Pubblichiamo la seconda parte dell'articolo. Per leggere la Parte I
Tra passato, presente e futuro
Nonostante tutti i difetti e le manchevolezze, io credo che la scuola abbia ancora un ruolo importante proprio nella società contemporanea. Ma ad alcune condizioni. La prima ha a che fare con il tempo. La scuola non è mai stata contemporanea a se stessa: si rivolge con il sapere attuale, a individui che dovranno essere capaci di gestire il sapere futuro. Per molti secoli questo gap non è stato rilevante: i saperi erano stabili, duraturi, e anche le novità che si affacciavano all’orizzonte lo facevano in modo lento, graduale, dando il tempo per accomodamenti non traumatici. Oggi qual è il sapere? Le scoperte scientifiche, tecnologiche, ma anche storiche (ambito un tempo ritenuto tra i più immutabili, almeno per l’interpretazione dell’antichità), le innovazioni nel campo dei linguaggi, delle forme espressive, si susseguono e si sovrappongono con la stessa velocità con la quale vengono lanciati sul mercato nuovi modelli di cellulari. E la scuola cosa fa? Sta lì, ferma, chiusa e orgogliosa della sua chiusura. Una grande percentuale di insegnanti pensa che ciò che sa coincida con ciò che bisogna sapere, con ciò che vale la pena sapere, con ciò che va tramandato e salvaguardato a tutti i costi. Si può prescindere dai ragazzini che abbiamo davanti, ma non dalla conoscenza de “I Promessi sposi” o dalle equazioni di primo grado.
La scuola serve a se stessa, si autoalimenta e autogiustifica; si autoprepara nonostante (e talvolta, contro) ciò che sta fuori. Citando un libro di successo, potremmo dire che “Resistere non serve a niente”. E siccome la realtà è più forte di qualunque professore o preside, va per conto suo, sopportando quando può e arrivando a ignorare la “monade”. In tutto questo la selezione di contenuti e metodi migliori non sposta e non può spostare la lancetta della qualità, dell’equità e dell’efficacia. Perché a fronte di un leggero miglioramento sul piano della significatività e della vicinanza alla vita degli alunni, resta invariata la convinzione che sono quelle le cose che vanno sapute, che lo scopo della scuola sia che i bambini imparino quei concetti.
Io credo invece che quei concetti siano importanti (fondamentali, direi) ma non tanto in se stessi, quanto per il processo attraverso il quali li abbiamo raggiunti. E il loro ottenimento rimane importante, non perché siano utili alla vita, ma perché esso rappresenta la testimonianza dell’interiorizzazione e della condivisione di un modo più ampio, più rigoroso, più aperto di guardare la realtà. In questo senso posso continuare a usare Omero, le frazioni, Mozart. Ma non nella presunzione e arroganza che senza di loro la vita sia meno degna di essere vissuta. Posso continuare perché io conosco solo loro e non so niente di arte visiva contemporanea, o di musica hi pop, o di letteratura africana, o di teoria delle stringhe; e di questo non posso vantarmi (come fanno tanti colleghi). Ma proprio assumendo consapevolmente questo limite, posso usare (questa volta pienamente) Dante e le equivalenze come strumenti fondamentali per educare attraverso la cultura. Questo per me è il compito della scuola; questo per me dovrebbe essere scritto nei piani per l’inclusività che vanno inseriti nei POF entro Ottobre.
Vero, bello, buono
Mentre rimuginavo su queste cose, mi è tornato in mente un libro che ho letto un paio di anni fa, scritto da Howard Gardner: Verità, bellezza, bontà (Feltrinelli, Milano, 2011), che poi se ne è “tirati” dietro altri, in una catena associativa che forse la psicoanalisi potrebbe spiegare meglio di un’analisi coerente e di una chiamata in causa della ragionevolezza. Questa catena mi piace, mi ci ritrovo, mi consola e mi fa pensare che pur nella loro semplicità le considerazioni sopraesposte, non siano del tutto insensate.
“Qualsiasi società che speri di resistere nel tempo deve trovare il modo di garantire che questi concetti e questi valori vengano trasmessi in una forma accettabile alle generazioni successive. Perché se rinunciamo….. ci rassegniamo a un mondo in cui nulla ha valore, in cui tutto va bene allo stesso modo”. Così scrive Gardner a proposito della verità, della bellezza e della bontà. Sono questi i valori che vanno trasmessi; è questa la funzione della scuola. Cos’è vero, bello, buono? Sicuramente esistono esempi capaci di mettere d’accordo una larga parte di umanità ed è da quelli che gli insegnanti possono partire. Ma l’obiettivo non è imparare quando è nato Mozart (aiuta davvero ad apprezzare la sua musica, almeno in un certo livello di scolarità?), quanto piuttosto comprendere come mai quella melodia, quel ritmo ci emoziona e ci migliora.
