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editoriali

27/06/2023

insegnare

di M. Gloria Calì

Che cosa significa “insegnare”? Sul vocabolario Treccani leggiamo, come definizione primaria: “In genere, far sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione, o apprenda il modo di fare un lavoro, di esercitare un’attività, di far funzionare un meccanismo, ecc.”

La parola deriva dal latino tardo in-signare ‘incidere, imprimere dei segni.
Su questa idea, insegnare in senso lato è, allora trasformare”, creare le condizioni da parte di un soggetto affinché altri acquisiscano modi o strumenti o pezzi di sapere che non solo restino nella mente, ma che diventino anche in qualche modo operativi, traducendosi in comportamenti, in un fare che esprime il modo di ciascuno dello stare al mondo. L’insegnare richiede infatti almeno due soggetti: per qualcuno che insegna c’è un destinatario, qualcuno che impara, e questo avviene in una reciproca relazione di lungo periodo.

A scuola, insegnare è un’attività sociale esplicita, intenzionale: ci sono gli/le “insegnanti”, persone che trasformano altre persone, per formale incarico professionale. Proprio per questo l’insegnare a scuola non può e non deve essere superficiale, banalizzante; chi insegna poco o male non è semplicemente inifluente nell’esperienza di chi apprende, ma lascia un segno di sfiducia, disincanto, frustrazione, in chi ha ricevuto quel segno nella sua persona. La traccia è spesso invisibile alla coscienza, ma può alterare in modo spesso irrimediabile la partecipazione dell’individuo ad altre situazione di apprendimento; dal momento che la scuola è il primo istituto pubblico in cui l’individuo sperimenta la cittadinanza, spesso l’insegnare sciatto o disincantato produce un atteggiamento di sospetto o rifiuto aggressivo non solo verso tutto ciò che è cultura complessa ma anche verso la stessa società. Bene si evidenzia questa distorsione quando la scuola è luogo o destinataria di atti violenti.
Quando, invece, insegnare è frutto di un’azione culturale fondata sull’attenzione alla classe come comunità, azione progettata e condotta con considerazione delle persone e degli stessi saperi, allora i segni diventano apprendimenti, strutturano la fiducia nella conoscenza, determinano il piacere di stare nelle cose pubbliche.

L’insegnare scolastico si esercita su soggetti ontologicamente deboli: i/le minori. Tale condizione origina una disimmetria che sta alla base della relazione educativa; non è quindi, come talvolta si crede, fonte del potere dell’insegnante, neanche della sua autorità, ma è una condizione di base, da cui partire per realizzare quella trasformazione di cui si diceva sopra.
In ragione di questa disimmetria, e della forza potenzialmente deleteria che questa può avere, insegnare a scuola è un atto di enorme responsabilità. La cura di questa responsabilità dovrebbe quindi essere un tratto costante dell’insegnare, attraverso ciò che viene chiesto tanto spesso e con tanta intensità ai discenti, ma che i docenti spesso disattendono: lo studio, l’impegno, l’approfondimento. Il rispetto per il sapere e per l’imparare non è una procedura lineare, ma un modo di realizzare la propria umanità: non può essere predicato senza che venga praticato.

L’autorevolezza dell’insegnante è una dinamica in costante definizione, non un dato contrattuale o anagrafico.

Proprio loro, bambini e bambine, ragazzi e ragazze, abitano le classi di ogni ordine e grado in cui noi esercitiamo il nostro insegnare, che solo loro rendono possibile: sono la ragione per cui la scuola esiste e coloro a cui noi, adulti/e di scuola, dobbiamo garantire l’istruzione, cioè il diritto e la libertà di conoscere e conoscersi, di sapere, persino di non sapere. Già, perché si può e si deve insegnare anche a chi non sa, non vuole, non può imparare. La scuola, in ogni ordine e grado, in Italia accoglie persone, non “talenti” che producono “capolavori”.
L’insegnamento scolastico è in carico allo Stato, e deve, quindi, puntare alla trasformazione profonda, attraverso la conoscenza, delle persone in cittadine/i Se la cittadinanza non è un’etichetta ma un modo di stare al mondo, la Repubblica affida agli insegnanti l’incarico di darle corpo, un futuro, un destino.  Ma quale modo di insegnare a scuola può essere considerato “giusto” sotto questo punto di vista? Spesso si dice che la scuola non deve essere politicizzata; qualche volta sono state lanciate accuse pesanti contro insegnanti che avrebbero condizionato le opinioni di alunni e alunne.
Insegnare, autenticamente, costruisce le competenze necessarie e sufficienti per misurare, confrontare, calcolare, prendere qualcosa e lasciare qualcos’altro, dire o non dire; è perciò, inevitabile che le competenze culturali, ben acquisite, siano strutture per la cittadinanza, cioè per esercitare la partecipazione alla vita associata, per vivere, per vivere con gli altri.

Allora insegnare è Politica, inevitabilmente.

