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06/09/2023

Questioni di genere. Sperimentazioni multidisciplinari e paradigmi teorici

di Stefania Tirini

Laboratori multidisciplinari: un metodo per pensare nuovi approdi

A Firenze, presso il Liceo delle Scienze Umane, indirizzo economico sociale, nell’a.s 2020-2021 è stata realizzata una sperimentazione, densa di elementi di interesse didattico ed epistemologico, dedicata all’approfondimento delle questioni di genere [1] a partire dall’intreccio di diverse prospettive disciplinari: sociologica, antropologica, pedagogica e psicologica. Le attività hanno visto il coinvolgimento di 14 studenti, in un lasso di tempo di 4 mesi (febbraio – maggio) per un totale di 16 incontri.   Gli incontri sono stati caratterizzati tutti da un’identica struttura metodologica, costruita attraverso tre diversi interventi formativi: un’introduzione teorica di specifico taglio disciplinare, una proposta laboratoriale di confronto ed esperienza, e la restituzione/produzione, da parte degli studenti, di riflessioni, approfondimenti concettuali, ideazioni propositive.

Contenuti e metodologia di un percorso formativo: studiare, costruire. Vivere?

Comprendere e cercare di conoscere insieme la complessità della condizione femminile come modalità esistenziale ed esperienza quotidiana è stato un compito importante all’interno di un percorso educativo. Ma il compito più difficile è imparare a vivere, mantenendosi in equilibrio fra gli innumerevoli “crinali” che spartiscono le situazioni di vita concreta nelle molteplici e differenti declinazioni delle identità sessuali e di genere.

Secondo Touraine [2] saranno probabilmente le donne a “portare avanti il grande progetto di ricomposizione del mondo e di superamento delle vecchie coppie di opposizioni”. Perché, se gli uomini posseggono ancora potere e denaro, sono ormai le donne a possedere il senso delle situazioni vissute e la capacità di formularlo, attraverso la relazione fra esperienza personale, responsabilità pubblica e trasformazione sociale.

Ma il mondo è anche un insieme plurale di esseri singolari [3] e dovremmo pensare alla coesistenza fra culture, generi, soggetti diversi come a una mappa complessa di similarità e differenze che si intrecciano, si sostengono e si giustificano reciprocamente.

Elena Pulcini, nel suo importante testo, La cura del mondo del 2010 ci ricorda che “[…] bisogna ripensare la pluralità. Bisogna ripensarla a partire dall’irruzione dell’altro come diverso e dalla sfida insita nella sua presenza contaminante, che esige il confronto con la differenza" (p. 24).

La finalità della sperimentazione è stata quella di sviluppare un approccio autoriflessivo e partecipato su contenuti e metodi dei diversi contributi disciplinari che costituiscono il nucleo centrale del curricolo del liceo delle Scienze Umane. Il percorso didattico ha permesso agli studenti di raffinare letture diverse sullo stesso argomento e di ricostruire la complessità dell’esperienza femminile nella società contemporanea.

All’interno del percorso didattico, intenzionalmente unitario, si distinguono i punti di vista delle diverse discipline che delimitato i confini degli interventi, con le loro specifiche modalità di analisi.

