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opinioni a confronto

18/01/2014

Invalsi/ I perché della valutazione

di Paolo Sestito

I fini della valutazione

La valutazione è uno strumento, non un obiettivo. I suoi contorni, proprio per via della valenza strumentale, devono tener conto delle modalità complessive di funzionamento del sistema scolastico e formativo.

Il primo possibile fine strumentale della valutazione è quello di meglio conoscere per poter meglio governare il sistema . La valutazione, pur dovendo rispettare le regole di funzionamento del sistema, è perciò premessa per disegnarne eventuali mutamenti. Questa finalità della valutazione richiede terzietà della valutazione – rispetto al policy maker, alle strutture amministrative e burocratiche del sistema ecc. - e uno statuto operativo che ne tuteli la natura di attività di ricerca: ricerca sulle misure della valutazione (come definire e misurare l’output del sistema scolastico e quindi in ultima istanza gli apprendimenti e le competenze degli alunni al cui sviluppo la scuola comunque dovrebbe mirare) e ricerca sulle loro determinanti (con un approccio contro-fattuale di tipo statistico-econometrico, anche di tipo sperimentale, per cui si sperimenta una politica o una prassi didattica e poi se ne misurano gli effetti, idealmente così come avverrebbe per la sperimentazione d’un nuovo farmaco). Per conoscere le grandi tendenze del sistema e individuarne potenzialità e criticità è sufficiente lavorare su dati e indagini di natura campionaria; è però essenziale l’accessibilità dei dati al più vasto mondo della ricerca (in una logica di “replicabilità” delle ricerche valutative).

Un secondo possibile fine della valutazione è nel fornire i giusti incentivi a chi opera nel sistema (opero al meglio perché so di essere valutato per quello che faccio). Da questo punto di vista la valutazione dovrebbe essere pervasiva, e non operare solo su base campionaria. In quanto tale essa è il necessario controaltare della autonomia scolastica: serve a responsabilizzare, ed evitare l’autoreferenzialità di chi opera nel sistema. Proprio perché si tratta di una frustra potente, ne vanno tenuti ben presenti i possibili rischi.
Far dipendere i destini dei singoli studenti da un qualche esercizio di valutazione esterna rischierebbe di indurre distorsioni, appiattendo le attività educative su pochi aspetti (quelli più facilmente misurabili) e inducendo una tendenza all’omologazione culturale: l’uso di test standardizzati a fini di certificazione degli studi dei singoli ragazzi va perciò ridotto ai minimi termini (solo negli esami di fine ciclo e con un peso positivo ma ridotto, lasciando spazio ad altre valutazioni non standardizzate e di tipo più olistico). L’attuale peso delle prove INVALSI in III media è un buon equilibrio (i problemi di tale esame non sono nei test INVALSI ma nella eccessiva numerosità di tutte le altre prove), perché l’impatto sull’esame è molto ridotto, ma permane un positivo effetto sia di standardizzazione dei giudizi e sia di indirizzo, anche culturale, lungo la direttrice fornita dalle indicazioni nazionali per il curricolo, altrimenti a rischio di venir disattese. Qualcosa di simile è anche da costruire per la V superiore, dove le prove INVALSI possono e debbono avere anche una valenza di orientamento nei confronti dei singoli studenti ai fini delle successive scelte universitarie (e anche per questo le prove vanno collocate in gennaio-febbraio, non in estate, quale che ne sia il possibile utilizzo all’interno dell’Esame di maturità).

Altrettanta cautela serve nei confronti delle scuole. I meccanismi di mercato –con gli utenti che scelgono la scuola migliore, che si amplia a discapito di quelle che non funzionano– non sono pienamente affidabili nel caso delle scuole: non tutti i genitori sono attenti al tema qualità e si rischia di accentuare la segmentazione tra scuole di qualità (con studenti e famiglie motivate) e scuole inefficaci (anche perché chi vi rimane è poco motivato). Considerazioni simili possono farsi circa l’uso di meccanismi premiali che affidano all’erogazione di premi stabiliti centralmente il ruolo d’incentivare i comportamenti più efficaci. Tanto nel caso dei premi quanto in quello dei meccanismi di mercato, il problema è che le sanzioni ex post risultano spesso controproducenti, perché rischiano di peggiorare la situazione dei malcapitati che si trovano nelle scuole meno efficaci, e l’intero sistema rischia di essere quindi poco credibile. Nella misura in cui meccanismi emulativi se non concorrenziali comunque siano in atto – con molti genitori che si chiedono quale sia la scuola (o la classe) migliore - è utile organizzarli al meglio: l’INVALSI, che non diffonde pubblicamente i risultati delle scuole, sta definendo una metrica che possa essere comprensibile e che prevenga forme di pubblicità ingannevole da parte delle singole scuole (che altrimenti potrebbero scegliere di diffondere solo i dati per esse lusinghieri, omettendone altri). Nel farlo si sta tra l’altro cercando di richiamare l’attenzione non sul livello degli apprendimenti degli studenti di una data scuola, ma sul così detto valore aggiunto, ovverosia una stima di quanto quella scuola possa aver contribuito a quegli apprendimenti (tenendo conto del livello pregresso degli apprendimenti dei singoli studenti e/o del loro background familiare), stime che si basano su una forte integrazione tra rilevazioni INVALSI e anagrafe MIUR degli studenti. Però, puntare su premialità e logiche di mercato non è la strada maestra, perché si rischierebbe di incentivare comportamenti distorsivi quando non truffaldini (il teaching to the test e il cheating to the test).

