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10/10/2023

La scomparsa di un sociologo eccentrico: Domenico De Masi

di Rosanna Angelelli

La scomparsa improvvisa di Domenico De Masi sottrae alla cultura italiana  un’ importante voce dell'area culturale, ancorchè politica, che si definisce "di sinistra"[1], impegnata in riflessioni e teorizzazioni sui molteplici fenomeni politico sociali, civili e di costume nella contemporaneità del nostro paese, ma anche eventi di respiro mondiale (è nota la sua attenzione ai processi di modernizzazione dei cosiddetti BRICS, tra cui in primis quelli riguardanti il Brasile di Lula) esposti in numerosi saggi a stampa, testimonianze online, interviste video, ecc.

De Masi è stato un illustre accademico sempre in contatto con la vita del presente, di cui non ha disdegnato accogliere atteggiamenti spesso sanzionati sia a destra che a sinistra. Nella polemica tra boomers e millennials, tra gli acculturati analogici del secolo scorso e quelli digitalizzati dell’attuale, ha amato evidenziare in positivo il nomadismo culturale e territoriale, la multirazzialità, il pluralismo linguistico ed estetico, le disibinizioni sessuali, l’attenzione all’ecologia dei secondi rispetto ai primi. Ci sembra allora riduttivo etichettare la sua poliedricità entro il campo della sociologia  e di un mentoring politico semplificato a sostegno dei 5 stelle. Proviamo a vedere alcuni aspetti di questa complessità.

Di lui abbiamo apprezzato anzitutto l’intento di creare una cornice storica a ogni sua qualsiasi riflessione, sia di carattere sociale sia più strettamente soggettiva. Ricordiamo che nel 2020, interessati alla discussione sul profilo professionale dell’insegnante (il “corpo insegnante” fa parte della categoria del Pubblico Impiego? oppure il compito istruttivo educativo che la Costituzione gli assegna lo caratterizza entro funzioni assai più complesse di quelle di un ordinato dispensatore della cultura nazionale?), abbiamo ricavato dalla lettura di un suo saggio sul pubblico impiego[2] una grande quantità  di elementi  storici utilizzabili anche per riflettere sia sulla storia della scuola pubblica italiana della fine del Novecento sia in particolare sulla riforma della cosiddetta Buona scuola del governo Renzi datata ormai a 18 anni fa.

La storia della Pubblica Amministrazione in questo suo saggio ma anche in tante altre sue scritture viene delineata non tanto nel suo sviluppo istituzionale complessivo quanto in quello delle sue relazioni interne, vale a dire della formazione culturale e dei vari livelli di competenze dei suoi funzionari, e di una riorganizzazione gerarchica che solo all’apparenza  avrebbe esaltato la progettualità dei team poiché ne mantenne in realtà la separatezza dei ruoli. Nel saggio si dimostra che il taylorismo si è trasmesso dal piano industriale (privato) a quello amministrativo (pubblico) sin dalle riforme degli anni Novanta dello scorso secolo, quando la neo globalizzazione prese a considerare la riorganizzazione degli apparati più significativi dello Stato in nome di un efficientismo aziendalistico perseguito con interventi legislativi per lo più calati dall’alto. Soprattutto senza coinvolgere il personale in un’adesione critica consapevole dei nuovi criteri organizzativi, mantenendo invece  la separatezza di mansioni individuali e di settore prive di collegamenti con l’esecutivo e di convinta collegialità. L'aspetto più interessante di De Masi, tuttavia, ci sembra emergere dalla sua consapevolezza che tutte le teorie interpretative della realtà nascono dall’esperienza concreta dell’individuo in relazione con gli altri e che esse sono soggette a rinnovate delineazioni che ne possono alterare o cambiare profondamente la loro rappresentazione, anche nella sostanza delle loro definizioni[3]. Questa plastica visione dell’esperienza relazionale e degli apprendimenti allargati che essa produce, ha salvato De Masi dal cadere in quello schematismo sistemico che pretende di dare una permanenza di significato a definizioni in realtà ormai vuote. Un esempio: De Masi aborre dal continuare a usare la definizione “post-industriale” per le società dell’Occidente contemporaneo e in particolar modo per l’Unione Europea, ritenendo che il profilo della contemporaneità poggi non più su certe categorie di derivazione economicistica (divisione per classi, concetto di classe egemone, rivendicazioni dei diritti di classe, ecc.) ma su sfaccettature culturali largamente imprevedibili di un capitalismo che si esprime soprattutto nelle forme più varie (e attrattive) della comunicazione. La necessità di far partire l’analisi sociale dall’interscambio linguistico e iconico delle tecnologie mass mediatiche dell’oggi (la pubblicità e la comunicazione social in primis) apre e complica gli schemi interpretativi della sociologia classica. Significativa è stata la consapevolezza di De Masi sulle difficoltà che un sociologo della contemporaneità per l’appunto incontra nell’intento di individuare gli intrecci complessi della comunicazione e le loro inafferrabili conseguenze sul piano esistenziale secondo le teorie di Edgar Morin o di Domenico Ceruti.  