  • L’interpretazione sociologica ha analizzato il mutamento sociale e interreligioso e la comunicazione pubblica che lo condiziona e lo trasforma. Le questioni di genere nella prospettiva della sociologia rappresentano un punto di vista fondativo per leggere e interpretare fenomeni sociali complessi, tipici del nostro tempo, ma anche per disporre di dati e strumenti utili a progettare interventi di cambiamento e riequilibrio. La riflessione sulle dinamiche femminili si snoda sullo sfondo dell’attuale società liquida e plurale, che costringe a ridefinire continuamente i concetti di cittadinanza e i confini tra sfera pubblica e privata, confini sui quali si giocano molte delle dinamiche di inclusione/esclusione. Il laboratorio si struttura sull’analisi di una vicenda di cronaca come paradigma dei connotati drammatici che la questione delle differenze di genere può assumere in una società multiculturale e multireligiosa. Attraverso la lettura comparata di diversi quotidiani nazionali, l’uccisione di una ragazza di origine musulmana da parte del padre/padrone rivela i suoi caratteri di costrutto sociale e culturale e costringe a riflettere sul linguaggio pubblico e mediatico come elemento costitutivo della percezione e valutazione della realtà sociale.
  • L’osservazione antropologica si è soffermata sulla rappresentazione visuale della differenza di genere come differenza culturale. Il taglio antropologico ha lo scopo principale di mostrare come le attuali differenze, lungi dall’essere un dato naturale, sono il frutto di processi storici e di sedimentazioni sociali e culturali. Il cinema – in quanto prodotto culturale che contribuisce a costruire l’immaginario soggettivo – viene sperimentato, come possibile strumento educativo/didattico, per analizzare criticamente le rappresentazioni che esso veicola: in particolare le rappresentazioni relative ai rapporti di genere. Si è scelto di osservare alcune scene centrali di tre film: – The Help di Tate Taylor (2012); – Mona Lisa Smile, di Mike Newell (2003); – Tutto su mia madre, di Pedro Almodovar (1999).
  • La comprensione psicologica della dimensione interiore e orientativa dell’identità sessuale rivendica l’importanza dell’identità soggettiva e delle sue diverse dinamiche di costruzione e riconoscimento. Il lavoro sulla psicologia propone una interessante definizione delle diverse terminologie con cui viene comunemente espressa questa sfera della diversità individuale: “sesso”, “orientamento sessuale”, “identità di genere”, “ruolo di genere”, e tenta, allo stesso tempo, di trovare una via possibile di equilibrio tra le diverse posizioni teoriche nel dibattito contemporaneo. Nel laboratorio ci sono le strategie di osservazione, analisi e comparazione delle differenze (presunte?) di comportamento e atteggiamento tra adolescenti, attraverso i giochi cooperativi, capaci di innescare processi di decostruzione degli stereotipi[4].  Il gioco promuove lo sviluppo di una narrazione alternativa della realtà (a volte stereotipata), come veicolo di valorizzazione, accettazione e riconoscimento delle diversità.
  • La prospettiva educativa e l’analisi della responsabilità pedagogica hanno fornito interessanti spunti di riflessione nella perpetuazione della disparità femminile. La storia dell’educazione, conferma, sotto il profilo analitico ed epistemologico, che le “disparità” di genere sono culturalmente costruite e che in questo processo hanno un ruolo importante le fondamentali agenzie e istituzioni educative: i genitori e le loro aspettative, il sistema scolastico e gli insegnanti, i metodi didattici e gli stessi libri di testo. Il laboratorio compie la stessa operazione di smascheramento attraverso l’approccio autobiografico alle esperienze scolastiche dei partecipanti e alle loro “storie di formazione individuale”.

Per affrontare le questioni di genere, in modo innovativo e trasformativo, sono necessari due assunti metodologici: una prospettiva multidisciplinare e una didattica laboratoriale e partecipata. 

L’approccio multidisciplinare ai fenomeni ci aiuta, da una parte, a decostruire e a frammentare argomenti e temi, ma nello stesso tempo occorre, tuttavia, rifondare di volta in volta la dialettica fra problematizzazione e soluzione. Come dire che, mentre il progetto disciplinare distingue, privilegia, conserva, il programma multidisciplinare combina, evidenzia aree di connessione e restituisce la complessità delle questioni.

In questo modo, il processo della conoscenza è rappresentato come una rete dinamica in cui ogni parte è collegata alle altre, piuttosto che come un muro costituito da molti mattoni. Questo reticolo può essere esplorato e compreso da qualsiasi punto, poiché non ha né base né sommità. Inoltre, non è possibile identificare una posizione specifica da cui guardare.

Se l’obbiettivo che ci si pone è quello di produrre nuova conoscenza, va trovato un contesto alternativo a quello in cui il docente trasmette e l’allievo ripete, copia e riproduce. Questo contesto è il laboratorio che implica la dimensione del fare, del produrre qualcosa di nuovo che prima non c’era. È uno spazio altro rispetto a quello ordinario, uno spazio – e un tempo –per interagire con nuove conoscenze, per riorganizzarle e produrre nuove idee. Potremmo dire che il laboratorio è uno spazio mentale, un modo per dialogare, leggere e comprendere la realtà, realizzando (anche) la propria identità. L'esperienza dei laboratori e la restituzione reciproca dei risultati cognitivi tra insegnanti e studenti sono una verifica concreta della relazione formativa in tutti gli ambiti disciplinari. Nonché una valutazione.

