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02/11/2020

Dell’insegnare e della mediazione didattica

di Maurizio Muraglia

Si susseguono su carta e in rete i contributi sulla didattica a distanza. Ci provano in tanti a fornire linee guida, suggerimenti e istruzioni per l’uso, e si deve riconoscere che questa generale mobilitazione intellettuale non fa male alla scuola, purché non si fermi al tecnicismo didattico che si traduce spesso nell’enfasi sul contesto e sul mezzo digitale. La riduzione della didattica a tecnica infatti le fa perdere lo spessore educativo e relazionale che le appartiene sempre, ed in questa fase in modo quanto mai cogente.
Quando nella prassi professionale insegnamento ed educazione cessano di viaggiare sullo stesso convoglio, si rischia da un lato di alzare il sipario retorico sulla cittadinanza e dall’altro di allestire il palcoscenico sui contenuti disciplinari ridotti a pacchetti di nozioni da riprodurre. In fondo la recente reintroduzione dell’ “Educazione civica” fa vedere chiaramente lo iato tra i due livelli e la confusione tra aspetti di carattere educativo e civico ed aspetti di carattere, per così dire, didattico-curricolare. Il riduzionismo è evidente: è nata la cittadinanza come materia scolastica.
La didattica dell’emergenza, sia in forme miste presenza-distanza, sia in forme totalmente telematiche, non sposta di un millimetro la necessità della saldatura tra educazione e insegnamento, che sola a mio parere apre la via verso un apprendimento pieno di sensatezza. Nell’allestimento delle didattiche a distanza si insiste molto sull’utilizzo sapiente del sincrono e dell’asincrono, che giustamente vanno alternati e integrati, e si veicolano tecniche sempre più sofisticate di rilevamento degli apprendimenti che siano capaci di neutralizzare tutti gli ostacoli insiti nella postura telematica degli allievi. Un insegnante che voglia saper fare bene la didattica a distanza è invitato a misurarsi con la capacità di maneggiare contenuti digitali, e mi guarderei bene qui dal sottovalutare quest’aspetto.
Meno frequentata invece è la riflessione sul necessario trattamento delle conoscenze richiesto da qualsiasi assetto didattico. La materia sta al confine tra epistemologia delle discipline, pedagogia e didattica, e pertanto non risulta popolare, ma proprio questo tempo emergenziale la ripropone con forza per diversi ordini di motivi, tra cui la fatalmente minore disponibilità emotiva e motivazionale dei ragazzi a reggere l’urto di un nozionismo accumulativo e riproduttivo.
Come dire che il trasmissivo, se per trasmissivo si intende un modo “non trattato” di gestire le conoscenze, con il suo carico di irrilevanza didattica, finisce in questa contingenza per diventare sconsigliabilissimo. Quando parlo di trattamento delle conoscenze sollevo obiezioni da parte di chi maneggia costrutti nobilissimi più o meno riconducibili alla centralità-del-soggetto-che-apprende. Parlare di trattamento delle conoscenze, dopo decenni di omelie sulla necessità di spostarsi dall’insegnamento all’apprendimento, può apparire come un clamoroso spostamento del focus dall’apprendere all’insegnare. Un gesto di retroguardia insomma. Ma per dare spessore a quel famoso soggetto che apprende occorre proprio ricollocare il focus sull’insegnare, e farlo in modo da creare un dinamismo conoscitivo molto più spinto davanti alla (finta) comunità di allievi che sta dietro il monitor. Gli appunti di un insegnante che prende sul serio il trattamento delle conoscenze possono forse contenere alcune azioni semplici e didatticamente sagge.

Prima: contestualizzare. Mettere il contenuto dentro un contesto, a due livelli. Il contesto scolastico, ovvero il posto che quell’argomento o quel problema assume all’interno del dominio disciplinare e del quadro generale dei saperi, ed il contesto culturale, ovvero la forza che quell’apprendimento assume per la vita personale e sociale. Quest’ultima evocabile anche come cittadinanza. Cittadinanza didatticamente assunta.
Seconda: demanualizzare. L’assetto telematico non permette lungaggini. Ma neppure banalizzazioni. Occorre presentare il contenuto in forma altamente emblematica e modellizzata, con pochi particolari di dettaglio e forte sostanza conoscitiva e riflessiva (come si può considerare “appreso” questo argomento?). Il libro di testo in questo rischia di non centrare l’obiettivo, a meno che non si individuino, al suo interno, strumenti e stimoli capaci di coinvolgere gli alunni nella rielaborazione personale.
Terza: agire. Poche linee di presentazione (anche attraverso qualche video ben costruito di non più di 6-7 minuti), e poi subito un’attività breve preferibilmente scritta, e anch’essa non superiore a 10-15 minuti: sintesi critiche, parole-chiave o soltanto brainstorming individuale (“A cosa ti fa pensare…?”). Un riscontro basato sulla prima reattività al contenuto proposto.
Quarta: discutere. Invitati ad esprimere la propria percezione del tema affrontato, gli allievi contribuiscono alla creazione di un puzzle fatalmente disorganico, fatto di concetti-guida, costrutti semilavorati, questioni aperte, collegamenti possibili, che rappresenta la base per la costruzione condivisa della conoscenza.

Una lezione a distanza fisica, ma a forte vicinanza cognitiva, può concludersi con la sensazione che occorra procedere ancora sulla via della ricerca. Il video-stimolo iniziale sarà consegnato agli allievi perché possano tornarci riguardando gli appunti presi durante la discussione. L’approdo non deve essere necessariamente una conoscenza organica e manualizzata, ma un insieme di questioni aperte o di metodologie possibili, su cui ritornare negli appuntamenti successivi. Un cantiere sempre aperto. È la scuola che insegna a domandare. A interrogare il contenuto.
Oggi, con apparente paradosso, avanguardia educativa può voler dire sollevare il velo sulla sapienza didattica elaborata in decenni di studio, ricerca e pratiche, e riscoprire l’eterna funzione della mediazione didattica, che riguarda sempre il rapporto dell’insegnante con il proprio sapere e la sua capacità di farlo diventare esperienza conoscitiva ed esperienza di vita per gli allievi. Un paio di decenni fa pensavo che questo lavoro intellettualmente fine potesse favorire negli alunni qualcosa definibile come “competenze culturali”. Poi ho visto il degenerare dell’accezione di questo costrutto nelle mani di intellettuali snob e di burocrati della didattica, involontariamente alleati. Ho deposto il nomen tenendo la res. Che rimane nel tempo l’unica persistente innovazione, a fronte delle mode didattiche che si susseguono: lavorare sulle conoscenze (meglio: lavorare le conoscenze) e favorire la loro trasformazione in cultura degli studenti. A prova di virus.

Scrive...

Maurizio Muraglia Docente di Lettere nei licei, formatore, già Presidente del Cidi Palermo

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