Un terzo fine della valutazione è quello di spronare e indirizzare il miglioramento delle (e nelle) singole scuole. A tale fine occorre non solo misurare gli apprendimenti (o ancora meglio la loro evoluzione, nell’ottica del valore aggiunto) -intesi come output che la scuola ha contribuito a determinare- ma anche e soprattutto riflettere sui processi posti in essere nella singola scuola. Quanto questi processi sono adeguati al contesto in cui si opera? In cosa questi processi possono essere migliorati? Come possono essere migliorati e quali obiettivi ci si può concretamente porre? Le misurazioni degli apprendimenti in questa prospettiva sono uno stimolo, ma non l’unico, da cui far partire un processo di riflessione e di azione. Le misurazioni devono a tale fine essere universali e consentire sia di ragionare sulla performance complessiva della singola scuola e sia di dare indicazioni più di dettaglio (in che ambito, per quale tipologia di competenze e/o per quali gruppi di alunni i risultati sono problematici o soddisfacenti?). Molto conta tanto la restituzione alle scuole di dati intellegibili – sugli apprendimenti ma anche su altri aspetti, integrando rilevazioni INVALSI e altri indicatori amministrativi e statistici (si sta ora per esempio definendo un progetto con ISTAT per l’uso di informazioni censuarie riferite al contesto geografico della singola scuola) – quanto la predisposizione di percorsi e processi di autovalutazione. Nella restituzione dei dati alle scuole, occorre essere celeri (dal prossimo anno si punta a restituire i dati a settembre, laddove in precedenza si arrivava non prima di dicembre) e innescare meccanismi e dialettiche interne, per esempio offrendo al dirigente scolastico informazioni comparative tra le diverse classi o coinvolgendo il Consiglio d’Istituto, e quindi i rappresentanti dei genitori, nell’accesso a taluni dati (come si è iniziato a fare a partire da questo anno scolastico). L’autovalutazione deve essere indirizzata dall’esterno – con linee guida che indichino cosa guardare, quali stakeholders coinvolgere ecc.– ed essere “verificabile” dall’esterno, prevedendo che possa intervenire, a campione, un momento di valutazione esterna. Gli strumenti aggiuntivi rispetto alla mera misurazione degli apprendimenti degli studenti debbono valorizzare il punto di vista dei diversi stakeholders. Anche importante è definire strumenti atti a fornire, all’interno della singola scuola, possibili feedback tra pari (rispetto all’azione dei singoli insegnanti, troppo spesso abbandonati a se stessi), come si sta cercando di fare nel progetto sperimentale “Valutazione e Miglioramento”.

Il miglioramento è da perseguire ovunque, anche nelle scuole con risultati già lusinghieri. Un particolare aspetto dell’uso della valutazione come sprone al miglioramento è però nell’individuazione, a mezzo di misurazioni standardizzate degli apprendimenti e di informazioni sul contesto esterno ove una scuola operi, delle scuole in condizioni maggiormente critiche. É qui che in via prioritaria la valutazione esterna, anche con una funzione catartica, deve prioritariamente intervenire. É qui inoltre che lo sprone al miglioramento potrebbe abbinarsi a un sostegno rafforzato, in termini di risorse aggiuntive, al miglioramento – soprattutto laddove i problemi siano soprattutto legati alle difficoltà del contesto esterno - o a un’azione che dall’esterno giunga ad imporre una più radicale riorganizzazione della singola scuola, soprattutto laddove l’azione della scuola e in particolare del dirigente scolastico sia giudicata come poco efficace.