La costruzione sociale del genere femminile. Spunti

La differenziazione sociale e culturale della condizione umana sessuata ha una storia molto più lunga, diffusa e radicata di quella del termine gender[5], con cui, in tempi piuttosto recenti[6], è stata definita questa categoria di analisi della differenza sessuale, per affermarsi poi rapidamente e universalmente negli studi sulla condizione delle donne nella società contemporanea; ma di fatto spesso suggerendo una sovrapposizione concettuale fra genere e condizione femminile, che ha finito per permeare sia il senso comune che la pratica di ricerca. La spiegazione più ovvia di questo fenomeno divulgativo e delle sue conseguenze epistemologiche è che prevalentemente, proprio le donne, si sono interessate allo statuto teorico e all’ approccio definitorio ed empirico del concetto di genere e ne hanno incentivato l’uso per classificare se stesse come soggetti sociali.

L’identità di genere è un aspetto dell’individuo, una dimensione che è il risultato di un serrato processo “di costruzione del genere” che permea tutti gli strati della società (Torrioni, 2014)

In modo più complesso e articolato, il termine “genere” definisce e riassume l’insieme delle modalità sessuate con cui gli esseri umani si rappresentano e sono percepiti nelle società di tutto il mondo, nelle quali convivono storicamente due sessi, tanto che il concetto di genere segnala al proprio interno la duplice presenza degli uomini e delle donne, appunto per sottolinearne il significato binario e non univoco. Ma ancora di più per evidenziare che proprio la reciprocità e la complementarietà dei due sessi, i loro conflitti e le loro relazioni, costruiscono e rendono leggibili la condizione femminile e la condizione maschile, come modalità esistenziali che si intrecciano e si modificano attraverso le diverse declinazioni dell’esperienza di vita[7].

Allo stesso tempo, d’altra parte, il genere si configura come una categoria problematica, che, proprio perché cerca di sintetizzare tutto quello che vi è di sociale, mette in luce l’impossibilità di una rappresentazione neutrale della realtà sessuata e l’evidenza di squilibri profondi e iniqui al suo interno.

Così, di nuovo, si ripropone inevitabilmente la dinamica conflittuale fra natura e cultura nella ricerca di una radice esplicativa dell’identità di genere, e in particolare dell’identità femminile e della sua differenziazione, non lineare e non simmetrica, da quella maschile; dinamica che concettualmente tende a contrapporre “sesso” e “genere” e a mettere in discussione il problema della prevalenza dell’uno rispetto all’altro.

Per ricostruire il graduale e diversificato passaggio della differenza sessuale da “l’alfabeto dei dati biologici”, alle sue “rappresentazioni simboliche”, l’antropologa François Héritier suggerisce che l’identificazione sessuale, pur in un contesto culturale di relazioni di genere storicamente e arbitrariamente segnato dal dominio maschile, rappresenta comunque, per ogni essere umano, il primo fattore di individuazione e percezione del sé, e che l’ iscrizione nel dato biologico, anatomico, fisiologico della corporeità è un passaggio imprescindibile del processo di autorappresentazione individuale. Questo segna e condiziona, in ciascun soggetto, lo stesso pensiero della dualità maschio/femmina e delle sue categorie sociali e culturali.

Sul fronte opposto il pensiero femminista ha a lungo negato una prevalenza della natura biologica della sessualità, arrivando ad affermare, nelle sue punte più radicali, non solo che le categorie di maschile e femminile sono storicamente e variabilmente determinate da esclusive e arbitrarie logiche di dominio, ma anche che il genere precede il sesso, e che la presunta naturalità di quest’ultimo viene enfatizzata proprio come una sorta di marchio, utile a segnare come inevitabile la divisione sociale fra maschi e femmine e a distinguere dominanti e dominate, giustificando la loro gerarchia come dato di natura indiscutibile e indiscusso.

Con la stessa logica con cui, secondo una stimolante ipotesi di Rivera in un testo fondamentale del 2010, è il razzismo a precedere e giustificare le razze, con la loro inesistente costituzione biologica, e non il contrario, così “non sono le differenze fisiche, la morfologia e la fisiologia dei sessi ad aver prodotto i generi, nonché la loro gerarchizzazione e asimmetria sociale, bensì il sessismo ad aver arbitrariamente scelto quei caratteri come segni distintivi rispettivamente del sesso dominante e di quello dominato[8].