“Le nostre tre virtù e i concetti a cui si riferiscono, non fanno parte del genoma umano, o della specie umana, in nessun senso semplice o immediato.” È per questo che c’è bisogno della scuola: l’esposizione pura e semplice non basta. C’è bisogno di un’educazione a vedere, sentire, indagare; c’è bisogno di un “addestramento” all’osservazione, all’analisi, alla discussione, al confronto, al pensiero.
“Badate che la comprensione disciplinare non è la stessa cosa della pura accumulazione dei fatti. I fatti vanno bene, ma in sé non comportano alcuna comprensione disciplinare. Inoltre, in quest’epoca di dispositivi portatili e tascabili, ha poco senso memorizzare fatti disponibili all’istante. Gli educatori invece devono aiutare gli studenti a comprendere i modi in cui gli specialisti di ogni disciplina stabiliscono e confermano la conoscenza. Questa acquisizione comporta di necessità l’immersione nei tipi di attività in cui sono regolarmente impegnati gli specialisti: formulare dimostrazioni in matematica, realizzare osservazioni sistematiche e condurre esperimenti in ambito scientifico, oppure esaminare con grande attenzione documenti e materiali grafici nel campo storico.”
Insieme, Cogitamus
Come possiamo fare questo? Attraverso quale strategia profondamente educativa (già di per sé, al di là del campo di applicazione)? E qui entra in gioco il secondo libro: Insieme di Richard Sennet (Feltrinelli, Milano, 2012).
“Nell’Ottocento, Jacob Burckhardt definì l’epoca moderna un’”età di brutali semplificatori”. Oggi l’effetto incrociato del bisogno di una solidarietà rassicurante e dell’insicurezza economica tende a produrre una vita sociale brutalmente semplificata, dominata da due sole polarità: “noi contro loro” e “ciascuno da solo”. […] I brutali semplificatori della modernità possono forse inibire e distorcere la nostra capacità di vivere e lavorare insieme, ma non cancellano, non possono cancellare tale capacità.” Perché, aggiungo io, imparare a distinguere il vero, il bello e il buono, in ultima analisi serve a vivere meglio con gli altri.
“Mentre scrivevo quel libro, rimasi colpito dalla presenza ricorrente di una particolare dote sociale preziosa nello svolgimento di attività pratiche: la capacità di collaborare. La collaborazione rende più agevole il portare a compimento le cose e la condivisione può sopperire a eventuali carenze individuali. La tendenza alla collaborazione è iscritta nei nostri geni, ma non deve rimanere confinata ai comportamenti di routine; ha bisogno di essere sviluppata e approfondita.”
E di nuovo torna la scuola. Dove si impara insieme agli altri? In quale altro luogo quella capacità scritta nei nostri geni può trovare piena realizzazione e può diventare fine e strumento dell’educazione? In una scuola diversa da quella dei modelli televisivi, nei quali il modo è lo scontro, la gara, la competizione perenne non con se stessi ma con gli “Amici” dell’altra squadra. È una visione antica (vorrei dire vecchia) dell’affermazione e della realizzazione degli individui. Nel mondo attuale (ed è probabile supporre, a maggior ragione, nel mondo futuro) la complessità progressiva dei processi, delle informazioni, delle tecnologie, la loro interconnessione e reciproca dipendenza, sposta l’attenzione dall’individuo al gruppo. Come già dimostra ampiamente la ricerca scientifica nella quale solo gruppi composti da ricercatori con specifiche competenze, ma animati da uno stesso obiettivo, raggiungono risultati di una qualche rilevanza. Persino i nomi delle discipline stanno mutando e acquisendo dimensioni plurime: biogenetica, bioingegneria, psicosociolinguistica ecc.
“Oltre la presunta autonomia della ricerca scientifica si manifesta il carattere concreto e collettivo del sapere. È il passaggio dal cogito cartesiano al cogitamus, perché nessuno può più percorrere in solitudine le strade della conoscenza.” A parlare questa volta è Bruno Latour, da Cogitamus (Il Mulino, Bologna, 2013), con cui concludo la mia proposta di riflessione.
Nel testo: Howard Gardner e Richard Sennet. Immagine a lato: Elena Gianchi, uova di struzzo incisa e forata da Arteinlab