Se insegnare non è questo, avrà tradito la sua stessa essenza di azione attiva e costruttiva nei confronti di una società di diritti e di sviluppo.
Che cosa fa sì che insegnare sia effettivamente quest’azione culturale e politica? C’è un concorso di responsabilità, nella realizzazione.
In quanto professionisti pubblici, gli insegnanti stanno dentro un sistema statale che, di legislatura in legislatura, ha una sua fisionomia di governo, definendo le priorità di funzionamento e sviluppo delle sue istituzioni attraverso leggi e investimenti economici riguardanti anche la scuola. Le politiche scolastiche, quindi, hanno un effetto importante sull’insegnare, come, del resto, ce l’hanno sulla società, sulla vita quotidiana delle persone e sulle prospettive. Sembra un’ovvietà, ma non lo è: spesso gli insegnanti sono convinti che la loro azione non debba essere collegata con il sistema politico, sia, come si diceva prima, perché “non bisogna fare politica”, sia perché non riconoscono l’importanza dell’essere informati su ciò che sta “sopra” la scuola, e cioè la decisionalità politica. Anche questo è un tradimento dell’insegnare stesso da parte di chi lo pratica: chi insegna lavora per la società, per costruire, ripetiamo, quelle competenze culturali di cittadinanza che fanno il bene delle comunità in cui si esplicano; non si può escludere dal proprio orizzonte la consapevolezza critica su ciò che a livello politico viene scelto, giacché insegnare non significa eseguire delle prescrizioni (o ignorarle o ridurle perché scomode), ma agire consapevolmente dentro una società e per essa attraverso la conoscenza.
Questa consapevolezza critica del sistema normativo che regola la scuola è cruciale, perché insegnare contribuisce a costruire la società, e se si conoscono le regole che strutturano la professione docente, da una parte, e soprattutto l’idea di società sottesa agli indirizzi politici, si possono assumere quelle decisioni didattiche che realizzino la funzione costruttiva e solidale del sapere scolastico per la cittadinanza. La disinformazione, da parte di chi insegna, significa non poter scegliere l’azione didattica e non potersi nemmeno sottrarre agli abusi perpetrati troppo frequentemente al profilo professionale.
La libertà dell’insegnante, in questo senso, va intesa con grande senso di responsabilità, vigilando sulla propria impostazione intellettuale, sulle scelte progettuali, affinché il fare professionale sia sempre conseguente a un pensiero, coerentemente con la funzione civile per cui si sta in un ruolo pubblico. 

Insegnare a scuola ha un’altra caratteristica essenziale: è un’azione collettiva, e solo quando si esplica in questo modo raggiunge il suo scopo educativo ed emancipante. L’insegnante, per quanto attrezzato con metodi e contenuti, non può e non deve lavorare da solo, perché il suo fare professionale si esercita attraverso la conoscenza e la conoscenza stessa è un’azione composita. Si insegna sempre insieme a qualcun altro, altrimenti i destinatari di questa azione, i/le minori affidati alla scuola, riceveranno un’impressione divisa e divisiva del conoscere e, quindi, svilupperanno un rapporto incerto con il valore formativo del sapere.
La dimensione collettiva dell’insegnare e anche quella complementare individuale dovrebbero avere un approccio costante di ricerca didattica: non ci sono procedure standard, né, soprattutto, formule magiche, quando si sta in una classe per un anno scolastico, ma percorsi da progettare, attuare, sperimentare e rivedere, tenendo presenti i destinatari e verificando sempre l’efficacia dell’intervento. La didattica è forma e realtà del curricolo, che disegna i contorni delle discipline da insegnare, ed è il risultato di scelte consapevoli e condivise in termini di strumenti, materiali, assetti, criteri e approcci valutativi. L’esperienza aiuta la progettazione, indubbiamente, ma la ripetitività si riverbera del tutto negativamente sul reale percorso di crescita delle classi, mentre le domande che l’insegnante pone al suo stesso lavoro sono alimento a una professione che si realizza nella crescita delle competenze di chi apprende.
Nonostante la promulgazione del regolamento sull’autonomia scolastica, quasi 25 anni fa, abbia esplicitato la funzione delle scuole in quanto centri di ricerca e sperimentazione didattica, possiamo senz’altro dire che questa dimensione dell’insegnare è stata messa in atto solo raramente; tanti professionisti riflessivi abitano le scuole italiane, ma queste non aprono spazi sufficienti per far crescere insegnanti ricercatori. Per loro le associazioni professionali costituiscono spesso una “casa”, dove trovare colleghi/e che condividono approcci, dubbi, tentativi. Nelle associazioni si incontrano maestri e maestre di oggi e di ieri, si coltiva il pensiero critico sul senso dell’insegnare, perciò esse sono state e sono spazi irrinunciabili di cultura professionale, di libera ricerca e sperimentazione sul fare scuola. 
Per il futuro prossimo, è necessario andare a cercare giovani colleghi/e, sentire le loro esigenze professionali e con essi/e intrecciare dialoghi costruttivi: la scuola pubblica ha il bisogno prioritario di ridefinirsi attraverso la funzione sociale e politica dell’insegnare oggi.

Questa rivista, la rivista nazionale del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, si chiama “insegnare”, perché all’insegnare collettivo, inclusivo, emancipante e riflessivo dedica da tanti anni la sua azione culturale, accanto all’associazione. É luogo di confronto, dialogo e sintesi delle diverse dichiarazioni e interpretazioni del fare scuola democratica. È quel paesaggio intellettuale costituito da elementi variegati ma tutti presenti all’idea che la scuola pubblica sia l’istituzione istruttivo-educativa primaria a cui è demandata la realizzazione dell’art. 3 c.2 della Costituzione.

Insegnare, è ciò di cui la scuola ha bisogno, e perciò insegnare r-esiste.

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".

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