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12/11/2023

Di principi di Danimarca, parrocchie di montagna e scuole altre.

di M. Gloria Calì
Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?”

Un pacato atto d’accusa alla classe docente sta in esergo all’indispensabile testo di Carla Melazzini, "Insegnare al principe di Danimarca" riedito recentemente in edizione accresciuta a cura di Cesare Moreno[1]. Il libro racconta l’esperienza di “Chance”, il movimento di insegnanti volontari che, nelle periferie di Napoli, hanno costituito una struttura operativa per riportare studenti e studentesse usciti fuori dal percorso scolare alla possibilità di sostenere “l’esame di terza media”. Da questa esperienza pluriennale ha avuto vita “Maestri di Strada”, l’associazione che da molti anni replica il tentativo di costruire, attorno a ragazzi e ragazze “di strada”, contesti educativi significativi.
L’idea di fondo è che il sapere costruisce la cittadinanza, e che nessun* è irrecuperabile, giacché non si può coltivare il sapere svincolato dalle relazioni con le altre persone; conseguire un titolo di studio, in questa cornice, non è un adempimento funzionale a trovare un lavoro, ma un modo per arrivare ad una dimensione adulta dignitosa.
Gli/le adolescenti che entravano nel percorso Chance sono definibili come “drop out”, cioè coloro che sono “gocciolati fuori” dal percorso scolastico ordinario del triennio medio. Che cosa causa questa uscita? Non sforziamoci di cercare spiegazioni nelle frasi fatte o nelle false interpretazioni. Lo leggiamo nello stesso libro, scritto con chiarezza inequivocabile: la bocciatura, che, spesso reiterata, “acquista un significato dirompente: non è solo lo scacco sul tavolo delle prestazioni intellettive ma, ben più grave, uno scacco esistenziale, l’essere ricacciati nell’infanzia, perdere i propri punti d’appoggio, essere costretti a riferirsi ad un gruppo che non è più dei pari”.

Melazzini, già molti anni fa, rileva una “liquidità” antropologica che si è evidenziata ancora di più nei nostri tempi da Occidente digitalizzato, e fa sì che i rituali di passaggio da un’età all’altra siano ormai solo quelli scolastici. Noi possiamo concordare con quella visione: assistiamo ad una generalizzata modalità “educativa” in cui i contesti domestici, quando sono attivi, tendono a precocizzare la dimensione adulta definendola in base a segni esteriori (abbigliamento, manicure, ecc.) e una conseguente rappresentazione mediatica scambiata per esistenza desiderabile; quando questi contesti sono evanescenti o inesistenti (senza distinzione né di ceto né di censo) si tende a compensare la mancanza di cura con riempitivi economicamente rilevanti (leciti, illeciti, griffati o taroccati).
Con un terreno familiare impoverito, la crescita diventa sempre più difficile: la percezione dell’uscita dall’infanzia, il conseguente l’ingresso in un’adolescenza caratterizzata da una più intensa rete di rapporti sociali extrafamiliari, è una fase di sbandamento, e il gruppo dei pari può essere un utile paracadute, un girotondo in cui, tenendosi per mano, si evitano cadute troppo rovinose. Che fanno, invece, i solerti insegnanti, che hanno a cuore la formazione delle giovani menti, come se fossero sacchi da riempire, per usare una celebre metafora? Bocciano. Non una, ma più volte, praticando questo rituale di eliminazione dei “non adatt*” come unica prerogativa a cui si affida l’affermazione della propria autorità.
Il paradosso drammatico sta nel fatto che ci si lamenta tanto, davanti alle macchinette del caffè scolastico, di “leggi calate dall’alto”, e si rinuncia giusto a questa libertà, quella di far superare a tutt* l’anno scolastico? Del resto, gli/le stess* solerti insegnanti non riescono a fare a meno delle valutazioni insufficienti a fine anno: come se non fossero le stesse persone che firmano gli scrutini ad essere i garanti degli apprendimenti. Strano modo di sentirsi autorevoli, sottoscrivere la propria inefficacia professionale.
Certo, sappiamo bene quanto è difficile in-segnare quando le pagine scrivibili sono sepolte sotto spessi strati di disagio o distrazione (che poi sono la stessa cosa), ma la soluzione a tanta difficoltà non è certo “fermare”, aggiungendo il distacco dalla relazione con i pari al distacco dai saperi.
A confermare ulteriormente questo già grottesco sistema di d-istruzione c’è l’analisi della categoria di coloro che vengono “bocciati”. Guarda caso, come è dichiarato apertamente da Melazzini, ma l’avevamo già letto e riletto nella “Lettera ad una professoressa”, sono i più “poveri” ad essere fatti scivolare fuori dal sistema scolastico. I poveri di oggi sono in buona parte gli stessi di ieri, di Melazzini, e dell’altro ieri, di Don Lorenzo: sono i figli e le figlie di quei contesti in cui ci si arrabatta per vivere, dove la Cosa Pubblica non riesce a portare ordine e, soprattutto, opportunità dignitose, e, quindi, viene vista come nemica, perché si manifesta esclusivamente nella sua funzione di Forza Pubblica, cioè violenza istituzionalizzata, a cui rispondere con l’unico codice che si ha a disposizione: altrettanta violenza. Chi è bocciato vive in contesti “senza”: adult* senza occupazioni regolari, senza cura reciproca, senza visioni collettive che non siano consorterie fuorilegge o fuori senso civico.