Nel “Manifesto”, datato ed eccessivo, pubblicato nel 1969 dal gruppo Redstockings, uno dei più radicali del movimento americano di liberazione della donna, viene brutalmente anticipata la connessione fra appropriazione sessuale e svalutazione del lavoro femminile, che avrebbe poi prodotto un ricco e articolato dibattito sulla valutazione economica del lavoro domestico e, per estensione, sull’impiego e la retribuzione delle donne nei lavori “di genere”: inevitabilmente oblativi, vocazionali, educativi e riparativi.

Riabilitare la cura. Critica e decostruzione

Quando parliamo di cura, di cosa parliamo? Il tema ricorre in diversi momenti del pensiero antico e moderno: dagli scritti di Virgilio e Seneca alla pratica della cura delle anime di origine socratica; da filosofi come Kierkegaard e Heidegger; fino a Hans Jonas, che trova nella cura la base di un'etica della responsabilità che risponda alle trasformazioni apportate dalla civiltà tecnica.

Nel corso degli ultimi decenni, la figura femminile ha subito cambiamenti significativi. Tuttavia, l'identificazione tra cura e donne è profondamente radicata nel nostro immaginario, creando un effetto ambivalente.
Da un lato, evoca quell’immagine tradizionale delle donne, che le ha confinate alla funzione di custodi dei bisogni e delle aspettative dell’altro, relegate nella sfera privata ed escluse dalla sfera pubblica. Dall’altro, viene assunta come una preziosa eredità da valorizzare per legittimare e ri-conoscere la “diversità” delle donne.
Dal momento in cui la cura viene riconosciuta come una qualità eminentemente femminile, essa subisce un processo di svalutazione e di marginalizzazione che accomuna il suo destino all’universo femminile.
Rousseau, in epoca moderna, sancisce una funzione riduttiva della cura, segregata al privato e alle donne, con la loro conseguente esclusione dalle vicende del mondo e dall’agire razionale. È sulla differenza dei sessi che si fonda l’opposizione tra una sfera pubblica, del maschile e una sfera privata governata dal femminile. E la donna diventa, realizzando la propria, “presunta vocazione naturale”, il soggetto di cura per eccellenza.
Si assiste così a uno scenario dicotomico: da un lato, vi è il soggetto razionale, maschile, autonomo che agisce nella società e nel mondo, dall’altro un soggetto dipendente, femminile che è confinato al privato e si definisce essenzialmente attraverso la relazione con l’altro. Tale legame, apparentemente complementare, assegna al secondo solo una funzione riproduttiva e sussidiaria. La cura, intesa come sintesi di altruismo, dipendenza, affettività, diventa il risvolto necessario di un soggetto egemone e sovrano, che si costruisce attraverso il mito dell’autosufficienza e della libertà da ogni forma di dipendenza.
Per riabilitare la cura, allora è necessaria una duplice operazione critico-decostruttiva. Da un lato sottoporre a critica la figura del soggetto maschile-patriarcale (dal soggetto cartesiano all’homo oeconomicus della tradizione liberale), dall’altro, restituire dignità alle nozioni di dipendenza e di relazione, liberandole dagli aspetti oblativi e sacrificali, da sempre associati al femminile. Riabilitare la cura può voler dire, attribuire agli uomini una etica dei diritti e della giustizia, fondata su principi astratti e formali, e alle donne un’etica della cura e della responsabilità, fondata su criteri concreti e contestuali di interdipendenza e di relazionalità. Ma attenzione, questo schema non dicotomico, esige la complementarità tra le due prospettive etiche che rispondano a due visioni del sé diverse, ma parimenti legittime e necessarie: l’una in quanto pone l’accento sulla separazione e sull’autonomia, l’altra in quanto valorizza l’attaccamento e la connessione.