Nonostante la limpidezza e la serenità del suo stile di scrittura e la piacevole ironia comunicativa nelle sue comunicazioni verbali, egli allora acquista il profilo di un intellettuale tutt’altro che rassicurante e accomodante. Non è stato certo il Dulcamara dalle ricette facili come alla fine lo diventò, per esempio, Alberoni negli anni Ottanta del secolo scorso, quando cercò di spostare gli effetti negativi di taluni fenomeni  strutturali di un capitalismo periodicamente in crisi dalla loro necessaria risoluzione sul piano della stabilità pubblica a quello di un privato  borghese, tutto intento a ricercare nell’esperienza soggettiva quell’ amore che tutto vince rispetto alle costrittive strutture sociali che lo affannano. Anche De Masi ha dedicato attenzione alla costruzione della felicità ma senza relegarla al benessere di una appartata (ed egoistica) esperienza individuale. “Non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. Questo è l’esito raggiunto da una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità"[4]
É forse questa una delle cause del tentativo di banalizzare o etichettare il suo pensiero da parte di certa stampa politica di destra ma anche  di sinistra. C’è stata molta diffidenza in certe sue teorizzazioni di forme “nuove” di politica economica e sociale (citiamo lo smart working, il reddito di cittadinanza, il salario minimo). De Masi, consapevole di vivere in una società i cui centri di potere economico vorrebbero mantenere ingessati i propri opportunismi economico finanziari, (per es. leggendo solo in termini apocalittici il processo tecnologico oppure dando un appoggio incondizionato al neoliberismo), ha ben colto quanto i due atteggiamenti finiscano per annullarsi aprendo le porte all’equivalenza demonizzante di qualsiasi teoria. Un esempio: lo smart working era stato da lui teorizzato, forse con una buona dose di ingenuità, come forma di liberazione del lavoro dalle gabbie di una organizzazione troppo rigida, alla ricerca della valorizzazione di una maggiore autonomia creativa. Durante la pandemia esso è servito in salsa italiana a mandare avanti certe produzioni, ma poi l’impresa è tornata sui vecchi assetti di controllo riducendo le azioni a distanza in nome di una presenza più rassicurante. Di fatto si è temuta la sperimentazione di un orario flessibile regolato dalla personalità del lavoratore.

E’ vero che De Masi nelle strettoie e nell’opacità di tutta la politica italiana si è positivamente interessato alle critiche antisistemiche dei 5stelle della prima formazione, ma è anche vero che ha avuto dei ripensamenti a favore della ripresa di uno studio approfondito dei significati diversi  che ha assunto l’esperienza del lavoro contemporaneo in tutti i suoi aspetti. Si tratta di una risignificazione necessaria a creare cornici di senso diverse rispetto alle categorie di cui si è servita la sociologia novecentesca per fenomeni complessi su cui si sono applicate interpretazioni via via cristallizzate quali tempo libero, tecnologia, innovazione, digitalizzazione, ecc.
Particolarmente interessanti anche ai fini di una risonanza del suo pensiero all’interno della scuola e nello specifico alla divisione tra istruzione umanistica e tecnica, risultano le sue considerazioni a proposito della cultura del lavoro[5] che lui considera profondamente trasformata rispetto alla valenza produttiva e sociale che essa ha avuto fino al II dopoguerra del secolo scorso. C’è stato il discutibile tentativo (a suo parere pienamente riuscito) di estendere il profilo della cultura del lavoro manifatturiero a tutte le altre attività con una generalizzazione banalizzante: lo stesso termine lavoro è usato per il minatore, la segretaria, l’imprenditore, il giornalista e l’artista, né i sociologi si sono interessati  ”a trovare vocaboli diversi per indicare le diversissime prestazioni”. E quando sociologi più recenti hanno analizzato il profilo dei knowledge workers, i lavoratori della conoscenza, lo hanno fatto in ottica tayloristica e aziendalistica. “I metodi con cui le organizzazioni sono strutturati sono sempre gli stessi: unità di tempo e di luogo; marcatempi e gerarchie”. Si è cambiato il nome ai padroni, diventati imprenditori, i dipendenti sono diventati collaboratori ma anche quando si pretende creatività per raggiungere obbiettivi post industriali, i compiti continuano a essere organizzati alla maniera industriale, come se fossero esecutivi. Da qui possiamo ipotizzare che anche i termini innovazione/ innovativo sono privi di una loro effettiva finalità di ricerca e invenzione, ma siano legittimati entro le richieste di un sistema produttivo rigido.

 

Note

[1]  In molti passi delle sue opere (vedi, per es. in La felicità negata, Einaudi, 2022), oppure nelle numerose testimonianze sulla sua formazione culturale e professionale rilasciate online o ricavabili dal suo sito, De Masi dichiara esplicitamente la sua formazione marxista, l’attenzione alle idee della Scuola sociologica di Francoforte, la critica agli aspetti più deleteri del capitalismo globalizzato. 

[2]  D. De Masi, Lo Stato necessario, Lavoro e pubblico impiego nell’Italia postindustriale, Rizzoli 2020.

[3]  Una piacevole eco di queste considerazioni si trova in rete nella "profetica" intervista allo studioso da parte di Luca Telese

[4]  Questo commento è tratto dalla prima di copertina di La felicità negata, Einaudi 2022.

[5]  Il tema del lavoro è presente in varie sfaccettature teoriche in molte opere dell’autore, a partire dalla ricerca- previsione a più voci sull’argomento occupazione richiesta nel 2015 a De Masi dai 5 stelle e pubblicata da Marsilio nel 2017 (Cfr. Lavoro 2025, Il futuro dell’occupazione e della disoccupazione, Marsilio 2017). E ancora sull’argomento si legga  Id, il lavoro nel XXI secolo, Einaudi 2018; Id, Il mondo è giovane ancora. Conversazione sul futuro con Maria Serena Palieri, Rizzoli, 2018. Tutte opere che insistono sull’ assunto per la contemporaneità che: “Per progettare qualsiasi futuro bisogna prevederlo” e che per capire l’occupazione di domani il progetto ha bisogno dell’ “incontro tra politici e intellettuali, gli uni in possesso dei poteri necessari per progettare, gli altri esperti delle discipline necessarie per prevedere”.

Parole chiave: complessità

Scrive...

Rosanna Angelelli Di formazione classica, già insegnante di materie letterarie nei licei, è stata per anni redattrice di "insegnare".

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