La drammaticità di questa condizione di disagio socio-economico di cui i/le minori sono partecipi è misurata dalle statistiche: come si legge nel rapporto di Save the Children pubblicato ad Ottobre 2023, i bambini e le bambine che vivono in case sovraffollate e/o inadeguate sono percentuali a due cifre.
In generale, la povertà istituzionale sta diventando l’aria che si respira, non una localizzata manifestazione patologica della società; lo Stato, anziché rinsaldarsi attorno alle sue istituzioni democratiche, la scuola, la sanità, e la giustizia, le soffoca, e si prepara ad autodisgregarsi con lo scellerato provvedimento dell’autonomia differenziata [2].

Melazzini e Don Milani hanno dato vita a sistemi di recupero degli scarti culturali e sociali, per restituirgli dignità e competenza per la vita, attraverso il sapere.
Se si analizzano queste esperienze, pur distanti nel tempo e nello spazio, si rileva più di una similitudine. Anzitutto, entrambe le esperienze sono concentrate sul segmento scolare che chiamiamo “scuola secondaria di primo grado”. Nel tempo, questo triennio non si è consolidato come fase di passaggio da una dimensione “primaria” della definizione dei saperi ad una dimensione “secondaria” dei saperi più approfonditi e specializzati. La continuità e la discontinuità con gli altri ordini di scuola non è stata affrontata come problema pedagogico e “politico”: come va progettata l’istruzione per la cittadinanza? Gli insegnanti delle medie si accontentano del titolo di “professori”, senza chiedersi veramente quale sia il loro lavoro.

L’altra inquietante evidenza di fondo sta nel fatto che Barbiana e Chance sono state esperienze di “fuori scuola”. Laddove la scuola pubblica, nel suo funzionamento ordinario, ha scartato, ha perso, qualcun'altro ha fatto spazio per chi è stato cacciato fuori dalla scuola “normale”, come se istruire, educare, riconoscere gli ostacoli e rimuoverli, non fosse già compito della scuola pubblica.
Se ci mettiamo accanto altre esperienze storiche, come quella di Alberto Manzi, per citare un esempio notissimo, appare chiara una domanda drammatica: l’istruzione istituzionalizzata è stata (ed è) in grado di assolvere al suo compito di realizzare la persona nella sua integrità culturale, professionale, partecipativa? Ivan Illich [3], nel suo estremistico disegno di società autoeducantesi, risponderebbe immediatamente di no.
In tempi recenti, questa domanda è il sottotesto di tutti i ragionamenti sul rapporto tra scuola e terzo settore, accusato (o incaricato) di sostituirsi al ruolo della scuola, che dovrebbe essere socialmente trainante, ma non lo è. 

Dobbiamo allora convenire che "la scuola non ce la fa?" La questione ha una complessità delicata e profonda, nel tempo e nello spazio.

Ci sono luoghi, urbani e non, in cui la scuola pubblica statale di base è l’unico punto di aggregazione, l’unico riferimento valoriale ed esperienziale positivo; è la garanzia della sopravvivenza della comunità. Sono gli/le insegnanti che portano alunni e alunne nei musei, dove, probabilmente, non torneranno mai, dopo la scuola; gli fanno sperimentare il piacere di ascoltare un brano di Vivaldi o il gusto di trovare la soluzione ad un problema di geometria. Sono le scuole delle periferie urbanisticamente degradate, delle aree interne e dei paesi di montagna. Il nostro paese ha il 35% del territorio occupato da montagne e il 41,2% occupato da colline: i centri medio-piccoli non sono realtà eccezionali, ma sono la modalità insediativa più consona ad una morfologia tanto varia come quella della penisola italiana. In questa situazione, i decisori politici, a livello nazionale, anziché spingere sull’autonomia regionale e sul dimensionamento scolastico dovrebbero rinsaldare i sistemi territoriali attorno alle istituzioni che garantiscono crescita, unità e unicità, preservando le specificità locali: la scuola, la sanità, la giustizia (ripetiamo, quali sono i fondamento di uno stato democratico… ché non basta mai).