Come organizzare la valutazione e l’INVALSI

L’INVALSI deve operare tanto nel campo della misurazione degli apprendimenti e dello studio delle loro determinanti, quanto in quello dell’indirizzo e del coordinamento dei processi di autovalutazione e valutazione esterna. Passi in avanti sono da fare per tutti gli ambiti ora detti, ma soprattutto in quello dei processi di autovalutazione e valutazione esterna – ove si è quasi all’anno zero. Una ormai consolidata tradizione vi è nella costruzione di test ed esercizi di misurazione degli apprendimenti – dove peraltro anche sono da mettere in programma importanti innovazioni (cfr. oltre). Nel campo dello studio delle determinanti degli apprendimenti e degli effetti delle diverse politiche, la debolezza delle analisi interne può e deve essere compensata con una forte apertura al mondo esterno della ricerca accademica, facilitando lo sfruttamento a fini analitici dei dati INVALSI (come per esempio ha fatto una recente iniziativa con cui si sono messi a bando, con un ridottissimo impiego di risorse, cinque macrotemi di ricerca) e anche tramite lo strumento degli assegni di ricerca (da usare non come forma peculiare di precariato, ma come mezzo di avvicinamento alla ricerca su temi educativi di futuri ricercatori di stampo accademico, non destinati a operare nell’INVALSI).

La struttura interna dell’INVALSI deve essere rafforzata risolvendo i problemi legati alla precarietà del personale (la metà circa dei 70 addetti attuali hanno rapporti a tempo determinato) e al fatto che molte attività ordinarie sono “appoggiate” su progetti ad hoc e formalmente estemporanei. Gradualmente, e immaginando di usare i fondi strutturali europei in una logica di decalage che inizialmente finanzi la gran parte delle azioni di supporto all’autovalutazione e di valutazione esterna delle scuole (che finanziariamente peraltro non debbono transitare per l’INVALSI) e le rilevazioni universali degli apprendimenti (in sostituzione del sovra-campionamento in tutte le regioni dell’indagine OCSE-PISA, oramai meno utile, vista la presenza di rilevazioni universali nazionali), il funding dell’INVALSI dovrebbe da qui alla fine del decennio giungere ad almeno 15 milioni annui. Questo rafforzamento strutturale dell’INVALSI dovrebbe anche consentire di accrescere la capacità di ascolto e di confronto col sistema, e coi suoi vari stakeholders, in questi anni sfavorita dalla precarietà e dalla sensazione quasi di assedio in cui l’Istituto ha vissuto.

Peraltro, l’INVALSI dovrà comunque continuare ad affidare molte attività concrete a esperti esterni e mirare a mantenere un 15-20% delle posizioni di ricercatore e affini come posizioni in quanto tali permanenti, ma destinate a essere occupate con incarichi di natura temporanea; lo scopo è garantire un ricambio sufficientemente elevato del personale di ricerca (col corollario di un continuo update delle metodologie di ricerca) e produrre prove che siano strettamente collegate con la concreta pratica didattica (e di ricerca didattica). Qualcosa di simile dovrebbe riguardare le attività di coordinamento dei processi di autovalutazione e valutazione esterna delle scuole, dove è importante che possano mescolarsi ricercatori veri e propri e persone con expertise pratica nel mondo della scuola. Problemi più immediati da affrontare sono quelli della localizzazione dell’Istituto (da spostare a Roma) e del rafforzamento delle infrastrutture tecnologiche, anche per migliorare le funzioni di servizio alle scuole e al sistema insite nella restituzione dei risultati delle rilevazioni sugli apprendimenti e nella predisposizione, tramite strumenti on line, di rilevazioni e sondaggi degli stakeholders delle scuole interessate dai percorsi di autovalutazione e di valutazione esterna.

Benché mature, anche le misurazioni degli apprendimenti devono evolvere. Occorre completare l’ingresso delle prove universali in V superiore (con prove da svolgere in gennaio-febbraio e su computer, anche al fine di elevarne la qualità e scoraggiare il cheating), introdurre elementi di differenziazione delle prove in II superiore (una differenziazione che giunga anche a coprire i percorsi della formazione professionale, già interessati in alcune regioni da una sperimentazione, e per la quale anche, più gradualmente, si deve giungere all’uso del computer) e sostituire le attuali prove svolte a maggio in V primaria e in I media con una prova unica da svolgere in settembre, all’avvio dell’anno scolastico, in I media (ma restituendone i risultati anche alla scuola primaria di provenienza degli studenti). Più in prospettiva, la stessa prova in II primaria è da rivedere, cercando di passare anche qui a una prova d’ingresso che abbia più che altro una funzione di definire le criticità del percorso prescolare dei diversi alunni, a supporto diagnostico delle azioni che la scuola primaria ha poi da programmare (sulla falsariga del modulo PIPS usato in vari paesi anglosassoni e di cui si sta studiando l’estendibilità al contesto italiano). Gli ambiti tradizionali di misurazione degli apprendimenti vanno inoltre estesi (alla lingua inglese, su cui si sta definendo una sperimentazione, e alle competenze scientifiche), mirando anche ad ancorare le scale di misurazione delle rilevazioni nazionali sia nel tempo, tra diverse annualità di indagine, e sia rispetto alla metrica usata nelle grandi indagini internazionali (anche qui sono già state avviate sperimentazioni).

Parole chiave: il caso/ Invalsi

Scrive...

Paolo Sestito Attuale Presidente Invalsi, in scadenza di mandato.

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