È Gilligan nel testo Con voce di donna a suggerire un diverso approccio etico, basato sulla relazione più che su principi astratti. Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è necessaria perché aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Si tratta di uscire dalla contrapposizione tra un soggetto sovrano e autosufficiente rispetto al quale l’altro gioca un ruolo solo secondario (e strumentale) per pensare invece un soggetto in relazione, in quanto vulnerabile. Nella vulnerabilità risiede in altri termini, ciò che motiva l’io a prendersi cura dell’altro in quanto consapevole della propria costitutiva dipendenza e mancanza. Eva Kittay propone di fondare la cura su un’ontologia della dipendenza che tende ad affrancarla da ogni riduzionismo assistenzialistico e da ogni pericolo di gerarchia, tra chi dà e chi riceve cura. Dipendenza e vulnerabilità perdono quel carattere penalizzante e sacrificale che ha costellato il destino e l’identità delle donne, per diventare fondamenti di un soggetto in relazione, capace di dare e di ricevere attenzione ed empatia, in quanto disposto a mettersi in gioco, a lasciarsi alterare e contaminare dall’altro da sé [9].

Bibliografia

Arendt, H. The Human Condition, University of Chicago Press 1958, tr. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1989.

Gilligan C. (1987), Con voce di donna, Feltrinelli, Milano

Héritier, F., (1997) (1996), Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Editori Laterza, Bari

Kittay, E. Love’s Labor. Essays on Women, Equality and dependency, New York 1999, tr. it. La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Milano 2010.

Sarti, R. (2016), Badante: Una nuova professione? Luci e ombre di una trasformazione in atto, in Maioni, R. e Zucca, G. (a cura di), Viaggio nel lavoro di cura, Roma, Ediesse.

Muraro L. (2011), Non è da tutti. L‘incredibile fortuna di nascere donna. Carocci, Roma

Note


 

[1]Anche se viene utilizzata la categoria del genere, l’approccio, in questo testo, privilegia una lettura del mondo femminile da diverse angolazioni disciplinari. Consapevole della parzialità delle analisi, lo scopo è dare delle suggestioni sui significati socioculturali della sessualità e dell’identità di genere, in breve su come la società, a seconda del periodo e del luogo, interpreta le differenze.

[2]Touraine A. (2009), Il mondo è delle donne. Il Saggiatore, Milano, p. 265

[3] Nancy J.L. (2001), Essere singolare plurale, Einaudi,Torino

[4]Esempio con i disegni: “Il disegno di me e dell’altro” chiede agli studenti di disegnare prima un maschio e poi una femmina, e alle studentesse la stessa cosa. Il confronto tra i disegni può sviluppare interessantissime riflessioni: “come vediamo noi stessi e uno studente del sesso opposto?”, “quali differenze? Quali similitudini?  “un maschio disegna un maschio nello stesso modo in cui lo disegna una femmina? (e viceversa)”, etc.

[5]Cfr. A.Rivera, La Bella, la bestia e l’umano. Roma, Ediesse, 2010, p.39: “Il termine, forgiato nell’ambito della lingua inglese, è preso in prestito dalla grammatica, che è per l’appunto una costruzione (Varikas, 2009). La metafora grammaticale vale a sottolineare il carattere storico e convenzionale, nonché l’instabilità di ciò che è definito e istituito come maschile e femminile, in una società e in un tempo determinati, e a svelare i procedimenti di differenziazione dicotomica che naturalizzano i sessi e la loro gerarchia. Questa metafora permette altresì di includere e di esplorare il campo del neutro, cioè l’infinitezza, la mescolanza l’ibrido, la porosità dei confini fra i generi.”

[6]Con il senso che gli viene tuttora attribuito nell’ambito degli studi sociali, il concetto di genere compare per la prima volta nel 1975 in un saggio dell’antropologa Gayle Rubin The traffic in Women: Notes on the “political economy” of sex, in cui, nella scia degli studi di Lévi-Strauss sulle strutture elementari della parentela, viene ridefinito come sex-gender system l’insieme di norme e istituzioni attraverso le quali le società trasformano in regole, prodotti e convenzioni sociali la natura biologica della sessualità e della procreazione.

[7]Piccone Stella, S., Saraceno, C., (1996), Introduzione. La storia di un concetto e di un dibattito, in Piccone Stella, S., Saraceno, C. (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile”, Il Mulino, Bologna

[8]Rivera A. (2010), La bella, la bestia e l’umano, Ediesse, Roma, p. 43

[9]Pulcini E. (2010), La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale. Bollati Boringhieri, Torino

 

Scrive...

Stefania Tirini Insegnante di filosofia e scienze umane nell'I.I.S.S. "G. Galilei" di Firenze Ph.D. in Filosofia e Scienze Umane

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