Oltre alle cause esterne della debolezza della scuola, cosa c’è che non va, “dentro” ? Dove stanno le più pericolose debolezze? La risposta corale di Melazzini, Don Milani, e molt* altr* forse sarebbe: negli/le insegnanti.

E’ l’insegnante che si comporta come un impiegato statale, anziché come un intellettuale di funzione pubblica. Piuttosto che assumere una postura culturalmente significativa, cioè definita nel ruolo di responsabile degli apprendimenti curricolari, mette in atto procedure ripetitive, e guai a farlo riflettere sull’evidente inutilità di certe prassi, poiché prontamente la responsabilità dell’ignoranza di alunni e alunne viene scaricata su ogni genere di oggetto: i genitori separati (un grande classico), il Covid (ormai sbiadisce ma resiste), l’attività sportiva (guai ad impegnarsi in qualcosa di gratificante…), la povertà (l’ignobile scuotimento di testa: “non ha nemmeno i libri di testo”…).

E’ l’insegnante che non si forma, o che si forma solo istinctu dirigentis, quindi malvolentieri; l'insegnante che non ritiene la ricerca didattica sua competenza.

E’ l’insegnante che non valuta ma mette il voto, che non conosce (e non vuole conoscere) la distinzione tra obblighi e doveri professionali.

E’ l’insegnante che non ha nessuna attenzione autentica, cioè professionalmente significativa, verso le persone a cui insegna, e concepisce il suo lavoro come un’erogazione unidirezionale di informazioni. O, forse anche peggio, di benevola concessione ex cathedra anche a chi, poverini… sono “sfortunati” perché “nessuno si occupa di loro”.  

Chi insegna dovrebbe assumersi consapevolmente il compito di dare forma alle possibilità di crescita di altre persone, che poi diventeranno cittadini e cittadine, a partire dalla conoscenza e dal rispetto delle condizioni personali e di contesto in cui l’alunn* vive fuori dalla scuola.
In questo sta il ruolo istituzionale: nel comprendere, cioè prendere con sé, le persone e dargli le opportunità necessarie per stare al mondo. Quando la scuola cioè, diciamolo chiaramente, gli/le insegnanti, perde alunn*, perde la sua funzione essenziale, recando all’istituzione un danno enorme.
Chi insegna dovrebbe dedicare tempo e cura a rendere il sapere un oggetto di interesse, non un adempimento da assolvere, facendo leva sulla dimensione collettiva, costruttiva e pacifica dell’apprendimento. A scuola si dovrebbe imparare sempre insieme e sempre tutti, smettendola di badare alla quantità; con il sapere, si dovrebbe costruire altro sapere, proprio o condiviso; si dovrebbero poter descrivere e affrontare tutti i conflitti, che, invece, il più delle volte sono semplicisticamente repressi e puniti: la cultura stessa, nella storia dell’umanità, nasce e si alimenta dall’incontro/scontro di diversità, così come la crescita stessa degli individui è segnata da conflitti e superamenti. Queste dinamiche hanno luogo solo se il sapere è negoziato in forme adatte a chi apprende, non a chi insegna, e se si elimina dall’orizzonte la misurazione valutativa che mortifica l’apprendimento individuale e collettivo.
Nel recente libro di G. Bagni e G. Buondonno, "Suonare in caso di tristezza", per dire la postura rinunciataria e opaca di moltissim* insegnanti, leggiamo la calzante metafora della "scintilla spenta". 

Se alcune dimensioni del lavoro sembrano burocratizzare in eccesso la professione docente, non si usino gli adempimenti come alibi, giacché molto spazio è disponibile alla realizzazione di un’istruzione significativa, che non faccia uscire nessun* dal percorso. Facciamo nostra l’indignazione di Don Milani e la tenacia di Carla Melazzini, e di tutt* coloro che, in tante forme diverse, hanno lottato con gli strumenti del sapere professionale per tenere tutti e tutte dentro i percorsi scolari. Abbiamo una responsabilità enorme: lavorare per mandato costituzionale, guardando con intenzionalità politica ad alunni e alunne, attraverso un’intenzionalità umana e culturale da cui mai recedere.

Sappiamo tutt* benissimo che le classi sono piene di principi di Danimarca e di principesse scalze, che vivono le più svariate forme di povertà e subiscono una vera e propria aggressione da parte di modelli centrati sul prevalere e sul possedere; dobbiamo “solo” decidere se stare in cattedra oppure stare dalla loro parte.

 

(foto di @M.Gloria Calì)

 

Note

[1]  Sellerio, Ottobre 2023. 

[2]  Il tema è stato affrontato anche nel recente coordinamento nazionale del CIDI, il cui report, a cura di Maurizio Muraglia, si può leggere su insegnare a questo link

[3] "Descolarizzare la società", ed. italiana Mimesis, 2019. 

 

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".

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