l’ultimo gradino di una breve rampa di ingresso, abbastanza in alto per avere la visuale e il contatto dei suoi compagni, ma non ancora alla portata della vista degli adulti con compiti di sorveglianza. Bellissima immagine, felice da parte di Beppe la scelta di proporcela durante il nostro incontro. Ecco, mi sono detta anche dopo ripensandoci, dovremmo lavorare per sviluppare una sorta di pedagogia della soglia, quella giusta distanza che fa sentire i nostri alunni e le nostre alunne prossimi ad un contesto educativo e istituzionale ma non serrati dentro un sistema di sorveglianza potenzialmente invasivo. Non basta: quella soglia vale anche per noi educatori e insegnanti. E se fosse possibile anche per noi, nei nostri contesti di lavoro, trovare, metaforicamente, un terzo gradino, che ci preservi dalla tentazione del didatticismo onnipervasivo, dei protocolli di “osservazione minuto per minuto” in cui si perde spesso di vista quello che accade nel corpo vivo della classe fuori del nostro sguardo e, qualche volta, nonostante esso? C’è una via per sottrarci al rischio di cedere all’accanimento terapeutico, che è l’altra faccia del potere indiscriminato?
Un’asimmetria “a perdere”.
Qui entriamo nel nucleo più profondo del sistema di relazioni e in ultima analisi di una professionalità che riflette su di sé, sui suoi limiti e sulle sue condizioni. L’asimmetria della relazione educativa è, sì, strutturale, ma è al tempo stesso destinata all’autoscioglimento. Ci ho spesso pensato nei lunghi anni della mia esperienza di docente alla Scuola media…C’è qualcosa di intrinsecamente drammatico in questa connotazione, che ci attraversa in tutta la nostra vita da insegnanti, come una consapevolezza che in certi passaggi si fa più chiara ed in altri più sfumata: l’asimmetria “lavora” al proprio superamento, la relazione riesce se accompagna verso la propria fine.
Molto meglio di me lo ha detto don Lorenzo Milani, con quella schiettezza radicale che è propria di chi non ha bisogno di illusioni per coltivare un’autentica speranza. Con queste sue parole, che ho qualche volta proposto in contesti professionali di riflessione e formazione, voglio concludere:
“La scuola deve tendere tutto nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: ‹Povera vecchia, non ti intendi più di nulla› e la scuola risponde con la rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice solo che il suo figliolo sia vivo e ribelle”.[3]
[1] La registrazione completa di questo incontro è pubblicata: https://www.insegnareonline.com/rivista/iniziative/fate-silenzio
[2] M. Barbagli - M. Dei, "Le vestali della classe media", ed. Il Mulino 1972
[3] Lettere di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana